venerdì 31 luglio 2015

RD 30

L’RD 30 a Taranto (Coll. Guido Alfano via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net

L’RD 30 era uno dei numerosi piccoli rimorchiatori-dragamine della serie RD, costruiti in 57 unità con diverse varianti, tra il 1916 ed il 1926, da numerosi cantieri italiani.
L’RD 30 apparteneva alla classe RD 27, di quattro unità, e venne impostato il 16 marzo 1918 nei cantieri navali Franco Tosi di Taranto; varato il 22 ottobre dello stesso anno, fu completato il 21 febbraio 1919, quando la prima guerra mondiale era già finita da diversi mesi.
Lungo 36,5 metri, largo 5,8 e pescante 2, aveva un dislocamento di 200 tonnellate ed una velocità di 13-14 nodi, ed era armato con un cannoncino da 76/40 mm e due mitragliatrici da 13,2 mm. L’equipaggio era composto da 21 uomini.
Poco si sa sulla storia di questa nave, pressoché trascurata, come tante altre piccole unità, da opere maggiormente incentrate su operazioni cui essa non prese parte, o su navi di maggiore importanza.
Era presente nella base di Taranto, l’11-12 novembre 1940 (ormeggiata in Mar Piccolo), quando quella base venne attaccata da aerosiluranti britannici che affondarono la corazzata Conte di Cavour e posero fuori uso le corazzate Littorio e Duilio (la “notte di Taranto”); non fu però coinvolta nell’attacco.
Sul finire del 1942 l’RD 30, verosimilmente, venne dislocato in Tunisia durante la riorganizzazione delle forze dell’Asse in Africa Settentrionale, con la ritirata dalla Libia in procinto di cadere in mano britannica.
Non durò a lungo nelle tormentate acque della Tunisia: il 26 dicembre 1942, infatti, l’RD 30 venne colpito da schegge di una bomba durante un bombardamento aereo angloamericano sul porto di Biserta. Le schegge forarono lo scafo e resero la caldaia inutilizzabile; si tentò di portare la nave su bassi fondali, ma alle 13.30 – mentre era in corso il tentativo – l’RD 30 si capovolse ed affondò nelle acque del porto.
Non vi furono perdite tra il suo equipaggio.

Un’altra immagine della nave a Taranto (g.c. Mauro Millefiorini via www.naviearmatori.net)


lunedì 27 luglio 2015

Alpino Bagnolini

Il Bagnolini rientra a Taranto dalla prima missione di guerra (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net

Sommergibile oceanico della classe Liuzzi (dislocamento in superficie 1166 tonnellate, in immersione 1484). Fino all’armistizio effettuò 3 missioni di guerra in Mediterraneo e 8 in Atlantico, percorrendo complessivamente 46.413 miglia in superficie e 3908 in immersione ed affondando due navi mercantili di complessive 6962 tsl di stazza ed una nave da guerra del dislocamento di 4118 tonnellate.

Breve e parziale cronologia.

15 dicembre 1938
Impostazione nei cantieri Franco Tosi di Taranto.
28 ottobre 1939
Varo nei cantieri Franco Tosi di Taranto.
22 dicembre 1939
Entrata in servizio. Assegnato alla XLI Squadriglia Sommergibili del IV Grupsom, di base a Taranto, insieme ai tre gemelli (Console Generale Liuzzi, Capitano Tarantini e Reginaldo Giuliani). Nei mesi successivi disimpegna il proprio addestramento, sino a raggiungere un ottimo grado di efficienza operativa.
6 giugno 1940
Il Bagnolini (tenente di vascello Franco Tosoni Pittoni) molla gli ormeggi all’1.15 e lascia Taranto per formare con altri sommergibili (Salpa, Capitano Tarantini e Reginaldo Giuliani, disposti ad una distanza di circa venti miglia l’uno dall’altro) uno sbarramento per perlustrazione a sud di Creta (zona «C»), subito prima dell’ingresso in guerra dell’Italia (10 giugno 1940).

Il tenente di vascello Franco Tosoni Pittoni, comandante del Bagnolini (g.c. Giovanni Pinna)

7-8 giugno 1940
Il Bagnolini prosegue nella navigazione verso la zona assegnata, insieme al Tarantini, partito insieme a lui.
9 giugno 1940
Alle 20.30 Bagnolini e Tarantini si separano per raggiungere i rispettivi settori.
10 giugno 1940
Alle 9.20, mentre il sommergibile procede in superficie rollando notevolmente a causa del mare mosso (che la sera prima ha provocato la rottura del sestante, impedendo così di fare il punto), viene ricevuto un messaggio da Maricosmo che comunica che le ostilità inizieranno alle ore 24.
Durante la notte successiva, per ridurre al minimo lo scarroccio, il Bagnolini rimane in superficie, tenendosi nei pressi di un punto situato a metà strada tra quello indicato da Roma per assumere libertà di manovra e quello stimato approssimativamente da bordo come posizione effettiva dell’unità.
11 giugno 1940
Alle 3.40, alle primissime avvisaglie del mattino, s’immerge in profondità per non essere avvistato da aerei. Di quando in quando si porta a quota periscopica per verificare la fonte di strani rumori percepiti all’idrofono, ma non si avvista nulla, e si conclude che sono rumori prodotti dal sommergibile stesso.
Alle 9.15 il Bagnolini riemerge, per cambiare l’aria e ricaricare le batterie, procedendo a velocità minima. Non viene avvistato nulla, ma vengono tenuti pronti due siluri nei tubi prodieri e due in quelli poppieri, predisposti per assumere automaticamente un'angolazione di 30°, rispettivamente a dritta e a sinistra.
12 giugno 1940
La ricarica delle batterie si conclude alle 00.10.
Alle 00.50, quando il Bagnolini si trova una cinquantina di miglia a sudest dell’isolotto di Gaudo, una vedetta chiama il comandante Tosoni Pittoni (anch’egli in torretta) e gli indica due sagome oscure, a prora dritta: sono due cacciatorpediniere in navigazione a velocità elevata, troppo lontani per poter tentare un attacco. Perplesso che possano essere in giro da soli, Tosoni Pittoni fa assumere rotta perpendicolare ad essi, ed aumentare la velocità.
Verso le 00.56, mentre il sommergibile è sempre in superficie, vengono infatti avvistate, circa 80° a prora sinistra (con un beta di 30° a dritta, cioè in rapido avvicinamento e rotta di collisione con il Bagnolini), altre due unità ad una distanza di cinque chilometri: due anziani incrociatori leggeri britannici, il Caledon ed il Calypso (3rd Cruiser Squadron, scortato dalla 10th Destroyer Flotilla composta dai cacciatorpediniere Dainty, Greyhound, Griffin, Havock e Hotspur), che procedono in linea di fila su rotta nordovest, zigzagando (un’accostata ogni 1820 metri) a 20 nodi. Salpati da Alessandria d’Egitto la mattina precedente, fanno parte di un’aliquota della Mediterranean Fleet britannica (hanno lasciato la base di Alessandria anche le corazzate Warspite e Malaya, la portaerei Eagle, gli incrociatori leggeri Orion, Neptune, Liverpool, Sydney e Gloucester e 12 cacciatorpediniere), uscita in mare per intercettare il traffico navale italiano nel Mediterraneo orientale (per una fonte, in particolare un convoglio italiano che, secondo informazioni pervenute ai britannici, sarebbe diretto in Libia). Sul Calypso il comandante, capitano di vascello Henry Aubrey Rowley, si è ritirato nel suo camerino, lasciando il comando in plancia al secondo; il cambio della guardia è avvenuto da poco meno di un’ora e tutto appare tranquillo, non si avvista niente malgrado la notte chiara, caratterizzata da buona visibilità.
Il Bagnolini, restando in superficie (Tosoni Pittoni non si fida dei lanci notturni in immersione, preferisce sfruttare la velocità e manovrabilità dell’unità in superficie e l’ampia visuale che c’è in torretta), accosta rapidamente a sinistra, per tenere la prua sul nemico, e si avvicina alle unità avversarie (che sono a loro volta in continuo avvicinamento) sino a giungere a 1500 metri di distanza. Viene ordinato il “pronto” al tubo di lancio di prua dritta; vengono chiusi i portelli in torretta, tenendosi pronti ad immergersi non appena venisse ordinato. Alle 00.58, quando gli incrociatori britannici hanno beta 50° e velocità 20 nodi, il Bagnolini lancia un siluro, con angolo di mira 20°, contro l’incrociatore di testa, il Calypso (di 4118 tonnellate di dislocamento): dopo un minuto (alle 00.59, quindi, ma dalle fonti britanniche risulterebbe piuttosto l’una), mentre il Bagnolini, che continua ad avvicinarsi, sta preparandosi ad un secondo lancio (poi non effettuato per la reazione nemica), l’arma va a segno, colpendo l’incrociatore sul lato sinistro, sotto l’impianto «B» da 152 mm (anche se a Tosoni Pittoni sembra invece di aver colpito tra la plancia ed il fumaiolo prodiero: da bordo del sommergibile si ode chiaramente lo scoppio, poi si vede la vittima sparire in una colonna d’acqua alta una cinquantina di metri).
Il Calypso, che si trova otto miglia a prua sinistra della nave ammiraglia della formazione britannica, dopo il siluramento inizia a scadere e segnala di essere stato probabilmente colpito da un siluro; il Caledon ed il cacciatorpediniere Dainty vengono distaccati per recuperarne l’equipaggio. Dopo un’ora e mezza (alle 3.30 per l’orario britannico, un’ora avanti rispetto a quella italiana) il Calypso affonda nel punto 34°03’ N e 24°05’ E (o 33°45’ N e 24°32’ E, 80 km a sud di Capo Lithion, Creta, circa 30 km a sudest di Gaudo e 200 miglia a nordovest di Bengasi), portando con sé un ufficiale e 38 tra sottufficiali e marinai. I superstiti, 24 ufficiali e 394 tra sottufficiali e marinai, vengono recuperati dal Caledon e dal Dainty, che li sbarcheranno poi ad Alessandria d’Egitto.
Nel frattempo, mezzo minuto dopo aver constatato il siluramento del Calypso, il comandante Tosoni Pittoni ordina l’immersione rapida a 60 metri.
La manovra viene rapidamente eseguita; una volta immersi a 60 metri, si sentono a poppa rumori di scoppi, forse bombe di profondità. Tosoni Pittoni, controllando i manuali di riconoscimento, identifica correttamente la vittima come un incrociatore leggero classe Caledon. Non si sentono più detonazioni di bombe di profondità, il che porta a pensare che sia in corso il salvataggio dei naufraghi, ma nemmeno rumore di eliche o di macchine.
Alle due di notte viene comunicato che a poppa c’è una notevole infiltrazione d’acqua attraverso il pressatrecce dell’albero di sinistra, dovuta probabilmente ad una tenuta non perfetta ed alla pressione che c’è a tale profondità. Per ridurre la pressione, Tosoni Pittoni ordina di risalire a 45 metri, poi, non essendo sufficiente, porta il battello a 30 metri, iniziando al contempo l’allontanamento dall’area, dirigendo prima verso est e poi verso nord, ed infine assumendo rotta 310°.
Alle 3.30 il Bagnolini torna a quota periscopica, e non avvista nulla; alle 4.40, invece, avvista nella direzione in cui si era trovato il Calypso l’albero e la coffa di una nave da guerra, che però scompaiono subito dopo, mentre gli idrofoni non rilevano niente. Alle 5 vengono avvistati un incrociatore classe Caledon ed un cacciatorpediniere (probabilmente il Caledon ed il Dainty, che dirigono per la base dopo il recupero dei naufraghi del Calypso), in allontanamento; pur dubitando di poterle attaccare, Tosoni Pittoni assume rotta di massimo avvicinamento e tiene pronti i siluri, ma alle 5.20, constatato che le navi britanniche sono quasi di fianco, a 7.000 metri, e non è possibile raggiungerle, rinuncia all’inseguimento.
Il Bagnolini ha riportato il primo successo del sommergibilismo italiano nel Mediterraneo, che segnala alla base con il messaggio «Bagnolini fine indicazione autorità mittente. Avvistati ore 01.00 cacciatorpediniere seguiti metri 5.000 da incrociatori tipi imprecisati con rotta ovest alt lanciato siluro et colpito incrociatore punto 022512».
Il Calypso è in assoluto la prima nave britannica affondata in guerra dalla Regia Marina; il successo del Bagnolini verrà anche citato nel bollettino di guerra numero 1, con la frase «Nel Mediterraneo nostri sommergibili hanno silurato un incrociatore ed una petroliera di 10.000 tonnellate» (la petroliera era l’Orkanger, norvegese, affondata dal Naiade). Anche l’ammiraglio Andrew Browne Cunningham, comandante della Mediterranean Fleet e assai parco di complimenti nei confronti della Marina italiana, definirà nelle sue memorie l’affondamento del Calypso «Una buona azione per il sommergibile».
Per l’affondamento del Calypso, il comandante Tosoni Pittoni verrà promosso sul campo capitano di corvetta.
22 giugno 1940
Al rientro a Taranto, il Bagnolini è accolto trionfalmente: mentre sfila sotto il ponte girevole con l’equipaggio schierato in coperta, la popolazione di Taranto accorre sulle sponde, saluta e lancia fiori sul sommergibile, che viene poi accolto col saluto alla voce dagli equipaggi delle altre navi ormeggiate in rada, schierati in coperta.

