giovedì 23 luglio 2015

Bartolomeo Colleoni

Il Colleoni a Taranto nel 1936 (foto Paolo De Siati, coll. Marcello Risolo, via www.naviearmatori.net

Incrociatore leggero della classe Di Giussano del tipo Condottieri (dislocamento standard 5170 tonnellate, in carico normale 6571 tonnellate, a pieno carico 7670 tonnellate). Le unità della classe erano state pensate per superare in armamento e velocità i supercacciatorpediniere francesi costruiti nello stesso periodo (classi Jaguar, Aigle e Lion), in azioni veloci tra unità leggere simili a quelle di “guerriglia navale” svoltesi in Adriatico nel precedente conflitto, non per combattimenti contro altre navi maggiori pesantemente armate; per questo furono dotati di una corazzatura del tutto inadeguata. Le forme dello scafo e la disposizione dell’apparato motore erano derivate (ingrandite e rinforzate) dagli esploratori classe Navigatori, risultando così più vicine a quelle di grossi cacciatorpediniere che di incrociatori, con negative conseguenze sulla robustezza longitudinale dello scafo (che a fine anni Trenta dovette essere rinforzato in tutte le unità della classe, a seguito di vari danni riportati con il maltempo) e sulla tenuta del mare.
Con una velocità massima di 39,85 nodi alle prove, risultò tra gli incrociatori più veloci al mondo, ma si trattava di una velocità irreale, ottenuta con la nave a dislocamento troppo basso (5565 tonnellate), ancora incompleta di alcune componenti, in condizioni meteomarine perfette e forzando l’apparato motore; dopo otto anni di servizio, nella sua ultima battaglia, la sua velocità effettiva risultò di dieci nodi inferiori. La modestissima corazzatura delle navi di questa classe (sul Colleoni c’erano 290,8 tonnellate di corazzatura verticale e 241 di corazzatura orizzontale), sacrificata proprio per ottenere tale velocità, fu la condanna del Colleoni.
In guerra effettuò tre missioni di ricerca del nemico, due di scorta convogli ed una di posa di mine, percorrendo 3515 miglia (166 ore di moto).

La stessa immagine dopo un bell’intervento di colorizzazione da parte di Atsushi Yamashita/Irootoko Jr (da blog.livedoor.jp/irootoko_jr). Talvolta questa foto è erroneamente identificata come del gemello Alberto Di Giussano.

Breve e parziale cronologia.

21 giugno 1928
Impostazione nei cantieri Ansaldo di Sestri Ponente (Genova).
21 dicembre 1930
Varo nei cantieri Ansaldo di Sestri Ponente, madrina Cesarina Del Croix.
10 febbraio 1932
Entrata in servizio, quarta ed ultima unità della classe Da Barbiano ad essere completata. Viene assegnato alla 2a Squadra Navale, formata dagli incrociatori più veloci e meno protetti. Suo primo comandante è il capitano di vascello Giovanni Gabetti.
Nei primi anni di servizio, terminate le prove e l’addestramento preliminare, svolgerà normale attività di Squadra e d’addestramento, visitando vari porti in Italia ed in altre nazioni mediterranee e prendendo parte alle manovre navali annuali.
Nei primi anni Trenta subirà anche una modifica all’armamento contraereo, con la sostituzione dei due cannoncini singoli da 40/39 mm Vickers-Terni 1917 con quattro mitragliere binate da 13,2/76 mm.
4 giugno 1932
Il comandante Gabetti viene sostituito dal capitano di vascello Alberto Bettioli.
10 ottobre 1932
Il capitano di vascello Bettioli lascia il comando al parigrado Luigi Notarbartolo.


A Venezia nel 1933 (da it.wikipedia.org) 

22 aprile 1934
Con una solenne cerimonia, alla presenza della I (Luca Tarigo, Ugolino Vivaldi, Antoniotto Usodimare, Alvise Da Mosto) e II Squadriglia Esploratori (Lanzerotto Malocello, Giovanni Da Verrazzano, Nicoloso Da Recco, Emanuele Pessagno), della IV Squadriglia Cacciatorpediniere (Francesco Crispi, Quintino Sella, Giovanni Nicotera, Bettino Ricasoli, Tigre, Francesco Nullo, Daniele Manin) e del posamine Dardanelli, il Colleoni, i gemelli Alberico Da Barbiano, Alberto Di Giussano e Giovanni delle Bande Nere ed il similare Luigi Cadorna ricevono le proprie bandiere di combattimento nel bacino di San Marco a Venezia. La bandiera del Colleoni è offerta dalla città di Bergamo, città natale del condottiero eponimo.
Qualche giorno prima le navi sono state visitate da Vittorio Emanuele III, assieme al capo di Stato Maggiore della Regia Marina, ammiraglio Domenico Cavagnari, ed al comandante del Dipartimento Marittimo dell’Alto Adriatico, ammiraglio Ferdinando di Savoia.


