mercoledì 20 marzo 2024

MZ 732

Profilo delle motozattere tipo MZ-A, cui apparteneva la MZ 732 (da Historisches Marinearchiv)


Motozattera della prima serie della classe MZ, tipo "MZ-A", unità derivate dalle Marinefährprahme tedesche e costruite in vista del mai attuato sbarco a Malta. Lunga 47 metri e larga 6,5, con un pescaggio di un metro se scarica, dislocava 140 tonnellate, che potevano salire a 239 a pieno carico (poteva caricare 65 tonnellate di materiali).
Era propulsa da tre motori diesel prodotti dalle Officine Meccaniche di Milano, della potenza complessiva di 450 HP; raggiungeva una velocità di undici nodi, con un’autonomia di 1450 miglia a 8 nodi. L’armamento consisteva in un cannone da 76/40 mm ed una o due mitragliere da 20/70 mm, l’equipaggio era normalmente composto da tredici uomini.
La MZ 732 era la prima delle dieci motozattere (da MZ 732 a 741) costruite presso i Cantieri Navali Riuniti di Ancona.

Breve e parziale cronologia.

13 giugno 1942
Varata nei Cantieri Navali Riuniti di Ancona.
29 giugno 1942
Entrata in servizio.
31 agosto 1942
La MZ 732 salpa da Brindisi alle 18.15 per trasferirsi in Africa, con soste intermedie in Grecia ed a Creta, navigando in gruppo insieme alle gemelle MZ 733, 735, 736, 737, 738, 740 e 741. Le piccole unità trasportano complessivamente 367 tonnellate di rifornimenti: 30 tonnellate di munizioni, 25 di materiali vari, 16 carri armati (peso totale 240 tonnellate), due autoblindo (peso totale 14 tonnellate) e nove automezzi (peso totale 58 tonnellate), oltre a 30 uomini del Regio Esercito diretti in Africa.
1° agosto 1942
Le otto motozattere fanno scalo al Pireo, da dove poi proseguono con la scorta della torpediniera Castore, del cacciatorpediniere Lubiana e di due rimorchiatori, l'Audax e l'Instancabile.
4 agosto 1942
Dopo una sosta a Suda, le motozattere ripartono alle 20 dirette a Tobruk, insieme al piroscafo Scillin e con la scorta della sola Castore, che dovrà accompagnarle nel tratto più lungo e insidioso della navigazione.
6 agosto 1942
La MZ 732 e le gemelle arrivano a Tobruk alle 9: ha per loro inizio l’incessante spola lungo le coste cirenaiche ed egiziane, trasportando preziosi rifornimenti dai porti in cui vengono sbarcati dalle grandi navi (Tobruk, appunto, e Bengasi) a porticcioli più piccoli e più vicini alla linea del fronte, dove le navi di maggior pescaggio non possono arrivare.

Sicilia ’43

Una delle pagine più importanti nella storia del loro infaticabile quanto oscuro servizio le motozattere la scrissero nel luglio-agosto del 1943, durante l’invasione della Sicilia. Furono infatti queste piccole unità, insieme ad un pugno di piroscafetti costieri ed ai pochi traghetti ferroviari lasciati a galla dai continui bombardamenti che da mesi martellavano Messina, a sobbarcarsi l’incombenza di traghettare tra le due sponde dello stretto di Messina decine di migliaia di soldati italiani e tedeschi, con i loro mezzi ed il loro armamento, prima in un senso e poi nell’altro: prima portarono rinforzi dalla Calabria alla Sicilia, quando ancora in alto loco ci si illudeva di riuscire a ributtare in mare gli attaccanti; poi, una volta che fu divenuto evidente che la Sicilia era persa, riportarono sul continente le truppe italiane e tedesche in ritirata.
Attorno a Messina venne preparata una mezza dozzina di punti d’imbarco, solitamente in fondo alle valli, dove le motozattere sia italiane che tedesche imbarcavano truppe e mezzi che provvedevano poi a traghettare attraverso lo stretto, sbarcandoli in altrettante località prestabilite della costa calabra. Siccome vi erano più motozattere tedesche che italiane, venne deciso che queste ultime avrebbero trasportato soltanto truppe, mentre i veicoli, indipendentemente dall’esercito cui appartenevano, sarebbero stati imbarcati sulle unità tedesche; il risultato fu però che i tedeschi tennero per sé quasi tutti gli automezzi italiani evacuati sulle loro motozattere.
L’attività delle motozattere in quell’infuocata estate fu come sempre instancabile, e svolta in condizioni infernali. Non appena avevano sbarcato le truppe in Calabria, i “muli del mare” ripartivano subito per un nuovo viaggio verso la costa siciliana; strada facendo, come anche sulle spiagge di imbarco e di sbarco, erano oggetto di continui attacchi aerei, che tuttavia il più delle volte fallivano grazie alla loro rabbiosa reazione contraerea, oltre che all’opera delle poderose artiglierie antiaeree appostate su entrambe le sponde dello Stretto, che impedirono agli Alleati di sfruttare appieno la loro superiorità aerea.
In un’evacuazione paragonata talvolta a quella che tre anni prima si era svolta a Dunkerque, il naviglio dell’Asse riuscì a portare in salvo attraverso lo Stretto oltre 100.000 uomini (62.182 italiani e 39.659 tedeschi), 47 carri armati (tutti tedeschi), 14.332 veicoli (di cui solo 227 italiani), 135 cannoni (41 italiani e 94 tedeschi), 1100 tonnellate di munizioni e 20.700 di altri materiali.

Questa notevole impresa non poté naturalmente essere portata a termine senza perdite tra il naviglio impiegato nell’evacuazione, anche se la fortuna fece sì che non una sola motozattera italiana venisse centrata e affondata mentre era in navigazione nello stretto carica di truppe: le perdite avvennero sempre sulle spiagge od in prossimità di esse e coinvolsero sempre motozattere scariche, i cui equipaggi riuscirono in massima parte a mettersi in salvo.
Prima ad andare perduta fu la MZ 734, distrutta da un attacco aereo a Taormina il 31 luglio 1943; la MZ 756 e la MZ 765 subirono la stessa sorte il 6 agosto, rispettivamente a Gioia Tauro ed a Ganzirri, e la MZ 787 fece la medesima fine a Bagnara Calabra il giorno seguente. La MZ 701 II (già MZ 759) venne affondata sulla spiaggia di Vibo Valentia l'11 agosto. 
Per rimpiazzare queste perdite, altre motozattere vennero inviate nello Stretto da Taranto e da Castellammare di Stabia: tra i rimpiazzi mandati da Taranto vi era anche la MZ 732, insieme alle MZ 781 e 784.