Il Bagnolini passa sotto il ponte girevole di Taranto (da “Gli squali dell’Adriatico. Monfalcone ed i suoi sommergibili nella storia navale italiana” di Alessandro Turrini, Vittorelli Edizioni, 1999, via www.betasom.it

15-24 luglio 1940
Seconda missione di guerra a sud di Creta (insieme ai sommergibili Enrico Toti e Reginaldo Giuliani), ma senza ottenere risultati.
Al rientro alla base, il Bagnolini viene sottoposto a lavori in cantiere per adattarlo al prossimo impiego in Oceano Atlantico.
7 settembre 1940
Lascia Taranto diretto a Trapani.
9 settembre 1940
Il Bagnolini (capitano di corvetta Franco Tosoni Pittoni) lascia Trapani diretto in Atlantico, facendo parte del secondo gruppo di trasferimento (insieme ai sommergibili Giuseppe Finzi e Guglielmo Marconi).
13 (o 14-15) settembre 1940
Supera lo stretto di Gibilterra navigando in superficie nottetempo ed in immersione di giorno; poi viene inviato in un settore di perlustrazione a ponente di Oporto.
17 settembre 1940
Raggiunge la zona assegnata. Nei giorni successivi avvisterà in tutto otto navi mercantili, tutte neutrali.
18 settembre 1940
Intercetta il piroscafo spagnolo Cabo Tortosa (3302 tsl), della compagnia Ybarra & Compagnia di Siviglia. La nave è neutrale, ma i servizi hanno segnalato che trasporta un carico destinato al Regno Unito: si tratta purtroppo di un errore, in quanto il piroscafo trasporta in realtà pirite da Huelva a Bilbao. Il comandante Tosoni Pittoni intende infatti emergere, fermare la nave e controllare se il carico sia veramente di contrabbando bellico come gli è stato riferito, ma l’avvistamento di fumo all’orizzonte lo spinge invece a silurare il Cabo Tortosa senza preavviso. Il mercantile affonda in un’ora e mezza nel punto 41°20’ N e 09°16’ O (al largo di Oporto), senza vittime tra l’equipaggio, che viene recuperato al completo dal piroscafo Monte Ayala (anch’esso spagnolo).
24 settembre 1940
Mentre procede in superficie nel Golfo di Biscaglia, viene assalito da un bombardiere britannico Bristol Blenheim (per altra versione, un idrovolante antisommergibile Short Sunderland) che lo attacca a bassa quota, ma lo respinge con l’accurato tiro delle proprie mitragliere; l’equipaggio ritiene anzi di averlo anche danneggiato, visto che dal motore destro dell’aereo in allontanamento si vede uscire una scia di fumo.
27 settembre 1940
Lascia l’area d’agguato e si avvia alla conclusione della missione, dirigendo per la città francese di Bordeaux, dov’è stata stabilita la base dei sommergibili atlantici italiani di Betasom.
30 settembre 1940
Raggiunge Bordeaux.

Foto ricordo dell’equipaggio del Bagnolini dopo l’arrivo a Bordeaux nel 1940: al centro il comandante Tosoni Pittoni ed accanto a lui il comandante in seconda, tenente di vascello Giuseppe Caito (g.c. Giovanni Pinna)

24 ottobre 1940
Lascia Bordeaux per operare a ponente delle Canarie (per altra fonte, a ovest della Scozia), in gruppo con sommergibili italiani (Giuseppe Finzi, Guglielmo Marconi, Maggiore Baracca ed il Bagnolini stesso, che formano il gruppo denominato proprio «Bagnolini») e tedeschi.
26 ottobre 1940
Il sommergibile britannico Ursula (tenente di vascello Alexander James Mackenzie), in agguato in posizione 46°38' N e 10°20' O nel Golfo di Biscaglia, avvista a quota periscopica, alle 16.30, un sommergibile a soli 90 metri di distanza ed emerge per attaccarlo col cannone, ma il maltempo gli impedisce di usare il cannone, ed il sommergibile avvistato scompare presto alla vista. È probabile che il battello in questione fosse il Bagnolini od il Maggiore Baracca, anch’esso partito da Bordeaux in quei giorni; nessuno dei due riferì di aver avvistato sommergibili nemici, dunque, quale che fosse il sommergibile coinvolto, l’Ursula non venne notato.


La torretta del sommergibile nel giugno 1940 (sopra, g.c. Marcello Risolo) e dopo le modifiche, nel 1941 (sotto, g.c. STORIA militare).