Il Colleoni a Venezia il 20 aprile 1934 (Coll. Guido Alfano via Giorgio Parodi)

10 agosto 1934
Assume il comando del Colleoni il capitano di vascello Guido Porzio Giovanola, che rileva il comandante Notarbartolo.


La nave fotografata il 30 aprile 1934 (foto Aldo Fraccaroli, coll. Maurizio Brescia, via www.associazione-venus.it

25 agosto 1936
Guido Porzio Giovanola cede il comando al capitano di vascello Priamo Leonardi.
5 settembre-3 ottobre 1936
Viene dislocato a Barcellona a protezione dei cittadini italiani, agli albori della guerra civile spagnola. In un’occasione trovano rifugio sul Colleoni, che li porterà poi a La Spezia, tre giovani militanti della Falange sfuggiti ad una esecuzione sommaria a Barcellona.
3 gennaio 1937
Scorta un piroscafo con truppe e rifornimenti per le forze nazionaliste e compie una crociera pendolare nell’ambito delle operazioni connesse alla guerra di Spagna.
28 gennaio-5 febbraio 1937
Effettua crociera pendolare (intercettazione e segnalazione alle autorità nazionaliste del traffico diretto verso porti repubblicani) durante la guerra civile spagnola.


Il Colleoni a Venezia: in secondo piano la X Squadriglia Cacciatorpediniere (Coll. Guido Alfano, via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net

18-24 febbraio 1937
Altra crociera pendolare per le operazioni legate alla guerra civile in Spagna.
16-21 aprile 1937
Scorta un piroscafo con truppe e rifornimenti per le forze nazionaliste spagnole.
29 aprile-1° maggio 1937
Altra missione di scorta ad un piroscafo con rifornimenti per i falangisti.
3-6 maggio 1937
Nuova missione di scorta a piroscafo con rifornimenti per le forze nazionaliste spagnole.
1938-1939
A seguito di nuovi lavori, l’armamento contraereo viene rinforzato con l’aggiunta di quattro moderne mitragliere binate Breda 1935 da 20/65 mm. Vengono imbarcate anche due tramogge per bombe di profondità (40 cariche).
Nello stesso periodo le strutture dello scafo, soggette a sollecitazioni troppo violente ad alta velocità, devono essere rinforzate.
31 luglio (o 5 ottobre) 1938
Assume il comando del Colleoni il capitano di vascello Gaetano Catalano Gonzaga, in luogo di Leonardi.


La nave a Genova il 30 maggio 1938 (Coll. Giorgio Parodi, via Maurizio Brescia e www.associazione-venus.it

16 novembre 1938
Il Colleoni salpa da La Spezia diretto in Cina per rimpiazzare l’incrociatore leggero Raimondo Montecuccoli nel ruolo di stazionario, a protezione dei cittadini italiani residenti in Cina, minacciati dalla feroce guerra sino-giapponesi in corso ormai da più di un anno. Dopo uno scalo a Napoli, dove imbarca 50 uomini del Reggimento San Marco che devono rinforzare il presidio del «San Marco» già presente a Shanghai (tra cui il capitano di corvetta Mario Ruta, futura MOVM), il Colleoni prosegue per l’Estremo Oriente, toccando Port Said, Suez, Massaua (dove incontra il Montecuccoli in viaggio di ritorno), Colombo e Hong Kong.
23 dicembre 1938
Arriva a Shanghai, divenendo la nave di bandiera del Comando Superiore Navale Estremo Oriente (che comprende le cannoniere Lepanto ed Ermanno Carlotto stazionarie in Cina). Resterà fermo in tale porto sino al 27 marzo dell’anno successivo.
27 marzo-21 aprile 1939
Lascia Shanghai il 27 marzo per una crociera nella Cina settentrionale e nel Giappone; fa scalo a Tsingtao, Chefoo, Chinwangtao, Dairen, Kobe, Yokohama, Nagasaki, Wei-Hai-Wei e Petaiho, per poi fare ritorno a Shanghai il 21 aprile. Durante il viaggio il comandante Catalano Gonzaga tratterà con la Marina Imperiale giapponese, ottenendo l’esenzione dai controlli per le navi italiane in acque cinesi, e conferendo con l’imperatore del Giappone, Hirohito (a Tokyo), e con quello del Manchukuo, Pu Yi.