La cronistoria degli ultimi due giorni di vita della MZ 732 dà un quadro piuttosto esauriente dell’attività svolta dalle instancabili motozattere in quegli infernali giorni d’agosto.
Alle sei del mattino del 12 agosto 1943 la MZ 732, al comando del sottotenente CREM Luigi Giorgi, salpò da Bagnara Calabra diretta a Mortelle, frazione di Messina scelta per essere uno dei punti d’imbarco per le truppe in ritirata, dove avrebbe dovuto imbarcare truppe italiane e tedesche da evacuare dalla Sicilia. Giunta in quella località alle 7.10, la motozattera prese a bordo circa duecento soldati con cavalli e motociclette, dopo di che ripartì alle 8.15, raggiungendo Bagnara Calabra alle 9.25. Sbarcate le truppe, ripartì alle 10.10 per un nuovo viaggio attraverso lo stretto; mezz’ora più tardi la MZ 732 venne attaccata da aerei, che indusse alla ritirata con il tiro delle proprie artiglierie contraeree. 
Alle 11.20 la motozattera diede nuovamente fondo davanti a Mortelle, dove rimase in attesa dell’arrivo di altre truppe da imbarcare; alle 14.30 ripartì con a bordo circa 250 militari, raggiungendo Bagnara alle 15.40.
Ripartita per la terza volta alle 16.15, la MZ 732 venne attaccata da quattro cacciabombardieri dopo un quarto d’ora: di nuovo aprì il fuoco con cannone e mitragliere, inducendo uno degli aerei ad una precipitosa fuga ma non gli altri tre, che si avvicinarono per tentare di mitragliarla. Il preciso tiro contraereo della piccola unità centrò l’aereo di coda della formazione, che andò a schiantarsi sulle montagne della Calabria, e dissuase gli altri due dall’avvicinarsi per mitragliare; i due velivoli rimasti effettuarono allora un giro al largo e tentarono di tornare all’attacco provenendo dal mare, ma il fuoco di sbarramento della motozattera li indusse a rinunciare definitivamente ed andarsene. 
Dato fondo a Mortelle alle 17.30, la MZ 732 imbarcò altri trecento soldati e due automezzi, per poi ripartire alla volta di Bagnara alle 18.50. Subito dopo la partenza venne respinto col tiro contraereo un nuovo attacco da parte di cinque caccia, ed alle 19.30 la motozattera raggiunse Bagnara per la terza ed ultima volta nell’arco di quella giornata.

Alle sei del mattino del 13 agosto la piccola nave salpò da Bagnara per una nuova giornata da “traghetto” attraverso lo stretto, ma alle 6.50 il motore di dritta fu colto da un’avaria; riparato il guasto, alle 7.10 la motozattera rimise in moto e diresse a tutta forza verso Mortelle, dove arrivò alle 7.25 ed iniziò subito ad imbarcare truppe. Ad ogni viaggio il numero dei soldati da evacuare andava aumentando: adesso ne furono presi a bordo più di 500; mentre le operazioni d’imbarco erano in corso, alle 7.50, sei caccia attaccarono in picchiata la MZ 732 con lancio di bombe, che non colpirono il bersaglio grazie all’accurato tiro delle mitragliere della motozattera, che li dissuase dall’avvicinarsi troppo.
Lasciata Mortelle alle 8.10, la motozattera arrivò a Bagnara alle 9.20; in dieci minuti sbarcò tutte le truppe, ed aveva appena finito quando alle 9.30 un aereo apparve da una montagna poco distante e scese in picchiata sganciando tre bombe, ben dirette ma fortunatamente troppo lunghe o troppo corte: una esplose a terra e due in mare, senza fare danni. 
Finito l'attacco, alle 9.50 la MZ 732 ripartì per Mortelle, ed alle 10.20 fu oggetto dell’ennesimo attacco aereo: stavolta da parte di ben dodici caccia, che sganciarono altrettante bombe. Nessuno degli ordigni, pur cadendo piuttosto vicini, arrecò alcun danno alla motozattera, grazie anche al suo continuo zigzagamento; il tiro delle sue mitragliere colpì invece uno degli attaccanti, che fu visto perdere quota ed allontanarsi verso il mare aperto, per poi precipitare in acqua a circa tre miglia dalla costa. Gli altri aerei se ne andarono.
Giunta a Mortelle alle 11.05, la motozattera non vi trovò più truppe da imbarcare; ricevette allora l’ordine di caricare sei automezzi e due moto da portare sul continente, ed alle 13.15 ripartì con a bordo questo carico più una trentina di soldati. Mezz’ora dopo la partenza fu attaccata e mitragliata da quattro caccia, senza subire danni, reagendo col tiro del proprio armamento contraereo che indusse ancora una volta gli assalitori ad allontanarsi. 
Tornata a Bagnara alle 15.45, impiegò un'ora e venti minuti per sbarcare i veicoli, dovendo continuamente interrompere le operazioni a causa dei continui attacchi aerei; alle 17.10, cessato l’allarme, riprese il mare ancora una volta diretta a Mortelle.

Alle 17.50 la MZ 732 si trovava in navigazione nel Golfo di Scilla quando fu attaccata da dieci cacciabombardieri. I primi due ad attaccare sganciarono le loro bombe e poi si gettarono in picchiata per mitragliare la motozattera, ma furono entrambi colpiti dal tiro delle sue mitragliere: incendiati, precipitarono l’uno in mare e l’altro su una montagna sulla costa. Poco dopo, tuttavia, la mitragliera poppiera della MZ 732 s’inceppò, e questo facilitò gli attacchi degli altri aerei, che continuarono a sganciare bombe: la piccola unità cercò di evitarle zigzagando, ma la sua fortuna era finita.
Una prima bomba esplose in mare a poppa, a soli 3-4 metri di distanza, con violenza tale da sollevare la motozattera dal mare e farvela poi ricadere; un’altra esplose anch’essa in mare sulla dritta, a sei metri di distanza, all’altezza della plancia. Due dei tre motori della MZ 732 si arrestarono di colpo, costringendo a proseguire a ridotta velocità con il solo motore ancora funzionante; venne continuato il tiro con la mitragliera di prua, finché gli aerei non si allontanarono. Alle 18 venne cessato il fuoco e la motozattera si diresse verso terra per verificare i danni, ma prima di arrivarci anche il terzo motore si fermò. Non riuscendo a mettere la prua a terra, il comandante Giorgi fece dare fondo all’ancora di poppa e poi assicurare la nave ad un relitto, al largo di Scilla.

L'esame dei danni diede un quadro poco incoraggiante: i due motori che si erano fermati per primi avevano l’alimentazione tranciata; l’impianto elettrico non funzionava più; il deposito munizioni era allagato; i locali del comandante e dell’equipaggio erano danneggiati; lo scudo che proteggeva le riservette del cannone era caduto sull’affusto, rendendo impossibile il suo brandeggio; lo scafo era sforacchiato in più punti dai colpi di mitragliera e presentava sulla dritta una rientranza di circa trenta centimetri, in corrispondenza della quale il fasciame si era schiodato. 
L'equipaggio scese a terra per passare la notte, durante la quale si verificarono ripetuti attacchi aerei sia sulla motozattera che sulla zona circostante, fortunatamente senza causare altri danni o perdite.
Tornato a bordo alle sei del mattino del 14 agosto, l'equipaggio della MZ 732 dovette arrendersi all’evidenza: la motozattera non si sarebbe mai più mossa di lì. I danni erano troppo gravi per essere riparati con i mezzi disponibili, e non era possibile rimettere in funzione i motori. L’acqua aveva ormai riempito le sentine del locale macchina, e la motozattera era sbandata sulla dritta ed era affondata di una ventina di centimetri rispetto alla sera precedente, il che lasciava presagire che vi fossero altre falle, non rilevate, sulla dritta; anche nella cabina del comandante c’erano 5-6 centimetri d’acqua.
Al sottotenente Giorgi non rimase che ordinare all’equipaggio di sbarcare i propri effetti personali. Alle undici di quel mattino militari del Regio Esercito provvidero a smontare le due mitragliere, che erano ancora utilizzabili; non fu possibile recuperare altro materiale per via dell’isolamento della località e della mancanza di mezzi di trasporto. Per evitare che la motozattera si capovolgesse, in considerazione anche del basso fondale, verso le 11.30 vennero sparati alcuni colpi di mitragliera sul lato sinistro dello scafo.
Alle 12.30 la MZ 732 era poggiata sul fondale, lasciando emergere soltanto la tuga e la plancia. La sua breve vita era giunta al termine: per lo meno, non si erano lamentate perdite tra l'equipaggio.

venerdì 1 marzo 2024

Capo Alga

Il Capo Alga sotto il precedente nome di Munbeaver (da www.shipscribe.com)


Piroscafo da carico di 4723 tsl e 2891 tsn, lungo 117,3 metri, largo 15,5 e pescante 8,44, con velocità di 10,5-11 nodi ed autonomia di 4100 miglia. Di proprietà della Società Anonima Compagnia Genovese di Navigazione a Vapore, con sede a Genova, ed iscritto con matricola 2213 al Compartimento Marittimo di Genova; nominativo di chiamata IBKZ.