 

28 ottobre 1940
Alle 17.15, a 160 miglia dal settore assegnato al Bagnolini, il sommergibile viene investito da un’onda fuori fase e sguardata rispetto all’onda principale: la massa d’acqua travolge gli uomini di guardia in torretta e si riversa in camera di manovra, trascinando il comandante in seconda ed il secondo capo silurista di guardia nella parte prodiera coperta. Il Bagnolini viene appesantito dall’acqua imbarcata, e prima che possa risollevarsi sull’onda viene travolto da una seconda ondata; il comandante Tosoni Pittoni, in camera di manovra, ordina di aumentare la velocità e prepararsi ad attivare il secondo motore, oltre che di espellere l’acqua che ha allagato la camera di manovra. Poi Tosoni Pittoni sale in torretta ed ordina di accostare di circa 20°, ritenendo pericolosa la manovra per mettere la prua al mare, ed ordina agli uomini di guardia di scendere in camera di manovra, portando sottocoperta anche il secondo capo silurista, stordito per il colpo da poco subito. Nel mentre il Bagnolini viene investito da una terza violenta ondata; qualche secondo dopo, messi in salvo sottocoperta gli uomini che erano di guardia in torretta, Tosoni Pittoni fa fermare il motore, chiude il portello e ordina l’immersione, ma il capo elettricista ai quadri riferisce che non è possibile azionare i motori elettrici, poiché le resistenze di avviamento e di eccitazione sono totalmente sommerse dall’acqua che ha invaso il locale. In camera di manovra l’acqua è giunta all’altezza della mastra delle porte stagne, e solo la rapida chiusura della porta stagna che comunica con i compartimenti prodieri (dove si trovano la batteria, l’impianto girobussola e la convertitrice, che potrebbero essere danneggiati a contatto con l’acqua) ha impedito che anche questi siano allagati; però tutti i motori e gli impianti elettrici che si trovano in basso nella camera di manovra sono allagati, con danni a vari impianti.
Per evitare che il Bagnolini si traversi al mare, Tosoni Pittoni si trova costretto ad ordinare di riaprire il portello e mettere in moto uno dei motori diesel; il sommergibile riassume il comportamento precedente, con onde ora regolari. Grazie a questo temporaneo miglioramento, risulta possibile esaurire l’acqua che ha allagato la camera di manovra, ed effettuare la verifica dei quadri dei motori elettrici.
I danni causati dall’allagamento (in particolare ai motori elettrici di propulsione) costringeranno però il Bagnolini ad interrompere la missione e fare rotta su Bordeaux.
15 novembre 1940
Il sommergibile arriva a Bordeaux.
8 dicembre 1940
Terminati i lavori di riparazione, il Bagnolini (capitano di corvetta Franco Tosoni Pittoni) lascia di nuovo Bordeaux per far parte di un gruppo di sommergibili inviati ad operare ad ovest dell’Irlanda.
18 dicembre 1940
Raggiunge il settore di pattugliamento assegnato.
19 dicembre 1940
Forma, insieme ai sommergibili tedeschi U 38, U 95 e U 124 ed all’italiano Enrico Tazzoli, una linea di pattugliamento a ponente del Canale del Nord.
Lo stesso giorno, il Bagnolini avvista il piroscafo britannico Amicus (3660 tsl), unità dispersa del convoglio «SC 15» (rispetto al quale è rimasto arretrato), appartenente alla Tempus Shipping Company ed in navigazione da Tampa a Ipswich con 5600 tonnellate di fosfati, al comando del capitano W. L. Harries. Al crepuscolo, alle 17.50, il Bagnolini colpisce la nave con un singolo siluro, affondandola nel punto 54°10’ N e 15°50’ O, circa 240 miglia a ponente della Baia di Blacksod (Irlanda). Del suo equipaggio, composto da 35 marittimi civili e 2 militari addetti alle armi di bordo, non vi sarà alcun sopravvissuto.
1° gennaio 1941
Dopo aver festeggiato l’anno nuovo, alle 19.20, nel punto 54°13’ N e 13°55’ O, il Bagnolini avvista un aereo prima di potersi immergere. Solo dopo 40 minuti, calato il buio completo, è possibile immergersi in sicurezza, ma frattanto da parte britannica sono stati inviati dei mezzi antisommergibile.
Il Bagnolini scende a 60 metri di profondità, con navigazione silenziosa, ma viene individuato lo stesso; scende allora a 80 metri, ma non riesce a scrollarsi di dosso gli attaccanti. Quando il battello è giunto a 90 metri di profondità, esplode il primo grappolo di cariche di profondità: sei bombe scoppiano vicine allo scafo, facendo saltare i circuiti elettrici (tanto da far mancare la corrente), rompendo la bussola e causando infiltrazioni attraverso sia il portello di torretta che quello per il caricamento dei siluri; per via della mancanza di elettricità, il Bagnolini sprofonda fino a 130 metri, spingendo Tosoni Pittoni, ritenendo prossimo il collasso del battello, ad ordinare aria alla rapida per evitare la distruzione con perdita totale dell’equipaggio, e tentare invece d’ingaggiare le unità nemiche in un combattimento in superficie.
Giunto in superficie alle 20 (20.45 per l’orario britannico), il Bagnolini trova ed ingaggia battaglia con il piropeschereccio armato Northern Pride (munito di un cannone da 102/45 mm), nel punto 54°12’ N e 13°55’ O (o 54°10’ N e 13°55’ O); gli lancia contro due siluri, mancandolo, poi lo danneggia con il tiro del proprio cannone, riuscendo così a sfuggirgli. (Per altra fonte, il Bagnolini, mentre è impegnato nel combattimento in superficie contro il Northern Pride, tenta anche di silurare una nave che identifica come un incrociatore ausiliario, pur senza riuscirvi.)
L’ardita azione di Tosoni Pittoni, sebbene priva di risultati, verrà apprezzata sia dal comando italiano che da quello tedesco.
3 gennaio 1941
Durante la navigazione di ritorno verso la base, il Bagnolini viene attaccato da un bombardiere britannico Bristol Blenheim, che lancia alcune bombe che però non lo colpiscono.
Il Bagnolini comunica poi a Betasom la situazione: la bussola in avaria, quasi tutte le cassette accumulatori danneggiate, vie d’acqua in più punti dello scafo e motori elettrici in dispersione; fa rotta verso sud.
Stante la gravità della situazione del sommergibile, danneggiato e impossibilitato a difendersi da eventuali attacchi nemici, lo Stato Maggiore di Betasom viene convocato a riunione. Non si può fare molto per aiutarlo; il tenente di vascello Poel, secondo ufficiale di collegamento con il Comando tedesco, offre piena collaborazione, disponendo per il giorno seguente la ricerca e scorta del battello da parte di aerei della Luftwaffe, nonché l’invio di M-Boote (dragamine) che dovranno raggiungerlo, scortarlo e pilotarlo in porto (ma entrambi i provvedimenti saranno ostacolati e vanificati dalla forte tempesta con bufere di neve, mare molto grosso e visibilità scarsissima, scatenatasi l’indomani). A Tosoni Pittoni viene ordinato di cercare di raggiungere Saint Jean de Luz o comunque la costa francese.
Dopo non aver dato notizie di sé per un giorno, il Bagnolini contatta nuovamente Betasom nella notte successiva, riferendo di essere in vista della costa, ma impossibilitato ad orientarsi a causa della bussola in avaria e della tempesta in corso.

Il Bagnolini fotografato durante la navigazione di rientro a Bordeaux, il 3 gennaio 1941, da un ricognitore britannico (g.c. STORIA militare)

5 gennaio 1941
Il Bagnolini, raggiunto e scortato da aerei e M-Boote, entra trionfalmente a Saint Jean de Luz. Da Bordeaux arrivano a fare un sopralluogo il capo di Stago Maggiore di Betasom, capitano di fregata Aldo Cocchia, ed il tenente colonnello commissario Di Losa, che porta all’equipaggio posta e pane fresco.
6 gennaio 1941
Arriva a Bordeaux, festosamente accolto dal personale italiano e tedesco.
20 gennaio-18 aprile 1941
Viene sottoposto a lavori in cantiere per riparare i danni subiti durante l’ultima missione. Durante tale periodo il comandante Tosoni Pittoni, trasferito al sommergibile Michele Bianchi, viene sostituito dal capitano di corvetta Giulio Chialamberto. Si pensa anche di trasferire il Bagnolini a Gotenhafen insieme al gemello Reginaldo Giuliani, per l’addestramento degli equipaggi italiani colà inviati a questo scopo, ma alla fine si deciderà d’inviarvi soltanto il Giuliani, trattenendo il Bagnolini a Bordeaux per esigenze operative.
10 luglio 1941
Viene inviato ad intercettare il traffico britannico a ponente di Gibilterra.
18 luglio 1941
A seguito dell’avvertimento dei comandi tedeschi, da parte di agenti spagnoli, che il convoglio britannico «HG 67» ha lasciato Gibilterra, il Bagnolini, insieme ai sommergibili italiani Malaspina, Morosini, Barbarigo e Torelli, viene posizionato per intercettare il convoglio; ma i comandi britannici, appreso ciò dalle decrittazioni di “ULTRA”, modificano la rotta seguita dall’«HG 67», che evita così lo sbarramento di sommergibili.
22 luglio 1941
A seguito dell’avvistamento dell’«HG. 67» da parte del Barbarigo, il Bagnolini, al pari dei sommergibili tedeschi U 93, U 94, U 124 e U 203, muove per intercettarlo; nessuno di essi riesce tuttavia ad avvistare le unità nemiche.
23 luglio 1941
Avvista, in posizione 35°45’ N e 14°15’ O, un convoglio composto da una ventina di mercantili scortati da quattro cacciatorpediniere, che procede a 7 nodi: si tratta dell’«OG. 68», che il 12 luglio ha lasciato Liverpool per Gibilterra (dove giungerà il 26); lo compongono in realtà 33 mercantili. Il Bagnolini attacca il convoglio per due volte, in posizione 35°37’ N e 14°28’ O, e ritiene di aver silurato una nave cisterna da 8500 tsl (con due siluri, alle 20.18) e forse anche un piroscafo di 5000 tsl (con un siluro, alle 21.34), ma in realtà nessuna nave viene colpita.
28 luglio 1941
Il Bagnolini, i sommergibili italiani Calvi e Barbarigo ed i tedeschi U 66, U 79 e U 126 formano una linea per intercettare il convoglio «HG 68», della cui partenza da Gibilterra la Marina tedesca è stata informata da agenti spagnoli.
29 luglio 1941
Avvista un altro convoglio e lancia subito il segnale di scoperta, ma la foschia gli impedisce di portarsi all’attacco.
8 (o 18) agosto 1941
Rientra a Bordeaux.
Il comandante Chialamberto viene sostituito dal tenente di vascello Mario Tei (che dal 16 novembre al 4 dicembre precedente ha frequentato la scuola sommergibilisti di Gotenhafen sul Giuliani, insieme ad un ufficiale e sette vedette del Bagnolini); il battello viene sottoposto ad un nuovo e prolungato periodo di lavori, che si protrarranno sino all’inizio del 1942.


Il Bagnolini, a destra, ed il Comandante Cappellini ormeggiati a Bordeaux nel 1941 (g.c. STORIA militare)

18 gennaio 1942

Salpa da Bordeaux alla volta del suo nuovo settore d’agguato, a sud delle Azzorre.
23 gennaio 1942
Raggiunge il settore assegnato e lo pattuglia sino al 10 febbraio.
22 (o 20) febbraio 1942
Rientra a Bordeaux.
Seguono nuovi lavori durati fino al 15 aprile.
24 (o 26) aprile 1942
Lascia Bordeaux per una nuova missione, stavolta nelle acque dell’America meridionale e precisamente al largo di Capo San Rocco, dove Betasom ed i comandi tedeschi ritengono esservi intenso traffico mercantile e scarsa vigilanza antisommergibile.
20 aprile 1942
Raggiunge il settore assegnato, ma, dopo l’avvistamento da parte di due velivoli, il comandante Tei decide di spostare il Bagnolini più a sud, verso Porto Natal.

21 aprile 1942

Il Bagnolini viene avvistato da un altro aereo e subito dopo attaccato da un’unità sottile nemica, che gli dà violenta caccia per oltre un’ora e mezza. Superata la caccia e riemerso, il battello deve nuovamente immergersi con la rapida, dopo aver passato poco tempo in superficie, per l’arrivo di un idrovolante antisom PBY Catalina.
12 maggio 1942
Avvista fumo all’orizzonte e tenta un attacco, che deve però abortire a causa della presenza in zona di una nave scorta. Più tardi nello stesso giorno avvista dapprima un aereo e poi un piroscafo, che si dilegua rapidamente all’orizzonte; il Bagnolini viene attaccato e sottoposto a bombardamento con cariche di profondità da parte di due unità leggere, subendo solo danni lievi ma decidendo di spostarsi verso sud per sottrarsi alla tenace caccia cui è sottoposto.

26 maggio 1942

Riceve da Betasom l’ordine di trasferirsi al largo di Pernambuco. Più tardi, alle 4.15, avvista e segnala una nave isolata che procede a 12 nodi, troppi perché il Bagnolini possa tentare di attaccarla.
27 maggio 1942
Alle 00.29, in posizione 05°27’ S e 31°14’ O, lancia quattro siluri contro una nave cisterna «tipo Canadolite» (11.000 tsl), ritenendo di averla colpita con una delle armi (della quale viene avvertita l’esplosione), ma senza danneggiarla abbastanza da impedirle di proseguire. Non vi sono conferme.
31 maggio 1942
In base a nuovi ordini giunti da Betasom, dirige per una nuova zona d’agguato al largo di Freetown, dove giunge dopo pochi giorni.
7 giugno 1942
Tenta l’inseguimento di una nave isolata, che riesce però a far perdere le proprie tracce grazie al maltempo.
Ormai al limite dell’autonomia, il Bagnolini intraprende poi la navigazione di ritorno.
28 giugno 1942
Giunge a Le Verdon in mattinata: dei cinque sommergibili usciti insieme ad esso per la medesima missione (gli altri sono Archimede, Barbarigo, Comandante Cappellini e Leonardo Da Vinci) è l’unico a non aver colto successi.
Il comandante Tei, promosso capitano di corvetta e trasferito sul Giuliani, viene rimpiazzato al comando del Bagnolini dal capitano di corvetta Ferdinando Corsi, ex comandante del cacciatorpediniere Dardo (capovoltosi a Palermo nell’autunno precedente).

Il Bagnolini ormeggiato a Bordeaux sul finire dell’estate 1942 (g.c. STORIA militare)

15 settembre 1942
Lascia Bordeaux diretto al largo delle foci del Congo (a sudovest di Freetown), suo nuovo settore operativo. Partecipano alla missione anche Archimede, Barbarigo e Cappellini.
28 settembre 1942
Durante la notte avvista, in posizione 19°33’ N e 20°06’ O (a 300 miglia da Capo Verde) un piroscafo con le luci di navigazione accese e subito dopo un cacciatorpediniere. Il Bagnolini lancia due siluri contro quest’ultimo, ma senza riuscire a colpirlo; deve poi subire una lunga caccia con bombe di profondità, dalla quale tuttavia uscirà indenne.
In seguito, in base a nuovi ordini di Betasom, si trasferisce a sud di Freetown e poi sulla tangente Sierra Leone-Brasile; non avvista alcuna nave mercantile, solo aerei e navi scorta.
26 ottobre 1942
Si avvia sulla rotta di rientro.
7 (o 17) novembre 1942
Giunge a Bordeaux, insieme all’Archimede.
Ennesimo avvicinamento al comando: Corsi viene sostituito dal tenente di vascello Angelo Amendolia. Segue un altro periodo di lavori.
14 febbraio 1943
Salpa da La Pallice per una nuova missione al largo del Sudamerica. La vigilanza aerea nemica è ormai fortemente incrementata, moltiplicando i pericoli e gli ostacoli: al largo delle Canarie il Bagnolini viene di poco mancato da un attacco aereo, uscendone indenne.
8 marzo 1943
Giunge nel settore assegnato al largo di Cearà, in Brasile. Pochissime le navi, intensa la vigilanza degli aerei avversari.
14 marzo 1943
Lascia l’area precedentemente occupata per spostarsi al largo di Capo San Rocco, dove resterà fino al 22.

15 marzo 1943

Al largo di Fernando De Noronha, durante la notte, viene attaccato da aerei e danneggiato, riportando una falla nella cassa nafta di prua sinistra.
18 marzo 1943
Il danno subito tre giorni prima, unito a infiltrazioni d’acqua già presenti ed al fatto che è rimasto poco carburante, induce il Bagnolini ad iniziare la navigazione di rientro.
20 marzo 1943
Avvista un piroscafo, ma non può attaccare per le sfavorevoli condizioni cinematiche.
22 marzo 1943
Avvista un cacciatorpediniere, che di nuovo rinuncia ad attaccare causa avverse condizioni cinematiche.
13 aprile 1943
Giunge in Francia, concludendo quella che sarà la sua ultima missione atlantica per Betasom. Ormai la situazione è cambiata per i sommergibili italiani: i mercantili isolati, le navi che sono più idonei ad attaccare (non essendo molto adatti agli attacchi verso i convogli), sono quasi scomparsi dall’Atlantico, mentre l’intensificazione della vigilanza aerea costituisce ormai un gravissimo pericolo.

Il Bagnolini in partenza da Bordeaux il 14 febbraio 1943 (g.c. STORIA militare)

Sommergibili da trasporto, armistizio e fine

Mentre la battaglia dell’Atlantico volgeva a sfavore dell’Asse, la Marina tedesca si trovò a necessitare di grandi sommergibili da trasporto, che potessero compiere il lungo viaggio dall’Europa al Giappone (e ritorno), per scambiare materie prime non reperibili in Europa (da parte giapponese) e nuove armi e tecnologia militare (da parte tedesca).
La Kriegsmarine non disponeva ancora di battelli simili: i suoi U-Boote erano i migliori sommergibili “d’attacco” al mondo, ma non aveva costruito sommergibili da trasporto. Facevano invece al caso i battelli italiani di Betasom: molto più grandi degli U-Boote, si prestavano a trasportare 100-200 tonnellate di materiali, dopo opportune modifiche, mentre le loro caratteristiche “offensive”, comunque inferiori a quelle dei corrispettivi tedeschi, erano ormai degradate ulteriormente dalla lunga attività di guerra.
Nel febbraio 1943, pertanto, Karl Dönitz, comandante della flotta subacquea tedesca, propose alla Regia Marina di trasformare i residui sommergibili oceanici di Betasom – con lavori che avrebbero richiesto sei settimane – in unità da trasporto destinate a viaggi da e per l’Estremo Oriente, offrendo in cambio la cessione, da parte della Kriegsmarine, di altrettanti U-Boote dell’ottimo tipo VII C, che avrebbero potuto continuare – con bandiera ed equipaggi italiani – l’attività offensiva in Atlantico. (Per una fonte tale idea non fu di Dönitz, ma frutto di una proposta avanzata a quest’ultimo da parte del capitano di vascello Enzo Grossi, comandante di Betasom).
L’idea, vantaggiosa per entrambi, fu accettata; il Bagnolini fu tra i battelli destinati alla conversione, che venne compiuta in tempi piuttosto rapidi, specie considerando la limitatezza delle risorse (e la mancanza di personale specializzato), dagli uomini della base di Bordeaux, diretti dal maggiore del Genio Navale Giulio Fenu.
L’operazione fu battezzata «Aquila», ed i sommergibili da impiegare vennero muniti di un nominativo di copertura consistente appunto nella parola Aquila più numero progressivo: al Bagnolini fu assegnato il nominativo di Aquila IX.
Ciascun sommergibile sarebbe salpato da Bordeaux con 100-200 tonnellate di mercurio, barre d’acciaio ed alluminio, prototipi di bombe, mitragliere da 20 mm, progetti di carri armati ed altro ancora (nonché all’occorrenza qualche passeggero), da recapitare Sabang (Sumatra) e Singapore, indi caricare un’uguale quantità di gomma, zinco, tungsteno, chinino, oppio, bambù, palme ed altro (compresi alcuni passeggeri) per poi tornare in Europa.