La storia ufficiale dell’USMM lo descrive così: “Costruita nel 1918 e destinata a percorrere le rotte dell’Atlantico, era una nave da carico tozza e pacifica che le vicissitudini della guerra avevano ora designata a violare per prima il blocco britannico”.


Breve e parziale cronologia.


25 maggio 1916

Impostato nei cantieri della Merchant Shipbuilding Corporation (già Chester Shipbuilding Company) di Chester, Pennsylvania (numero di costruzione 340). È la prima di un gruppo di cinque navi ordinate dalla Shawmut per sostituire le unità della sua flotta d’altura, vendute in blocco al governo francese.

29 settembre 1917

Varato nei cantieri della Merchant Shipbuilding Corporation di Chester come Sudbury, per la Shawmut Steamship Company Inc. di Boston. Madrina del varo è la moglie del presidente della Shawmut Steamship Company, Harris Livermore, che presenzia al varo insieme ad altri alti funzionari della società, tra cui il vicepresidente Lester H. Monks ed il sovrintendente alle attività marittime Moore.

Durante la costruzione il piroscafo viene requisito dallo United States Shipping Board (ente governativo incaricato della gestione della flotta mercantile statunitense durante la prima guerra mondiale, e nella sua espansione per soddisfare le esigenze belliche americane ed alleate mediante acquisizioni, requisizioni e programmi di costruzione basati su progetti standardizzati) per conto della Marina statunitense.

4 o 5 marzo 1918

Completato come trasporto USS Sudbury (ID-2149) per il Naval Overseas Transportation Service della Marina statunitense (componente della Marina statunitense istituita nel gennaio 1918 per gestire il trasporto dei rifornimenti per le truppe statunitensi dispiegate in Europa: al suo apice giungerà ad avere una flotta di oltre 450 navi da carico), entrando in servizio il giorno stesso a Filadelfia. Stazza lorda originaria 5075 tsl, netta 3041 tsn, dislocamento 10.400 tonnellate, portata lorda 7200 o 7500 tpl, nominativo di chiamata LJQV, porto di registrazione Boston; è armato con un cannone da 127/51 mm ed un cannoncino Hotchkiss da 57 mm.

Ne è comandante il capitano di corvetta Charles F. Smith, della United States Naval Reserve Force; l’equipaggio è variamente indicato dalle fonti in 52 (di cui dieci ufficiali) o 104 uomini (in tempo di guerra; in tempo di pace, 38 uomini).

20 marzo 1918

Il Sudbury salpa da Filadelfia per il suo primo viaggio con un carico di rifornimenti per l’esercito statunitense, dirigendo inizialmente per New York.

24 marzo 1918

Si unisce a New York ad un convoglio in partenza per la Francia.

8 aprile 1918

Arriva a Brest, da dove poi prosegue per Bordeaux, ove scarica il carico.

5 maggio 1918

Lascia Bordeaux per fare ritorno a New York. Durante il viaggio di ritorno, qualche giorno dopo aver lasciato la Francia, si verifica un’avaria alla turbina, con la rottura dei denti del pignone di dritta, il che costringe ad usare solo la turbina a bassa pressione, con una velocità massima di nove nodi. Controlli effettuati all’arrivo a New York mostreranno che i denti del pignone si sono rotti a causa della cattiva qualità dell’acciaio con cui sono stati realizzati, probabilmente dovuta ad un errore nel trattamento termico del metallo; si scoprirà anche che anche alcuni denti del pignone di sinistra presentano delle fratture, pur non avendo dato problemi durante la navigazione.

Giugno-Dicembre 1918

Compie altri tre viaggi dagli Stati Uniti alla Francia.

29 settembre 1918

Il guardiamarina John Michael White, della United States Naval Reserve Force, muore per influenza spagnola a bordo del Sudbury.

10 gennaio 1919

Salpa da Filadelfia diretto a Trieste.

3 aprile 1919

Fa ritorno a Filadelfia.

11 aprile 1919

Radiato dai quadri della Marina statunitense, trasferito allo United States Shipping Board e subito restituito alla Shawmut Steamship Company.

1919-1923

Impiegato sulla tratta Amburgo-Plymouth-Rosario-New York.

7-9 dicembre 1920

Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre un incendio scoppia a bordo del Sudbury (capitano Walter O’Brien), in navigazione da New York a San Francisco, quando la nave si trova 150 miglia a sud di San Pedro, in California, ed a 70 miglia dalla costa. L’incendio ha origine in nella stiva numero 3, dove tra l’altro sono contenuti olii e vernici; a scatenarlo sono state probabilmente delle scintille generate dallo sfregamento del carico spostatosi all’interno della stiva. Il calore generato dall’incendio è tale che i piedi dei marinai rimangono scottati dal contatto col ponte arroventato, con formazione di vesciche, ed i gas tossici costringono più volte l’equipaggio a retrocedere. Il piroscafo chiede aiuto via radio e vengono preparate le scialuppe quando sembra che la battaglia contro l’incendio sia irrimediabilmente persa (si teme anche che le fiamme possano raggiungere l’olio motore e la formaldeide che fa parte del carico, con conseguenze disastrose), ma alla fine l’equipaggio riesce a domare le fiamme con i mezzi disponibili a bordo, a mezzogiorno dell’8 dicembre, ed a raggiungere San Diego nella notte sul 9 dicembre, con la nave fortemente sbandata a sinistra a causa della grande quantità d’acqua pompata nella stiva. Dopo l’arrivo in porto, il mattino del 9 dicembre, l’incendio scoppia nuovamente; stavolta intervengono i pompieri, che aprono un varco nello scafo con i cannelli acetilenici per domare le fiamme.

I danni causati dall’incendio vengono valutati dagli assicuratori in un milione di dollari; la nave viene riparata a San Francisco, dove giunge il 16 dicembre dopo aver fatto scalo intermedio a San Pedro.

Già a fine dicembre, il Sudbury è in grado di riprendere il servizio tra i porti delle due coste degli Stati Uniti per la American-Hawaiian Shipping Company, salpando da Tacoma con un carico di traversine ferroviarie.

Novembre 1924

Mentre è a bordo del Sudbury, ormeggiato nel porto di Portland, per ispezionare un carico di vetro destinato alla W. P. Fuller Company prima che venga scaricato, W. B. Miller, dipendente di tale società, inciampa in un’apertura non protetta nel ponte e rimane ferito. Miller farà causa per questo alla American Ship Commerce Navigation Corporation, ma il giudice respingerà la sua richiesta di risarcimento non essendosi potuto dimostrare, come Miller sostiene, che egli fosse salito a bordo su richiesta degli agenti dell’armatore anziché di sua iniziativa.