La trasformazione del Bagnolini incluse l’eliminazione di tutto il preesistente armamento (otto tubi lanciasiluri da 533 mm, un cannone da 100/47 mm e due mitragliere binate da 13,2/76 mm) e la sua sostituzione con un’unica mitragliera binata C/38 da 20/65 mm per la difesa contraerea; ciò permise di ricavare spazio sufficiente a stivare 130-160 tonnellate di carico.
I lavori furono completati entro la fine del luglio 1943; il sommergibile, che aveva cambiato ancora una volta comandante (ora era il tenente di vascello Aldo Congedo), si trasferì poi da Bordeaux a Le Verdon, porto situato nell’estuario della Gironda, da dove i battelli partivano definitivamente per l’Atlantico. La partenza per l’Estremo Oriente era prevista per il mese di agosto.
La situazione in Italia, frattanto, era però cambiata: gli Alleati avevano invaso la Sicilia, Mussolini era stato deposto e rimpiazzato da Badoglio. I comandi tedeschi intuirono che l’Italia era intenzionata ad arrendersi presto agli Alleati, dunque ritardarono le preparazioni per la partenza degli ultimi sommergibili diretti in Estremo Oriente con una serie di dilazioni appositamente inventate, onde evitare di lasciarseli sfuggire in caso di resa dell’Italia.
L’8 settembre 1943 il Bagnolini, al pari del Finzi, aspettava ancora di ricevere il proprio carico quando fu annunciato alla radio l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati: quella notte i tedeschi, i cui sospetti erano stati confermati, impedirono ai due sommergibili di salpare; poi intervenne il comandante di Betasom, capitano di vascello Enzo Grossi. Contravvenendo agli ordini giunti dall’Italia, che disponevano di distruggere i sommergibili per impedirne la cattura da parte tedesca, Grossi, che aveva invece deciso di collaborare coi tedeschi, fece trasferire il Bagnolini e gli altri battelli nel bunker della XII Flottiglia. Poi, tra l’11 ed il 12 settembre, radunò tutto il personale di Betasom e, senza fare cenno degli ordini ricevuti da Supermarina, offrì agli uomini l’alternativa: proseguire la guerra a fianco della Germania, proposta da lui caldeggiata, oppure finire in prigionia.
La maggior parte degli uomini seguì l’invito di Grossi ed aderì alla Repubblica Sociale Italiana, che rinominò Betasom «Base atlantica dell’Italia repubblicana».
La bandiera italiana continuò a sventolare sul Bagnolini fino al 14 ottobre 1943: quel giorno, quando il Regno d’Italia (o del Sud) dichiarò guerra alla Germania, la bandiera italiana sui sommergibili di Bordeaux venne ammainata, e gli equipaggi italiani furono sbarcati.
Lo stesso giorno (sebbene altra fonte faccia risalire il trasferimento del battello alla Marina tedesca già al 10 settembre 1943) il Bagnolini fu incorporato nella Kriegsmarine come UIT 22; il suo nominativo in codice per l’operazione di trasporto per l’Estremo Oriente fu cambiato in Mercator II, giacché Mercator era il nuovo nome che l’operazione aveva assunto dopo il suo totale passaggio sotto controllo tedesco.
Ultimo dei suoi numerosissimi comandanti – forse nessun altro sommergibile italiano, in guerra, mutò comandante per così tante volte – fu, dall’ottobre 1943, un ufficiale della Kriegsmarine, il sottotenente di vascello Carl Friedrich Wunderlich; l’equipaggio dell’UIT 22 era a composizione mista, in quanto, pur essendo divenuto a maggioranza tedesca, ne facevano ancora parte dodici italiani (un ufficiale, quattro sottufficiali e sette sottocapi e marinai, tutti appartenenti ai corpi tecnici) dell’originario equipaggio del Bagnolini, necessari anche per la loro conoscenza degli impianti di bordo (l’addestramento del personale tedesco ad usarli, infatti, aveva già ritardato la prevista partenza per l’Estremo Oriente). Questi ultimi, avendo aderito alla RSI, appartenevano ora alla Marina Nazionale Repubblicana; il sommergibile era divenuto parte della 12. Unterseebootsflottille, che, come Betasom, aveva base a Bordeaux. Dopo un temporaneo trasferimento a Brest, il 2 dicembre 1943 il sommergibile fece ritorno a Bordeaux, dove giunse il 4 dicembre, per essere sottoposto a nuovi lavori.
Dopo alcuni di mesi necessari per lavori di modifica e manutenzione e per consentire all’equipaggio tedesco di familiarizzare con l’unità, l’UIT 22 fu pronto a prendere il mare.

Il 19 gennaio 1944 l’UIT 22 lasciò Bordeaux per dare inizio al viaggio, ma dovette tornare indietro quasi subito per problemi ai motori, rientrando il 21. Riparate le avarie, il 26 gennaio 1944, il sommergibile, con un equipaggio composto da 43 ufficiali e marinai tedeschi e 12 italiani, salpò definitivamente da Bordeux alla volta di Penang, con un carico che comprendeva 18.200,7 kg di mercurio, 130.829 kg di acciaio speciale, materiale elettronico, chiavi per la macchina codificante ENIGMA, apparati «Naxos» per la rilevazione delle onde emesse dai radar di altre unità e materiale per la base sommergibilistica tedesca stabilita in Asia.
Il suo viaggio era però compromesso sin dall’inizio: i decrittatori alleati, infatti, intercettarono e decifrarono i suoi messaggi mentre dirigeva verso sud, e le forze aeree nella zona di transito vennero allertate per attaccarlo.
Il 12 febbraio, a 900 miglia dall’isola di Ascensione (Sud Atlantico), l’UIT 22 venne attaccato da un bombardiere statunitense Consolidated B-24 “Liberator”, appartenente allo Squadron VB 107 della US Navy e decollato proprio da Ascensione. L’aereo effettuò tre passaggi, sganciando in tutto sei bombe di profondità (che esplosero ai lati del sommergibile, causando gravi danni) e mitragliando.
Il sommergibile sopravvisse all’attacco, ma non indenne: Wunderlich contattò la base riferendo che un uomo era stato ucciso dal mitragliamento e che c’erano diversi danni, compresi la distruzione di un periscopio e la rottura di una delle casse del carburante (provocando la perdita di 32 tonnellate di carburante). Il comandante dell’UIT 22 aggiunse che, nonostante le perdite di carburante, sarebbe stato comunque in grado di raggiungere Penang senza doversi rifornire.

Dato che nell’Oceano Indiano, di ritorno da Penang, era in navigazione un altro sommergibile, l’U 178, sprovvisto di apparato «Naxos», mentre l’UIT 22 ne aveva in abbondanza nel proprio carico, i comandi ordinarono all’UIT 22 di incontrare l’U 178, l’11 marzo, 600 miglia a sudovest del Capo di Buona Speranza e a 500 miglia a sud di Capetown, per fornirgli un «Naxos» e delle chiavi di ENIGMA. (Secondo una fonte, l’U 178 avrebbe anche dovuto rifornire l’UIT 22 di carburante).
Di nuovo, però, le decifrazioni britanniche dei messaggi trasmessi con la macchina cifrante ENIGMA permisero ai comandi Alleati di apprendere l’ubicazione del punto stabilito per l’incontro, e preparare una trappola per i due sommergibili. Il 3 marzo il quartier generale combinato di Capetown seppe infatti da “ULTRA” che tre sommergibili – due di ritorno dall’Oceano Indiano ed uno, l’UIT 22, proveniente dall’Europa – avrebbero doppiato Cape Point (vicino al Capo di Buona Speranza) passando circa 900 km a sud, e pianificò di conseguenza l’operazione «Wicketkeeper». Gli idrovolanti antisommergibile PBY Catalina del 262nd Squadron della South African Air Force furono progressivamente trasferiti nella base Langebaan (nello stato del Natal, in Sudafrica): il mattino del 4 vi giunsero il FP251/A del capitano Wickson ed il FP226/J del capitano Fletcher. Il giorno seguente giunsero a Langebaan il FP270/C del capitano Cowle ed il FP257/F del capitano A. H. Surridge, mentre il 6 marzo arrivarono il FP279/D del capitano (Flight Lieutenant) Frederick J. Roddick ed il FP174/P del parigrado Edgar (“Gar”) Shepherd Stow Nash; per ultimo, il 7 marzo, il FP185/K del capitano W. D. M. Brown. Il dispiegamento del 262nd Squadron a Langebaan era completato dal comandante dello Squadron, tenente colonnello Esmonde-White (giunto sull’aereo di Nash) nonché il resto del suo Stato Maggiore ed un gruppo addetto alla manutenzione.
Si era deciso di aspettare, temendo che un attacco diretto contro quegli U-Boote avrebbe potuto insospettire i comandi tedeschi, che non sapevano che gli Alleati decifravano da lungo tempo i messaggi di ENIGMA, e che, qualora se ne fossero accorti, avrebbero potuto cambiare i codici, vanificando tutti gli sforzi fatti sino ad allora. A fornire agli Alleati l’“alibi” per attaccare senza sollevare sospetti fu l’U 178, che il 5 marzo inviò un lungo messaggio radio che poté essere radiogoniometrato da stazioni radiogoniometriche della Marina sudafricana (la radiogoniometria, che permetteva un’approssimativa determinazione della posizione di un’unità che inviava un messaggio radio, era un metodo di localizzazione “noto” e dunque non adito a destare sospetti: in caso di affondamento del sommergibile, comandi tedeschi avrebbero pensato che fosse stato localizzato a causa del messaggio radio intercettato e radiogoniometrato, invece che da informazioni decrittate).