1925

Trasferito alla American Ship & Commerce Navigation Company di New York, che ha assorbito la Shawmut Steamship Company; in gestione alla United American Lines di New York.

1926

Mentre la chiatta Commandant sta caricando delle billette di acciaio sul Sudbury, ormeggiato nel porto di Baltimora, una billetta del peso di 17 tonnellate scivola fuori dall’imbragatura e cade dalla gru della Commandant nella stiva numero 1 del piroscafo, danneggiandone lo scafo. Ne seguirà una causa legale presso la Corte distrettuale del Maryland tra i proprietari del Sudbury e quelli della Commandant. Al processo, quattro testimoni chiamati dagli armatori del Sudbury affermeranno che la billetta è caduta dall’imbragatura dopo aver urtato la mastra del portellone della stiva numero 1, mentre un testimone chiamato dai proprietari della chiatta negherà che l’urto abbia avuto luogo. I proprietari del piroscafo attribuiscono la colpa dell’accaduto alla chiatta ed al suo equipaggio, mentre quelli della chiatta incolpano i quattro portuali ingaggiati dagli armatori della nave per assistere nelle operazioni di caricamento, che non avrebbero imbragato adeguatamente la billetta (che sarebbe caduta perché imbragata male e non per aver urtato la mastra per errata manovra della gru della Commandant, cosa quest’ultima che negano sia avvenuta); il giudice darà ragione agli armatori del Sudbury, sostenendo che gli stivatori, essendo passati di fatto agli ordini del personale della chiatta durante il caricamento, ricadessero sotto la responsabilità di quest’ultima (pur essendo stati ingaggiati dai proprietari del Sudbury) e che dunque alla chiatta ed ai suoi proprietari vada in ogni caso la responsabilità dell’accaduto. I proprietari del Commandant saranno pertanto condannati a risarcire i danni subiti dal Sudbury.

Nel marzo 1928 il marinaio Otto Wahrenberg, rappresentante del Sindacato Internationale dei Marinai (International Seamens’ Union), descriverà in questi termini le condizioni di lavoro a bordo del Sudbury nel luglio-agosto 1926, epoca in cui navigava per la United American Line, davanti al Comitato sulla Marina Mercantile e peschereccia della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti: “I salari su questa nave erano di 55 dollari per i marinai: il cibo era pessimo, ed il personale di coperta era composto in maggioranza da uomini che non sapevano fare il lavoro del marinaio. Gli alloggi erano sporchi e malsani, i gabinetti intasati ed allagati, ed il ponte sopra la mia cuccetta era affetto da infiltrazioni d’acqua. Ho dovuto farmi dare un pezzo di tela dall’ufficiale per tenere fuori l’acqua. Avevamo tre giovani dell’Università di Yale, che si pagavano il passaggio di ritorno da San Francisco, dov’erano giunti in automobile, alla costa atlantica lavorando. Non erano mai stati in mare prima, ed erano stati imbarcati con lo stipendio di un centesimo al mese. Io mi ero imbarcato come marinaio, ma dopo pochi giorni ero stato promosso a timoniere, ed ho poi fatto le funzioni del nostromo per il resto del viaggio, perché il nostromo titolare era rimasto ferito ad un braccio ed ha passato il resto del viaggio in infermeria. Durante tutto il tempo che ho passato a bordo, non è mai stato messo un telone sul ponte per riparare dal sole, nonostante il caldo fosse terribile, salvo che il giorno prima che raggiungessimo il Canale di Panama. Il telone è durato poche ore, ed è stato ridotto a brandelli nel cuore della notte quando uno scroscio di pioggia ha colpito la nave. Era così vecchio da risultare irreparabile. Un marinaio aveva la febbre, ed è stato ricoverato nell’ospedale di Savannah, dove sono sbarcati anche gli studenti di Yale, che hanno preso il biglietto per New York. Il personale di coperta su questa nave consisteva in un nostromo, quattro timonieri, due marinai e tre mozzi, per un totale di dieci uomini in coperta, di cui quattro potevano fare il lavoro dei marinai. Tre dei quattro timonieri facevano i turni di guardia; l’altro, cioè io, svolgeva i lavori giornalieri. Di notte c’era un mozzo di vedetta in coperta dalle quattro a mezzanotte ed un altro da mezzanotte alle otto. Nessuno dei due aveva esperienza di mare. Il mozzo di vedetta sostituiva il timoniere al timone alle dieci di sera ed alle due di notte per mezz’ora. In questo lasso di tempo non c’era nessuno di vedetta. Chiamava anche il personale di guardia alla prima campana, portava il caffè all’ufficiale in plancia, e lasciava il suo posto di vedetta ogni volta che gli veniva ordinato. Tutto il resto del personale – nostromo, due marinai, un mozzo ed io – svolgeva i lavori giornalieri. Noi marinai riteniamo che ciò sia contrario alla legge. (…) Durante tutto il viaggio risentii del caldo e della mancanza d’aria negli alloggi. Il carico di legname sul ponte era accatastato davanti agli oblò a ridottissima distanza, impedendo all’aria di circolare. Il ponte di poppa, dove si trovavano il cassero e la stanza del timoniere, era soggetto ad infiltrazioni d’acqua, e quando pioveva non c’era un posto asciutto dove dormire o tenere i vestiti”.

1927

Acquistato dalla Munson Steamship Line Inc. di New York e ribattezzato Munbeaver (inizialmente, dal 1927 al 1930, ne risulterà proprietaria la Sudbury Steamship Corporation di New York, una holding appositamente costituita dalla Munson Line). Porto di registrazione New York, nominativo di chiamata WKCO; posto in servizio nei collegamenti tra le due coste degli Stati Uniti. Stazza lorda e netta sono 4835 tsl e 2980 tsn, portata lorda 7200 tpl.

(Secondo un sito, il Sudbury avrebbe brevemente cambiato il nome in Munbeaver nel 1927, per poi tornare a chiamarsi ancora Sudbury dal 1927 al 1933, quando assunse definitivamente il nome di Munbeaver. Sembra probabile un errore).

1938

Acquistato, in seguito al fallimento della Munson Line, dalla Compagnia Genovese di Navigazione a Vapore, con sede a Genova, e ribattezzato Capo Alga; viene sottoposto a lavori di raddobbo ed adattamento per il servizio con la nuova compagnia.

Insieme ad esso, la Compagnia Genovese di Navigazione a Vapore acquista anche un altro piroscafo della Munson Line, il più piccolo Munsomo, ribattezzato Capo Orso.

La Compagnia Genovese di Navigazione a Vapore, nota internazionalmente come ‘Capo Line’ (dato che tutte le sue navi portano nomi di Capi), sta rapidamente espandendo la propria flotta: dai tre piroscafi del 1930, la compagnia è giunta a possederne dieci nel 1938. Sono tutte navi di seconda mano; tutte costruite in cantieri britannici, tranne Capo Alga e Capo Orso, che sono i primi piroscafi di costruzione statunitense ad essere acquistati dalla società (sono stati venduti nell’ambito di un piano per “svecchiare” la flotta mercantile statunitense).


Il varo del Sudbury (New York Commercial)


Forzare il blocco


Nel maggio del 1940 il Capo Alga compì un viaggio in Sudamerica, dove caricò 5100 tonnellate di merci di vario genere per conto di varie società italiane, svizzere e jugoslave. Completato il carico, il piroscafo lasciò Buenos Aires per tornare a Genova, ma il 6 giugno, mentre ancora era in pieno Atlantico, ricevette via radio l’ordine del Ministero delle Comunicazioni (che aveva competenza sulla Marina Mercantile), per tramite dell’armatore e della Capitaneria di porto, di rifugiarsi a Santa Cruz de Tenerife, nell’isola omonima dell’arcipelago delle Canarie. L’Italia stava per entrare nella seconda guerra mondiale, e per il Capo Alga, come per duecento altre navi mercantili italiane in navigazione in quel momento nei mari di tutto il mondo, non c’era più tempo per rientrare in Mediterraneo prima che la dichiarazione di guerra italiana portasse i britannici, padroni di entrambi i suoi accessi (Suez e Gibilterra), a sbarrarli a tutti i bastimenti del nuovo nemico. Non restava dunque che rifugiarsi in porti di nazioni che sarebbero rimaste neutrali, e se possibile favorevoli all’Italia, come appunto la Spagna franchista: ben 32 bastimenti italiani (20 navi da carico per complessive 106.608 tsl e 12 navi cisterna per totali 67.952 tsl) vi avrebbero infatti trovato rifugio a ridosso della dichiarazione di guerra, in parte nei porti della costa atlantica spagnola ed in parte in quelli delle Canarie. 

Il Capo Alga arrivò a Santa Cruz de Tenerife proprio il 10 giugno, il giorno dell’ingresso in guerra dell’Italia. In quel porto, oltre al Capo Alga, si rifugiarono i piroscafi da carico Madda, Andalusia e Teresa Schiaffino e le petroliere Recco, SangroTodaro, Taigete ed Arcola; altre sei navi da carico e due navi cisterna si rifugiarono a Las Palmas, nell’isola di Gran Canaria. Il 19 luglio la Compagnia Genovese di Navigazione a Vapore informò i proprietari delle merci trasportate dal Capo Alga che la nave si era rifugiata a Tenerife per ordine superiore, fornendo loro le istruzioni per ritirare le merci a Tenerife, qualora lo avessero voluto (consegna delle polizze originali firmate, sollevando la società armatrice da ogni responsabilità sul carico con la consegna a Tenerife anziché a Genova, e contribuzione in ragione del 10 % del valore delle merci). Nessuno ne fece richiesta.

Pur avendo evitato la cattura, il Capo Alga e le altre navi rifugiatesi nei porti spagnoli e di altri Paesi neutrali si trovavano ora bloccate in quei porti, con la prospettiva di passarvi tutta la guerra senza poter essere in alcun modo di aiuto allo sforzo bellico italiano. Non la pensavano così vertici della Marina italiana, che presero la decisione di cercare di trasferire almeno una parte di quelle navi in porti controllati dall’Asse, violando la sorveglianza aeronavale britannica: nella fattispecie, quali porti di destinazione per questi violatori di blocco vennero scelti quelli della costa atlantica francese, occupata dalle forze tedesche, e specialmente quello di Bordeaux, frattanto diventato la sede di una base atlantica di sommergibili italiani, «Betasom». In questo modo sarebbe stato almeno possibile recuperare i carichi di quei mercantili, consistenti in gran parte in materiali che sarebbero stati molto utili per l’industria bellica e le forze armate dell’Asse. Nella pianificazione del trasferimento dei mercantili italiani dai porti neutrali di mezzo mondo a quelli della Francia occupata, la scelta ricadde, per prima cosa, proprio sui bastimenti rifugiatisi in Spagna e nelle Canarie: decisione logica, in quanto i porti spagnoli e canari erano quelli più vicini alla Francia, dunque le navi provenienti da tali sorgitori avrebbero compiuto un percorso più breve, e risultavano dunque più facilmente “recuperabili”. Agli inizi del 1941, le navi mercantili italiane internate in Spagna ed alle Canarie erano ancora in soddisfacenti condizioni di efficienza, per quanto la forzata inerzia in porto, protrattasi per diversi mesi, avesse influito negativamente sia sugli scafi che sugli equipaggi. Le modalità ed i tempi per il trasferimento delle navi vennero decise in una serie di riunioni tenutesi a Roma nell’autunno del 1940 tra rappresentanti dei Ministeri della Marina, delle Comunicazioni, degli Esteri e degli Scambi e Valute, ed il 14 dicembre 1940 le relative disposizioni vennero comunicate agli addetti navali italiani in Spagna ed in Brasile (altro Paese dal quale sarebbero partiti molti “violatori di blocco” diretti in Francia). Primi a partire furono due bastimenti che si trovavano in porti della costa atlantica spagnola, la nave cisterna Clizia (a San Juan de Nieva) ed il piroscafo Capo Lena (a Vigo): il loro viaggio, compiuto nel febbraio 1941, procedette senza intoppi.

Mentre si compiva il trasferimento di Clizia e Capo Lena, nello stesso mese di febbraio 1941 i mercantili italiani presenti nei porti delle Canarie vennero concentrati in due soli porti – Santa Cruz de Tenerife e Las Palmas – in modo da porli al riparo da eventuali tentativi di colpi di mano di navi da guerra britanniche. A Santa Cruz de Tenerife era arrivata, già dal precedente novembre, la pirocisterna Burano, proveniente da Santa Cruz de la Palma; per il resto le navi presenti in quel porto erano le stesse del giugno 1940. Sette delle navi, insieme a due piroscafi tedeschi, erano ormeggiate affiancate in una lunga fila al centro della rada: tra di esse anche il Capo Alga, ormeggiato all’estremità meridionale della fila (da sud verso nord c’erano Capo Alga, Arcola, Burano, Madda, una nave tedesca, Taigete, Teresa Schiaffino, Todaro e l’altra nave tedesca). Le altre tre – Recco, Sangro e Andalusia – erano invece ormeggiate, anch’esse affiancate, accanto al molo-frangiflutti che delimitava il porto a levante. L’8 febbraio il capitano di vascello Aristotele Bona, addetto navale italiano a Madrid, ordinò con foglio riservato personale al capitano di fregata Eugenio Normand (dopo essersi messo d’accordo con il console italiano a Santa Cruz, Roberto Giardini) di recarsi nelle Canarie, ispezionare i mercantili italiani ivi internati per verificare le condizioni di efficienza di ciascuno di essi, ed iniziare ad organizzarne il trasferimento verso la Francia occupata. Il comandante Normand volò dunque alle Canarie e, con l’aiuto del console Giardini, provvide alla sua “ricognizione”, di cui riferì al capitano di vascello Bona il 5 marzo. Normand poté partire per le Canarie solo il 13 febbraio, con un aereo spagnolo; atterrò alle 19 di quel giorno a Las Palmas, nell’isola di Gran Canaria, dove il governatore spagnolo appose la sua autorizzazione sul passaporto diplomatico di Normand. Più difficile fu raggiungere Tenerife: il piccolo aereo che collegava quell’isola con Gran Canaria effettuò due false partenze, e infine raggiunse Santa Cruz de Tenerife soltanto il 17 febbraio. Nei quattro giorni intercorsi, pertanto, Normand raccolse informazioni utili per la sua missione, mantenendo al contempo il segreto sulle sue finalità. 