Dopo aver pianificato le missioni di ricognizione e pattugliamento, fu pertanto dato il via all’operazione, senza informare – per motivi di sicurezza – gli equipaggi degli aerei del fatto che stavano conducendo la ricerca in base ad informazioni di “ULTRA”. Quando, nelle prime ore dell’11 marzo, gli aviatori furono radunati ed informati che avrebbero dovuto seguire dei percorsi di ricerca sovrapposti e diversi da quelli soliti, iniziarono però a sospettare qualcosa, anche perché l’ufficiale addetto alle informazioni speciali del 262nd Squadron, Charles Green, stentava a nascondere la sua eccitazione (per questo Squadron, l’UIT 22 sarebbe stato l’unico sommergibile affondato nel corso della guerra). Le ricerche furono condotte, oltre che dai Catalina del 262nd Squadron, anche dai bombardieri Lockheed Ventura degli Squadrons 22, 23, 25 e 27, decollati da Capetown e Port Elizabeth.
L’8 marzo uno dei Catalina condusse una lunga ricerca protrattasi per 15 ore, senza trovare nulla. Uno dei Ventura rintracciò e attaccò l’U 178, ma il sommergibile riuscì a sottrarsi al suo attacco. Nei giorni seguenti altre sortite dei Catalina furono del tutto improduttive.

L’11 marzo 1944 altri tre Catalina del 262nd Squadron (per una fonte anche al 279th Squadron) della SAAF decollarono da Langebaan diretti in aree di ricerca situate 600 miglia a sud di Capetown. Erano il FP279/D, pilotato dal capitano Frederick J. Roddick, il FP251/A pilotato dal parigrado A. H. “Oscar” Surridge ed il FP274/P pilotato dal capitano Edward “Gar” Shepherd Stow Nash: il primo decollò alle 3.50, il secondo alle 3.55 ed il terzo alle 4.20.
Le disposizioni prevedevano che i tre idrovolanti avrebbero dovuto seguire altrettanti percorsi di ricerca orientati nord-sud, lunghi 55 miglia e paralleli tra di loro (Surridge ad est, Nash al centro e Roddick ad ovest), in una ristretta area (70 miglia quadrate) situata 500 miglia a sud del Capo di Buona Speranza.
Trovarono l’UIT 22, che, giunto nel punto prestabilito, aveva preso a incrociare in superficie a bassa velocità, inviando al BdU (Befehlshaber der Unterseeboote) dei messaggi in cui riferiva la propria posizione, per non rischiare di mancare all’appuntamento con l’U 178 (anche tali messaggi furono intercettati e decrittati da ULTRA).
Il primo ad avvistare il sommergibile fu il Catalina FP279/D di Roddick: questi avvistò l’UIT 22 alle 10.20, in posizione 41°28' S e 17°40' E, mentre volava su rotta 190° ad una quota di 760 metri. Il sommergibile, distante 10-15 miglia, procedeva a 10 nodi in superficie con rotta 135° (verso ovest). Roddick lanciò il segnale convenzionale «SSS» (attacco contro sommergibile) ed alle 10.27 passò all’attacco, assalendo l’UIT 22 da poppa sinistra, con un’angolazione di 10°-15°: lo mitragliò con tutte le armi di bordo e sganciò cinque bombe di profondità Mk. XI con esplosivo Torpex (sganciate da 15 metri e regolate per esplodere a 7,6 metri di profondità, distanziate tra loro di 18 metri; la resta bomba non fu sganciata per un guasto), che esplosero tutt’attorno alla zona centrale del sommergibile, che dopo l’attacco sbandò di 10°-15° sulla dritta. L’aereo tornò poi all’attacco dal traverso a sinistra e sganciò l’ultima bomba di profondità rimasta: dopo questo secondo attacco, l’UIT 22 rallentò e rimase quasi immobilizzato. Il Catalina eseguì poi un terzo attacco con solo mitragliamento (che aveva accompagnato anche i due precedenti attacchi).
Da parte sua il battello italo-tedesco reagì con intenso e preciso fuoco contraereo, iniziando il tiro con proiettili esplosivi già quando la distanza era di quattro miglia. Il fuoco contraereo dell’UIT 22 danneggiò il Catalina, colpendone entrambe le ali e la carlinga, oltre a danneggiare la gondola del motore di dritta ed il galleggiante di sinistra; il tiro del Catalina colpì un marinaio sulla torretta dell’UIT 22, facendolo cadere sul ponte sottostante, e poi ne colpì ancora la torretta durante il terzo passaggio.
Il sommergibile s’immerse dodici minuti dopo il primo attacco, ma pochi minuti più tardi, dopo aver eseguito un semicerchio che lo aveva portato su rotta 270°, riemerse a 365 metri con la sola torretta, salvo poi immergersi di nuovo. Vennero in superficie rottami, carburante (che formò un’ampia e netta chiazza) e bolle, e poi anche un oggetto giallo – che assomigliava ad un canotto – che però riaffondò quasi subito. Una bolla d’olio, di tre metri di diametro, apparve poco più avanti della chiazza di carburante. Roddick (poi decorato con la Distinguished Flying Cross) rimase sul posto, lanciando fumogeni galleggianti e volando in cerchio sulla verticale del battello per permetterne l’individuazione da parte degli altri idrovolanti in arrivo; quando questi – pilotati da Nash e Surridge –  arrivarono, si allontanò, essendo danneggiato ed avendo esaurito le munizioni (atterrò a Langebaan alle 16.25).
Primo a giungere sul posto fu l’aereo di Nash, alle 10.48; Roddick, prima di andarsene, gli comunicò con la lampada da segnalazioni Aldis dell’attacco appena eseguito e dei danni subiti. Quando poco dopo arrivò anche Surridge, l’idrovolante di Nash gli riferì quanto saputo a sua volta da Roddick.
I due Catalina presero a pattugliare la zona marcata dai fumogeni galleggianti.
Alle 11.32.30, mentre stava volando verso il centro della chiazza di nafta, Nash avvistò, un miglio a prora sinistra, la schiuma bianca sollevata dalla torretta dell’UIT 22, che stava riemergendo, su rotta 225°; entrambi gli aerei gli furono subito addosso.
L’aereo di Nash aprì il fuoco con le mitragliere contro il sommergibile (il sergente Tommy Tromans aprì il fuoco con la mitragliatrice da 7,7 mm nella torretta prodiera, mentre il sottotenente Syd Brian Hanson fece lo stesso con quella da 12,7 mm; il sommergibile rispose a sua volta al fuoco con tiro continuo per tutta la fase di avvicinamento dell’aereo, anche se non fu visto nessuno in torretta od in coperta) ed eseguì un attacco in picchiata (partendo da una quota di 365 metri). Durante l’avvicinamento il copilota, sottotenente Peter Wills, ebbe modo di soffermarsi a guardare il bersaglio: il sommergibile era fermo, apparentemente appruato e senza un’anima viva in torretta, ma ciò che colpì maggiormente Wills era la forma della torretta e dei parapetti. Ciò risvegliò le reminescenze di un corso di riconoscimento navale che Wills aveva seguito nell’Isola del Principe Edoardo: il sommergibile che stavano attaccando era italiano.
Alle 11.33 il Catalina sganciò da 30 metri d’altezza altre sei bombe di profondità (anche queste regolate per esplodere a 7,6 metri di profondità e distanziate tra loro di 18 metri), che esplosero tutt’intorno all’UIT 22, a pochissima distanza: il sommergibile del comandante Wunderlich scomparve rapidamente sotto le onde, lasciando il posto a olio, rottami ed un oggetto arancione, che subito salirono in superficie e si sparsero rapidamente. Dopo lo scoppio delle bombe, non ci fu più tiro contraereo contro il Catalina di Nash in allontanamento. L’aereo di Surridge, che aveva seguito quello di Nash mitragliando il sommergibile e preparandosi a sganciare a sua volta le bombe, poté soltanto fotografare la scena; il battello italo-tedesco s’immerse, o affondò, prima che questi potesse sganciare le sue bombe.
Il Catalina di Nash continuò a sorvolare l’area girando in cerchio, scattando foto, e dopo 10-15 minuti apparve una grossa chiazza di carburante nero, a forma di fungo, che si espanse sottovento sulla superficie del mare. Alle 13.53, con il peggiorare del tempo (che ridusse la visibilità, facendo aumentare il rischio di una collisione tra i due idrovolanti, i cui equipaggi erano tutti concentrati sulla chiazza di carburante), l’aereo se ne dovette andare; sulla via del ritorno s’imbatté in un vecchio cacciatorpediniere a quattro fumaioli, il Lewes, che procedeva a tutta forza in direzione opposta (verso sud), e gli comunicò la posizione dov’era scomparso il sommergibile. Atterrò a Langebaan alle 19.25.
L’idrovolante di Surridge, avendo ancora intatto il proprio carico offensivo, rimase sul posto per indirizzarvi eventuali navi di superficie e per attaccare di nuovo, qualora l’UIT 22 fosse riemerso, ma il sommergibile non diede più segni di vita. Alla fine anche Surridge, giunto ai limiti dell’autonomia, fece ritorno alla base, dove giunse alle 22.20.
Il Lewes, giunto sul posto, misurò l’estensione della chiazza di carburante: era larga 400 metri e si estendeva per più di un miglio.
L’Ammiragliato valutò il risultato dell’azione dei tre Catalina come “probabile affondamento” del sommergibile attaccato.
La valutazione era esatta: l’UIT 22 era affondato con l’intero equipaggio di 55 uomini, 43 tedeschi e 12 italiani, nel punto 41°28’ N e 17°40’ E, circa 460 miglia a sud di Capetown.