Giunto infine a Santa Cruz de Tenerife, l’ufficiale si mise all’opera: fin da subito rilevò che la sosta forzata di otto mesi nei porti canari – la cui popolazione mostrava quasi all’unanimità simpatie nei confronti dei britannici – aveva nociuto allo stato di conservazione e di approntamento degli scafi, anche perché alcuni armatori avevano ridotto al minimo le spese per la manutenzione delle loro navi ed anche soppresso diverse indennità senza nemmeno aspettare provvedimenti ufficiali delle corporazioni interessate. Normand prese contatto con i comandanti dei vari bastimenti italiani, iniziando col far notare loro che le lavi si trovavano in una situazione precaria, esposte a colpi di mano britannici così come a possibili mutamenti della situazione esterna della Spagna; poi li invitò a spiegare quali provvedimenti, secondo loro, avrebbero potuto essere adottati; infine giunse al nocciolo della questione: nel volgere di qualche giorno, li convinse che far partire le navi cariche per Bordeaux e Saint Nazaire fosse non solo possibile, ma addirittura necessario, dando ad intendere che le Marine italiana e tedesca e la Luftwaffe avrebbero “coperto” la loro traversata con adeguati appostamenti ed altri provvedimenti, anche se non la loro presenza non sarebbe risultata visibile. Come ulteriore incentivo, infine, annunciò che per gli equipaggi delle navi che fossero giunte in Francia ci sarebbe stato un premio. L’insieme di questi argomenti finì col convincere anche i più titubanti della necessità di partire; a questo punto, Normand consegnò ai comandanti le istruzioni segrete che aveva ricevuto, e che provvide a spiegare. Tutti i comandanti si dichiararono contrari ad una partenza simultanea, in massa, pur affermando che se questi fossero stati gli ordini, li avrebbero eseguiti. Parere contrario ad una partenza contemporanea venne anche espresso dal console italiano Giardini, dal console tedesco e dal funzionario consolare tedesco che doveva organizzare la partenza dei mercantili tedeschi (insieme ai bastimenti italiani, infatti, c’erano a Santa Cruz anche due navi tedesche, destinate anch’esse a partire per la Francia). 

Dai tedeschi, che avevano già maturato una certa esperienza in materia di violatori di blocco, Normand apprese che era pressoché impossibile tenere segreti i preparativi di partenza, mentre non altrettanto difficile era mantenere la segretezza sulla data in cui questa sarebbe avvenuta. Dunque la cosa migliore da farsi era di compiere simultaneamente i preparativi per la partenza di tutte le navi, cercando ad ogni modo di occultarli per quanto possibile; poi, far riprendere alle navi la normale quotidianità dei mercantili internati per qualche tempo, in modo da far pensare ad una falsa partenza ed indurre gli eventuali osservatori nemici a rilassare la vigilanza; indi, trascorso abbastanza tempo, far partire all’improvviso i mercantili. Era opportuno informare le autorità locali della partenza, per rispettare le formalità e non “offenderle”, ma soltanto all’ultimo momento, indicando una falsa destinazione, oppure il mattino seguente. Altra cosa che Normand notò era che i mercantili tedeschi a Tenerife erano stati completamente verniciati di grigio: informandosi a riguardo, apprese che le sovrastrutture bianche risultavano troppo visibili anche di notte, e che effettuare la verniciatura durante la navigazione era molto difficile, perché gran parte dell’equipaggio doveva vigilare contro eventuali avvistamenti di navi od aerei, lasciando ben pochi uomini a verniciare la nave (opera che così si protraeva per parecchi giorni), e per giunta i colpi di mare rimuovevano la vernice appena stesa, ancora fresca. Dunque, era più agevole verniciare i bastimenti mentre erano in porto, anche se questo significava tradirne le intenzioni. Come prima cosa, per evitare fughe di notizie, Normand troncò tutte le corrispondenze, sia postali che telegrafiche, tra gli equipaggi dei mercantili, le loro famiglie e gli armatori; giustificò questo provvedimento affermando che la precedente corrispondenza era stata tutta intercettata dal nemico, che ne aveva ricavato importanti informazioni. D’ora innanzi, spiegò Normand, i marittimi avrebbero dovuto consegnare tutta la loro posta alle autorità consolari, che l’avrebbero inviata in Italia per mezzo dell’ambasciata italiana, in un plico speciale diplomatico sigillato. Per non sollevare sospetti, ed avendo ogni mercantile un unico radiotelegrafista, venne ordinato che l’ascolto radio non avesse inizio fino a quando non fosse stato impartito un apposito ordine dalle autorità consolari, che avrebbero a loro volta saputo la data di inizio dall’ufficio di Normand, il quale l’avrebbe comunicata mediante un telegramma commerciale convenzionale.

Per quanto riguardava le dieci navi presenti a Santa Cruz de Tenerife, Normand trovò che Capo AlgaReccoSangroTodaroMadda e Burano erano cariche; TaigeteArcolaAndalusia e Teresa Schiaffino erano scariche, dunque il loro trasferimento non risultava di grande utilità. Nessuna di queste quattro navi, infatti, lasciò Tenerife; venne inoltre escluso dalla partenza il Madda, perché aveva le caldaie in pessime condizioni in seguito alla loro alimentazione d’emergenza con acqua di mare, avvenuta all’indomani della dichiarazione di guerra per sfuggire ad una nave francese. In definitiva, vennero scelte come “violatori di blocco” metà delle navi presenti nel porto: Capo Alga, ReccoSangroTodaroBurano. Per quanto concerneva le condizioni materiali delle navi, Normand trovò che alcune delle petroliere avevano le carene in pessime condizioni, a causa dei lunghi periodi trascorsi dall’ultimo carenaggio che avevano effettuato, mentre altre navi avevano le caldaie piuttosto malridotte; niente però che non fosse risolvibile in tempi ragionevolmente brevi con i mezzi disponibili sul posto. Terminata la sua “ricognizione”, Normand diede il via ai lavori per preparare le navi al viaggio. Le sovrastrutture di tutti i mercantili – anche quelli scarichi, presumibilmente per confondere le idee di eventuali osservatori circa quali navi sarebbero realmente partite –, da bianche che erano, vennero riverniciate di grigio; al contempo, su disposizione del Ministero, tutti i fumaioli vennero dipinti di nero. Si procedette inoltre alla pulizia degli scafi: nella zona del bagnasciuga, per circa un metro e mezzo, questo lavoro venne compiuto dagli equipaggi stessi; per le carene, si ricorse al palombaro di fiducia già impiegato dai tedeschi, dai quali Normand se ne fece fornire l’identità. L’ordine e le date di approntamento delle diverse navi vennero scelte proprio in base ai tempi di pulitura di eliche e carene.