Quando, il 12 marzo, l’U 178 giunse nel punto previsto per l’incontro, trovò solo un’ampia chiazza d’olio che galleggiava sulle onde. Non gli rimase che comunicarlo alla base e proseguire nella navigazione verso l’ancora lontana Francia.
Di ritorno dalla missione, nel fare rapporto, il sottotenente Wills, il copilota di Nash, affermò la sua convinzione che il smmergibile affondato fosse di costruzione italiana. Non fu creduto; solo le notizie più precise giunte dopo la fine della guerra gli avrebbero infine dato ragione.


I dodici ufficiali e marinai italiani del Bagnolini che rimasero sull’UIT 22, e perirono nel suo affondamento:

Leone Armitano, sottocapo, 22 anni, da Torino
Domenico Balestrieri, sottocapo, 37 anni, da Napoli
Renato Bartolozzi, sergente nocchiere, 21 anni, da Civitavecchia
Bruno Buosi, capo motorista di terza classe, 33 anni, da Riva del Garda
Carlo Giuseppe Crosilla (o Rossilla), tenente del Genio Navale, 38 anni
Giuseppe Mazzoni, secondo capo, 28 anni, da Pisa
Vincenzo Pacitti, sottocapo, 21 anni, da Terni
Serafino Petrelli, sottocapo, 22 anni, da Canino
Supero Tini, sottocapo, 25 anni, da Terni
Bruno Valenti, secondo capo, 27 anni, da La Spezia
Giordano Zampieri, sottocapo, 25 anni, da Sondrio
Lindo Zarelli, sottocapo, 42 anni, da Pallanzeno


Una sequenza di immagini, scattate dall’aereo di Edgar “Gar” Nash e da lui conservate, ritraenti l’attacco e l’affondamento dell’UIT 22 (si ringrazia Johan van der Berg):























L’attacco all’UIT 22 nella descrizione del sottotenente Syd Brian Hanson, operatore radio dell’aereo di Nash (da “Flying Boat: The History of 262 Squadron RAF and the Origins of 35 Squadron SAAF”, di Ivan Spring, Trade Pb, Johannesburg 1995; si ringrazia Johan van der Berg):

“We arrived at RAF Congella, Durban, in Catalina Ib FP174 “P” on 4th March 1944 to join 262 Squadron, having flown out from Oban, Scotland, in stages.  Since submarines were known to be in the area south of the Cape, we were detached to Langebaan, Saldanha Bay, some eighty miles north of Cape Town, leaving Congella on 6 March.  We had the Squadron Commander Wg.Cdr. D B Esmonde-White on board with us.
At 4.20 a.m. on 11 March we took off on an anti-submarine strike patrol to search well South of the Cape with two other Catalinas of 262 Squadron.  The three Wireless Operator/Air Gunners (Sgt. C Bower, Sgt. C N Wright and myself) alternated between the wireless watch, the ASV Radar watch and blister lookout watch.
By mid-morning I was on lookout in the starboard blister, with my headphones plugged into the Intercom, but able to hear any incoming wireless signals faintly since there was always a slight 'leakage'. I heard in Morse code 'SSS - SSS - SSS' , the signal for ‘Am attacking a submarine', followed by the Squadron callsign of Catalina 'D'.
I switched on my Intercom mike and informed the Skipper, Flt.Lt. E S S Nash, that 'D' was making an attack and that I would get a loop bearing on it - i.e. swing the loop aerial to ascertain the direction from which 'D’s wireless transmission was coming. The loop aerial was operated from the Observer's table, opposite the wireless table where Norman Wright was still taking down the message from 'D', which gave its position.
I quickly got the bearing, checked that it was not the reciprocal, (the reciprocal, 180° round, gives a better signal strength) and then passed the bearing to the Skipper on the Intercom so that he could head for 'D' immediately.
I then returned to the starboard blister to continue on lookout watch. The Observer, Sgt. D M Hocking, was able a little later to work out the relative positions of 'P' and 'D' from his
own chart and from 'D’s wireless message.
Flt.Lt. F J Roddick's ('D') attack took place at 1022 a.m., about 400 miles south of the Cape. By 1048 a.m. we had arrived on the scene, marked by an oil patch left by the submarine which submerged following the two attacks by 'D'.
Catalina 'D' then left for base, having been damaged by the submarine's gunfire, and we continued to circle the oil patch.  At 1130 a.m., while I was still on starboard blister watch, the Klaxon horn - the ‘Action Stations!' signal from the Skipper - sounded.
He had sighted the submarine surfacing ahead of the aircraft. I already had the blister open and the .50” Browning machine gun in position. The smaller machine gun (.303”) in the front turret - manned by Flt.Sgt. Tommy Tromans - opened up as we went in to the attack, and I pulled the .50” gun round to fire downwards along the starboard hull under the wing, thinking that, if the submarine's crew had manned the conning tower guns (which they had not), a few extra tracer bullets might cause them a little more concern. Cliff Bower was in the port blister with a hand held camera. I cleared the gun with a short burst as we ran in.
After our six depth charges had been released, the Skipper banked sharply away, and I saw nothing of the oil slick, the submarine or the depth charge explosions.  As we continued to circle the scene I took over from Norman Wright on the wireless watch, and sent out a message giving our position, which the Observer, Doug Hocking, had worked out.
It was 1925 p.m. when we arrived back at Langebaan, the flight having lasted over fifteen hours.
'I remember that we were very pleased with ourselves at dinner that night and the next day there was a general feeling that the Squadron had done something special - although we did not know at the time that we had, in fact, sunk submarine UIT-22!
We returned to Durban from the Langebaan detachment on 16 March.”

L’attacco all’UIT 22 nella descrizione del sottotenente Peter Wills, copilota dell’aereo di Nash (da “Flying Boat: The History of 262 Squadron RAF and the Origins of 35 Squadron SAAF”, di Ivan Spring, Trade Pb, Johannesburg 1995; si ringrazia Johan van der Berg):

“We were allowed little respite. Two days later, on 6 March, we were on our way to Langebaan, having with us the Squadron Commander, Wing Commander Esmonde-White.  In the brief interval we had been able to off-load our personal gear and settle into comfortable rooms and to make first acquaintance with the atmosphere and delights-to-come of Durban.  Our boat had been slipped and given another going over and had had its Leigh Light removed.  (It was never replaced). The Leigh Light comprised a searchlight and wind-driven generator for illuminating night attacks. It was under the starboard wing, outboard of the bomb racks.
That coastwise trip to Saldanha Bay, on the Atlantic coast, was the first of many that we did subsequently and the principal headlands, between which we flew a series of chords, and their names have remained forever in my memory. Although by then the U-boats had retreated from the coastal shipping lanes, where previously they had sunk ships within sight of land, it was still the practice of the Squadron to treat these transit flights as anti-submarine patrols. That day, however, Esmonde-White was in a hurry and, although he allowed Gar to circle his parents estuary home on the Keiskamma river and to crease the surface of the water with our keel, when we got to Mossel Bay we climbed to 8,000 feet and proceeded direct to Saldanha Bay through the Breede River valley.
When we alighted on Saldanha Bay on 6 March with Esmonde-White, there were already several boats on the moorings and the very next morning we took off with Wickson (a Canadian captain) in FP279/D to be familiarised with the Bot River emergency landing area which was a hundred miles further south and just east of Cape Hangklip.  This took us for the first of many times through the impressive gap between Table Mountain and the great ranges above Stellenbosch, then across the beautiful False Bay and round the sentinel quoin of Hangklip. The Bot River landing area was adequate, but the two precipitous ranges between which it lay would have made it hazardous to reach in bad weather.  Three days later, on the eve of the 'WICKETKEEPER' operation, we took ‘P’ up again to air-swing its three compasses.  This was a routine procedure for measuring the magnetic deviations that which, in a flying boat, could only be done in the air using the astro-compass to obtain a true heading by reference to the sun.  (…)
In the small hours of 11 March we were roused and gathered in a small hut near the Panoramic Hotel to be briefed by our Intelligence Officer, Charles Green, an archaeologist and previously curator of Gloucester museum, to which he returned after the war.  He was a slight, elf-like figure, already in his forties, and wore large owlish spectacles.  He always looked slightly out of place in over-long khaki shorts but was so full of irrepressible enthusiasm that, although we teased him, it was never in an unkindly way.  I shall never forget that early morning briefing and the way that Charles could hardly contain himself in his excitement, which succeeded in conveying to us that we might beon the verge of a great event. Although it is unlikely that he was privy to the great ULTRA secret, we shall probably never know the extent to which he was aware of the true source of the intelligence that resulted in the exceptional decision to lay on a simultaneous search by three Catalinas in a concentrated area nearly five hundred miles south of the Cape.  The search pattern, laid out on a crude table, consisted of three cross-over patrols, each orientated north-and-south and lying side-by-side along the estimated westerly track of the target U-boats. We, in Catalina ‘P’ were assigned to the centre pattern, Roddick, in 'D', to the most westerly pattern, and Surridge, in 'A' to the most easterly.  We were briefed to take off at 20-minute intervals in the order D, P and then A, and would therefore have been spaced about thirty nautical miles from each other during our southward transit towards the search area, which Roddick would have been the first to reach.  The search patterns were of only fifty-mile depth north and south (seventy was more typical for Catalina speeds) which, allowing for a probable detection range. visually or by ASV of about ten miles, would have meant that the effective coverage of the total area searched would have been about 70 miles square.
(…) Our previous operational flying as a crew had been a series of long range Atlantic weather probes from Lough Erne and, although Gar Nash had done an earlier operational tour on Whitleys in Iceland with 612 Squadron, our night take-off from Langebaan was the first occasion on which we had the additional weight of six 250-pound depth charges, and this added to what was always a tense and, sometimes, dangerous moment.  A full-load take-off by Catalina often exceeded two minutes which, at night, sometimes meant that you had passed the last of the three flarepath scows and were plunging ahead into darkness with only the directional gyro as a guide and one’s faith in the knowledge that there was still obstruction-free water ahead. Two minutes with the engines straining at 2,700 rpm could seem like eternity, especially if you were one of the crew behind, sitting with your back to a bulkhead and your knees drawn up, waiting for the last of the agonising lurches as the boat tried and tried again to get free of the restraining drag of the water. When that moment finally came the nose pitched upwards to an angle only slightly less than that at which the aircraft would stall, and it required much practised skill to nurse it gently until the climbing speed of 85 knots was reached.  The initial rate of climb was precariously low and it might take nearly ten minutes to reach a height of two thousand feet, by which time the flight engineer would be getting anxious about his cylinder head temperatures. Then, with relief, you could ease the RPM back to 2,250 and the boost pressures to below 30 inches, which enabled the flight engineer to weaken the mixture for cruising economy. Under these conditions, and for the first few hours, you were lucky if you could achieve the recommended cruising speed of 90 to 92 knots and, when the navigator called for his first 60-degree dog-leg to take drift measurements for computation
of the wind, it was sometimes necessary to sacrifice a few hundred feet of height while turning in order to avoid having to put the engines back into rich mixture and increase the boost pressures and rpm. Gradually, however, things settled down as fuel was burnt off, and the wonderfully reliable Sperry autopilot could be used to control the height and course with absolute precision, with just occasional touches of its tiny conical knobs.
All that I can remember of that night take-off from Langebaan, at 0420 am on 11 March, is that it was in the southerly direction towards the shoaling water, and my great relief when we were at last able to turn gently to starboard to cross the low neck of the isthmus and climb out over the sea. It would have taken us nearly an hour to reach the light at Cape Point, from which we took our departure, and then another five hours before reaching the search area.  As it began to get light and we were thinking about breakfast, a hand appeared suddenly through the door into the pilots' compartment and disappeared with equal suddenness taking with it our largest fire extinguisher. Nothing was said, but a strong smell of burning reached us for one terrifying moment before the owner of the hand (I think it was Cliff Bower, Wireless Operator/Air Gunner) reappeared and with some nonchalance assured us that everything was under control. Through some caprice, mismanagement, or otherwise, one of the Primus stoves of the Clyde cooker had chosen that moment to start a minor conflagration (under the wing fuel tanks) and Ted Walker, Flight Mechanic (Airframes), was badly burned in the face in consequence. We got our breakfast in the end, but the unfortunate Ted was bandaged up with orange cream and put on the port bunk for the rest of the sortie.
We reached the starting point of our search pattern shortly after 1000 am and were still only part way down the first leg of the cross-over when Syd Hanson's urgent voice came through (at 1022) to say that Catalina 'D' was attacking a U-boat and, after a very short pause, gave us the relative bearing of the signal (a series of S's) which he had obtained from the directional loop.  We turned immediately onto the approximately south-westerly heading, from which it appeared that Roddick must also have still been on his first search leg although further down.  Meanwhile, Syd was able to obtain further bearings from the continuing signals, now coming from ahead. (Syd Hanson is referred to as Brian elsewhere in this book.)  In what seemed a very short space of time (it was actually at 1048) we spotted Roddick's Catalina, low down and making a further run over what at first appeared to be the U-boat, but turned out to be a smoke marker Soon we were flying beside him and, communicating by Aldis lamp, learned the main details of his initial sighting attack and subsequent attempts to complete the kill with one hung-up depth charge. He had sustained damage by gunfire that might have affected his fuel tanks and had made the prudent decision to head for base without further delay. We wished him bon voyage. Soon after he left, Oscar Surridge in Catalina ‘A’, who had now arrived from his more easterly position, came onto our port side and we in turn relayed Roddick's message to him by lamp.
While all this was going on we had been flying a fairly close pattern round the scene of the last attack, which was in clear evidence from the visible oil slick and a certain amount of floating debris. Suddenly, while we were actually flying towards the centre of the oil patch, we realised that the U-boat was surfacing again in front of our eyes and that it was practically stationary.  We scarcely had to alter heading, and Gar, with a tenseexpression, reached up to the overhead throttles and drew them back and, as we started to descend, sounded the Klaxon to call the crew to action stations. I remember watching the U-boat with fascination and wondering what was going to happen. She was wallowing in the slow forties swell and was slightly out of trim, her stern more exposed than her bow As we came nearer I could see the gun on the conning tower but could not be sure if it was yet manned.  There was something special about the flare of the conning tower and railings that struck a chord in my memory going back to my ship recognition training in Prince Edward Island, and I felt sure that it was an Italian. At this point Tommy Tromans, in the bow turret, opened up with his twin .303” Vickers guns and, hearing gunfire, Norman Wright (Wireless Operator/Air Gunner), our oldest and most stalwart crewman who was manning the radio, could not contain himself and broke in with excited encouragement, 'Go on Tommy, let 'em have it!'.  But Gar soon stopped that.
With Tommy's first burst I saw that the locking device that should have held the gun mounting in position had failed to do so, so that the recoil drove the butts backwards and upwards into his chest. Nevertheless, he continued to do his best, the guns recoiling towards him each time he fired a burst.  The noise and smell of cordite acted like adrenalin and greatly increased the excitement of the moment.  Syd Hanson, who by now was in the starboard blister, could not bring his .50” Browning gun to bear on the target, but contributed to the noise and distraction of the opposition by firing a clearing burst of tracer, which he aimed in as forward a direction as was practical. In the event, however, there was no need for our gunfire because, in the final seconds before passing low over our target, one could see that there was no-one on the conning tower. Gar's manually released aim was as nearly perfect as could have been achieved, which became evident when the photographs of the attack taken by Oscar's Crew were developed. Most significantly, the exposure made immediately after explosion of the depth charges showed only the wash of the submarine's stern. At that moment, however, we were climbing ahead before turning, and by the time we were able to look back on the scene, there was no sign of the target amidst the subsiding white commotion.
We remained over the position of the attack for another two and a half hours but saw no further evidence of the submarine, except that the amount of oil on the surface appeared to increase and spread until we estimated it to cover an area 1,300 by 400 yards.  Our jubilation at our success was tempered by the thought that the U-boat might have surfaced with the intention of surrendering. As time has passed I have come to feel great admiration for the fortitude of that U-boat crew, and sadness for their misfortune. Unknown to us then, we had not attacked one of the two U-boats returning from the Indian Ocean as we supposed, but a supply submarine, the crew of which had already survived many vicissitudes since leaving Brest (it was their captain's first command) in an attempt to bring support to their comrades-in-arms who, after many months of operation far from home, had been deprived of the support of their mother ship, the Charlotte Schliemann.  Such, however, is the nature and fortune of war.  We landed back at Langebaan at 1925 after an uneventful return flight during which we passed over and briefly communicated with HMS ''Lewes'' an old four stack lease-lend ship, one of the Royal Navy's destroyers from Simon’s Town which, from the evidence of its wake and amount of smoke, was making its frantic best speed towards the scene of the attack.
I think we were all too tired that night to celebrate the success of the operation, but soon afterwards, Esmonde-White organised an evening braaivleis on the beach further up the bay when the entire detachment gathered to drink free beer and eat a whole lamb roasted over a wood fire. The summer was nearly over and the wind was strong and cold and we got more sand than sustenance.  By then there was a mood of anticlimax, and I may not have been alone in feeling that the event was not one I wanted to celebrate. Before this happened the principal aircrew members involved had been summoned to the War Room in Cape Town to be fully debriefed. Gar and I, together with our meteorological officer (Tommy Thorpe of the South African Navy), travelled with Esmonde-White in his Ford V-8 and soon discovered that he was a reckless driver. We were debriefed one at a time and, when my turn came, I stated my belief that the submarine had been Italian. This was not thought likely at the time and it was not until some time after VJ-Day that I learned from Derek Foley (my second pilot of a later – Warwick - crew who was by then marking time in an Air Ministry Intelligence department) that I had been correct.  One day at Leuchars as I was about to go flying he called me and over the telephone gave me not only the identification number UIT-22, but also the name of its commander,  Oberleutnant Karl Wunderlich. I wrote the details hastily on the margin of the map that I was carrying, but subsequently I could never find that map again. It was only in recent years that I learned these details again and, at the same time, the incredible story of ULTRA and the fact that we had been sent to a known rendezvous.
Our return to Langebaan with Esmonde-White after the debriefing proved to be even more frightening than our journey down and was quite the most dangerous part of the whole WICKETKEEPER operation as far as we were concerned.  We proceeded northwards like a supersonic kangaroo leaving clouds of sand behind us along the unmade track until eventually one of the six blades of the cooling fan came adrift and almost penetrated the bonnet.  After that the vibration was so great that it was only possible to continue at an even faster rate in order to keep the fan running above its resonance speed. Apart from Esmonde-White, who seemed to enjoy the fun, the rest of us arrived in a state of nervous exhaustion.
Although the WICKETKEEPER operation was certainly a highlight in my tour of duty with 262 Squadron, when I consider it in relation to the rest of those eventful fourteen months, it was not the most memorable of the many unforgettable experiences of that intensely interesting and productive period which, for me, coincided with the most impressionable and romantic part of my life.  It was the spell of South Africa and the magic of the continent over which we had flown to reach it, coupled with the common purpose by which we as a crew were motivated, and the bonds of friendship and trust that were forged during our many shared adventures, which have made the memories of that safari and all that followed it the most complete and intact of any that I possess.”