Molti dei mercantili presenti alle Canarie vi erano giunti con un numero di ufficiali minore di quello previsto dalle tabelle d’imbarco, numero che si era ancora ridotto durante il periodo di internamento; Normand decise pertanto di spostare alcuni ufficiali da una nave all’altra, là dove più era necessaria la loro presenza, affinché su ciascun bastimento che aveva “carenza” di ufficiali il loro numero risultasse pari a quello che era al momento della dichiarazione di guerra. Si provvide poi a completare le scorte di provviste di ciascuna nave in vista di un viaggio che sarebbe durato alcune settimane: particolare importanza fu data alla farina, necessaria per poter preparare il pane e la pasta. Dato che il piroscafo Atlanta, presente a Las Palmas, aveva a bordo tra l’altro un carico di carne in conserva e di caffè, Normand fece prelevare da quella nave due tonnellate di carne e 250 chili di caffè, requisiti per mezzo del console di Tenerife, provvedendo poi a distribuire il tutto a tutte le navi, sia quelle destinate a partire che quelle che sarebbero rimaste. Inoltre, Normand dispose che ciascuna nave, senza cambiare le modalità giornaliere, provvedesse ad accumulare ogni giorno viveri freschi, frutta e verdura, accrescendo le provviste normali, per creare delle scorte. I mercantili che non sarebbero partiti avrebbero dovuto consegnare l’eccedenza a quelli scelti per la traversata. Per la navigazione, vennero acquistate ed inviate a Tenerife delle carte nautiche ed idrografiche per arrivare fino al Golfo di Biscaglia, fornendole a ciascuna nave. Altra questione da affrontare era quella del carburante, di cui non tutte le navi destinate a partire disponevano a sufficienza: una delle navi per le quali ciò rappresentava maggiormente un problema era proprio il Capo Alga; Normand ordinò che l’Arcola, che non doveva partire, gli cedesse 600 tonnellate di nafta. Infine vennero predisposte le disposizioni per l’autoaffondamento, nel caso le navi fossero state intercettate da unità da guerra nemiche. Era, questa, una prospettiva tutt’altro che remota: alle Canarie i britannici avevano creato un’efficiente e capillare rete di informatori, e le acque tra quell’arcipelago ed il Golfo di Biscaglia erano pattugliate da incrociatori ausiliari di base a Gibilterra ed a Freetown, da sommergibili e da aerei da ricognizione a lungo raggio. L’addetto navale italiano a Madrid e le autorità consolari italiane alle Canarie erano al corrente di questi rischi, di cui avevano avvisato i comandanti dei violatori di blocco.

A fine marzo 1941 i preparativi erano ormai terminati: si decise di dare il via alle partenze, anche se diversi comandanti italiani e tedeschi espressero parere contrario. Fu proprio il Capo Alga ad essere scelto per tentare per primo la sorte: avrebbe lasciato Santa Cruz de Tenerife il 1° aprile, insieme alla nave cisterna Burano. Le due navi avrebbero navigato separatamente; si riteneva che la partenza simultanea di due bastimenti avrebbe incrementato le loro probabilità di successo, ed anche in seguito i violatori di blocco sarebbero infatti partiti a coppie. I preparativi per la partenza non erano sfuggiti agli informatori britannici attivi a Tenerife, che il 29 marzo 1941 segnalarono che Capo Alga e Burano erano pronti a partire, così come una terza cisterna, la Todaro (come indicato nel "Weekly Intelligence Report" numero 56 del 4 aprile 1941; successivamente, la "Weekly Résumé of the Naval, Military and Air Situation" n. 83 del War Cabinet britannico, che copriva il periodo dal 27 marzo al 3 aprile 1941, riportò puntualmente la partenza del Capo Alga da Tenerife nella notte del 1° aprile, ma i britannici non furono comunque in grado di organizzarne l’intercettazione).

Alle otto di sera del 1° aprile 1941 il Capo Alga, al comando del capitano di lungo corso palermitano Gaspare Bozza, mollò dunque gli ormeggi ed uscì a lento moto dal porto di Santa Cruz de Tenerife. La rotta tracciata per raggiungere la Francia si snodava per oltre tremila miglia, quasi il triplo rispetto alla rotta diretta dalle Canarie alla Francia, in quanto doveva passare lontano dalla costa africana e dalle Azzorre, puntando verso il punto 45° N e 30° O – punto noto tra i violatori di blocco tedeschi come “l’angolo della strada” – nel quale volgeva ad est verso il Golfo di Biscaglia e la costa atlantica francese. (I violatori di blocco avrebbero sostanzialmente compiuto un largo giro, procedendo inizialmente verso ovest per oltre 850 miglia, allontanandosi dalle Canarie e dall’Africa, poi accostando verso nordovest e seguendo tale rotta per altre 250 miglia, indi verso nord per quasi ottocento miglia; solo a quel punto avrebbe avuto inizio l’avvicinamento alle coste europee, con rotta dapprima verso nordest per 450 miglia e poi verso ovest per oltre settecento, atterrando verso Capo Finisterre per poi seguire la costa settentrionale iberica e risalire il Golfo di Biscaglia fino all’arrivo a destinazione). Per confondere eventuali osservatori e per non essere avvistato dagli innumerevoli pescherecci che infestavano la zona, una volta fuori dal porto il comandante Bozza assunse inizialmente rotta verso est, quindi verso nord ed infine verso ovest, passando a nord di Tenerife, alla massima velocità consentita dalle sue macchine e dalle condizioni dello scafo (la storia ufficiale dell’USMM afferma che la sua velocità massima effettiva era compresa tra i 9 ed i 9,5 nodi, a fronte di una velocità massima “teorica” di 10,5, ma cita anche il rapporto del capitano di fregata Normand che stimava invece un massimo di 8-8,5 nodi). Dopo una settimana di navigazione in cui non era stata avvistata anima viva (di notte, l’avvistamento da parte di unità nemiche era reso particolarmente difficile dall’assenza di luna, che garantiva così una buona sicurezza alla nave), l’8 aprile il Capo Alga raggiunse il meridiano 37° O. L’equipaggio era di buon umore: tutto era filato secondo i piani, nessuna traccia della Royal Navy o della RAF ed anche il tempo era bello. Assunta rotta verso nord, il piroscafo la seguì fino all’11 aprile, quando puntò direttamente verso Belle Ile, sempre procedendo a tutta forza.

Alle 9.25 del 16 aprile, la quiete di una traversata senza storia venne turbata dall’avvistamento da parte delle vedette in coffa di un aereo sconosciuto verso poppa. Avvicinatosi il velivolo, tuttavia, i contrassegni sulle ali e sulla fusoliera vennero riconosciuti per quelli della Luftwaffe: era un amico; dopo aver effettuato qualche evoluzione, l’aereo si allontanò verso sud. Alle 10.05 il Capo Alga venne sorvolato da un altro ricognitore tedesco, che si allontanò poi verso sudest. (Dobrillo Dupuis, nel suo libro "Forzate il blocco!", parla anche di un grosso quadrimotore che avrebbe sorvolato la nave a più riprese la notte precedente, proprio mentre il fumaiolo aveva iniziato ad emettere una colonna di fumo insolitamente denso per via di un problema alle macchine; di questo episodio non si fa però menzione nel volume USMM "I violatori di blocco"). Nel primo pomeriggio dello stesso 16 aprile, in posizione 46°58' N e 05°25' O (a circa 120 miglia dalla costa francese), venne avvistato del fumo all’orizzonte. Il Capo Alga accostò subito a tutta forza verso nord-nord-ovest, per evitare l’incontro, ma dopo un’ora venne avvistato un veliero verso prua. Il fumo era frattanto scomparso, pertanto il comandante Bozza ordinò di virare verso est-nord-est, in direzione della costa francese ormai vicina. (Secondo Dobrillo Dupuis, una volta superato Capo Finisterre ed entrato nel Golfo di Biscaglia il Capo Alga seguì le rotte costiere). Nella notte vennero avvistati diversi fanali, attribuiti a pescherecci francesi. Oscurato alla perfezione, il piroscafo italiano non venne avvistato e superò indenne anche quella notte, per poi avvistare, alle otto del mattino del 17 aprile – al largo di Belle Isle –, due dragamine tedeschi (M-Boote), venutigli incontro per assumerne la scorta nel tratto finale della navigazione. Imboccata la rotta di sicurezza, nella scia dei dragamine, dopo uno scambio di saluti e di segnali di riconoscimento, il Capo Alga giunse a Saint Nazaire nel pomeriggio (secondo l’USMM; secondo Dobrillo Dupuis, nelle prime ore della notte); vi sostò però per meno di un giorno, perché l’indomani mattina, su ordine del Comando tedesco, proseguì per Nantes, più a monte lungo la Loira, dove entrò con le macchine al minimo alle 12.30 del 18 aprile, dandovi fondo e concludendo finalmente il suo viaggio. Tre giorni dopo, anche la Burano raggiungeva felicemente Saint Nazaire. Il primo tentativo di forzamento del blocco dalle Canarie era stato coronato da pieno successo; il comandante Bozza del Capo Alga venne decorato con la Croce di Guerra al Valor Militare, con motivazione “Comandante di piroscafo, riusciva senza scorta né armamento bellico a raggiungere un porto alleato, dopo aver compiuto la traversata dell’Oceano, percorrendo zone intensamente vigilate dal nemico”.

Sbarcato il carico, il Capo Alga venne privato anche dell’equipaggio, ormai non più necessario, che venne rimpatriato. Non avrebbe più lasciato Nantes: adibito a nave deposito della Kriegsmarine, rimase in quel porto e l’8 settembre 1943, in seguito all’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, vi venne catturato dalle forze tedesche. Danneggiato da un bombardamento britannico a Nantes nel marzo 1944 e mai riparato, il 18 agosto 1944 il Capo Alga venne autoaffondato dai tedeschi all’estuario della Loira, come ostruzione alla navigazione. (Sembra però esservi qualche incertezza su dove esattamente la nave venne autoaffondata: il volume USMM "Navi mercantili perdute" parla della foce della Loira, quindi nei pressi di Saint Nazaire, e qualche sito menziona esplicitamente tale porto come luogo dell’affondamento; ma altre fonti parlano invece di Nantes, compresa l’edizione dell’8 agosto 1946 della "Lloyd’s Lists and Shipping Gazette", che parla del recupero in corso del relitto del piroscafo, che giaceva nei pressi dello stabilimento Brulee. Nantes però era stata liberata dagli Alleati già il 12 agosto 1944, sei giorni prima della data in cui i tedeschi vi avrebbero affondato il Capo Alga). Il relitto venne recuperato e demolito dai francesi nel 1946.

Le vicende belliche del Capo Alga ebbero un curioso strascico giudiziario nel dopoguerra, presso la Corte d’Appello di Genova. Il Consorzio acquisto semi oleosi ed olii industriali di Milano, uno dei proprietari delle merci trasportate dal Capo Alga nel suo ultimo viaggio, fece causa alla Compagnia Genovese di Navigazione a Vapore perché questa aveva preteso, per il ritiro delle merci sbarcate a Nantes, un sovrapprezzo pari al 25 % del loro valore, a titolo di compenso per la “custodia e magazzinaggio” durante la permanenza a Tenerife, e per il loro successivo trasporto da Tenerife a Nantes, considerando il viaggio per cui i destinatari avevano pagato – quello iniziato a Buenos Aires nel maggio 1940 – come concluso con l’arrivo a Tenerife il 10 giugno 1940. La società armatrice adduceva a motivo di tale pagamento il fatto che le traversie che avevano interessato il Capo Alga dal 6 giugno 1940 in poi potessero essere equiparate ad un’«avaria comune» (art. 643 del Codice di commercio: “le spese straordinarie e i danni sofferti volontariamente per il bene e per la salvezza della nave e del carico”; ed articolo 649 del Codice della navigazione: “le spese e i danni direttamente prodotti dai provvedimenti ragionevolmente presi, a norma dell’art. 302, dal comandante o da altri in sua vece, per la salvezza della spedizione (…) sempre che il danno specifico volontariamente prodotto non sia quello stesso che si sarebbe necessariamente verificato secondo il corso naturale degli eventi”), e che pertanto i relativi costi supplementari non potessero essere addebitati all’armatore se non in minima misura. La corte d’appello di Genova, nella sentenza emessa il 15 aprile 1946, negò che le peripezie del Capo Alga tra il giugno 1940 e l’aprile 1941 potessero costituire un’«avaria comune», mancando per prima cosa la volontarietà del dirottamento a Tenerife e del successivo viaggio a Nantes, entrambi non decisi dal comandante o dall’armatore, ma disposti dal governo dell’epoca con ordine perentorio e inderogabile. Né questi cambiamenti di programma erano stati dettati dallo scopo di salvare il carico nell’interesse dell’armatore e dei proprietari delle merci, bensì per superiori ragioni di interesse militare (sottrarre nave e carico alla cattura da parte del nemico, con il dirottamento a Tenerife, e renderli utili allo sforzo bellico dell’Asse, con il trasferimento a Nantes).

Un’altra ancor più assurda diatriba legale si svolse nel 1957 in Francia, dove la Corte delle Prede (Conseil des prises) fu chiamata a stabilire quale fosse la nazionalità del Capo Alga per poterne ufficialmente dichiarare la cattura da parte delle autorità francesi, pur essendo la nave già stata recuperata e demolita da un decennio. La corte si rifece ad un vecchio principio della giurisprudenza francese, che stabiliva che una nave, per essere considerata come della nazionalità rappresentata dalla bandiera che batteva, doveva appartenere per più della metà a persona fisica o giuridica residente in tale Stato. Per determinare la nazionalità del Capo Alga la Corte delle Prede considerò il Paese dov’era stata costruita, quello in cui si trovava il porto di registrazione, la nazionalità dell’armatore e quella di chi “controllava” effettivamente la nave; furono presi in considerazione persino la provenienza dei fondi usati per pagare il cantiere costruttore, la nazionalità di chi l’aveva pagato e le finalità d’impiego della nave. Venne quindi deciso che era da considerarsi nave di Paese nemico, e quindi la cattura (…postuma…) poteva regolarmente avere luogo.


Versione colorizzata della fotografia del varo (da www.shipscribe.com)


Il Sudbury su Navsource

Il Sudbury su Shipscribe

La Munson Line su Theshipslist

Navi costruite dalla Chester Shipbuilding Company

Il Sudbury sul sito del Naval History and Heritage Command

L’USS Sudbury

Le navi della Munson Line su Histarmar

Lloyd’s List and Shipping Gazette

Weekly Intelligence Report Number 56 – April 4, 1941

War Cabinet – Weekly Résumé (No. 83) of the Naval, Military andAir Situation from 12 noon March 27th, to 12 noon April 3rd, 1941

Sentenza 15 aprile 1946; Pres. Perosio, Est. Costa; Consorzio acquisto semi oleosi (Avv. Bissaldi) c. Compagnia genovese navigaz. (Avv. Filippi), Reale mutua assicurazione (Avv. Casella) e Ministero finanze

The United States Merchant Marine in World War I

The New Navy, 1883-1922

Notizia sul “Riverside Daily Press” del 9 dicembre 1920

Journal of the American Society of Naval Engineers

New York-Old and New

Notizia sul “Morning Oregonian” del 16 dicembre 1920