La nave a La Spezia (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net

16-19 luglio 1939
Si reca in visita a Dairen (Manchukuo), dando inizio ad alcune crociere di pattugliamento di 22 giorni di durata, con l’incarico di pattugliare le coste della Cina per tutta la loro estensione – da Hong Kong a Port Arthur o Dairen – ed impedire l’invio di truppe, armi e rifornimenti in Cina.
10-11 agosto 1939
Nuova visita a Dairen.
17 agosto-13 settembre 1939
Terza ed ultima visita a Dairen.
1 o 9 ottobre 1939
A seguito dello scoppio della seconda guerra mondiale, e dell’invito alle nazioni europee, da parte del Giappone, di ritirare le proprie navi dalle acque della Cina, il Colleoni lascia Shanghai per rientrare in Italia, facendo scalo, durante il viaggio, a Singapore, Colombo e Massaua.
Il precedente 2 settembre, il giorno dopo lo scoppio del conflitto, l’incrociatore pesante britannico Devonshire era stato inviato in pattugliamento per d’intercettazione a sud della costa giapponese per attaccare il Colleoni, che risultava essere in Giappone, qualora anche l’Italia fosse entrata in guerra contro il Regno Unito.
Per lo stesso motivo si erano avviati anche contatti con le autorità giapponesi per una possibile vendita dell’incrociatore alla Marina imperiale, ma non se ne era infine fatto niente.
28 ottobre 1939
Conclude il viaggio arrivando a Gaeta.
Andrà poi a formare, insieme al gemello Giovanni delle Bande Nere, la II Divisione Navale, al comando dell’ammiraglio di divisione Carlo Cattaneo (poi sostituito dal parigrado Ferdinando Casardi) e di base a La Spezia.
31 gennaio (o 5 febbraio) 1940
Il capitano di vascello Gaetano Catalano Gonzaga lascia il comando del Colleoni, venendo rimpiazzato in tale ruolo dal parigrado Umberto Novaro: questi sarà l’ultimo comandante del Colleoni.


Un’altra immagine del Colleoni (Australian War Memorial)

30 aprile 1940
Dopo tentativi falliti di vendere l’ormai relativamente anziana, e soprattutto inadeguata, nave al Giappone (nel 1939), il Colleoni torna a far parte delle forze da battaglia. Entrerà in guerra senza aver avuto il tempo di subire un raddobbo o di completare l’addestramento. In guerra verrà considerato un’unità “spendibile”, adatta a missioni di scorta e di posa mine piuttosto che per operare con le forze da battaglia.
10 giugno 1940
All’ingresso in guerra dell’Italia il Colleoni, insieme al gemello Bande Nere (nave ammiraglia), forma la II Divisione Navale (al comando dell’ammiraglio di divisione Ferdinando Casardi), dislocata a Palermo e facente parte della 2a Squadra Navale.
Alle 20 dello stesso 10 giugno Colleoni e Bande Nere lasciano Palermo per coprire le operazioni di posa, da parte del posamine Buccari e del posamine ausiliario (ex traghetto ferroviario) Scilla, dello sbarramento di mine «G P» (Capo Granitola-Pantelleria) nel Canale di Sicilia. In mare è anche una forza d’appoggio costituita dalle Divisioni Navali III (da Messina) e VII (da Napoli), dall’incrociatore pesante Pola (da Messina) e dalla X Squadriglia Cacciatorpediniere (da Napoli).
11 giugno 1940
Colleoni e Bande Nere fanno ritorno a Palermo.
16 giugno 1940
Colleoni e Bande Nere si trovano nel porto di Palermo quando la città viene sorvolata da cinque aerei che lanciano manifestini; i due incrociatori aprono il fuoco con le artiglierie contraeree.


Foto aerea (da www.marina.difesa.it

22-24 giugno 1940
La II Divisione (Colleoni e Bande Nere), insieme alle Divisioni incrociatori I (incrociatori pesanti Zara, Fiume, Gorizia) e III (incrociatori pesanti Trento e Bolzano), all’incrociatore pesante Pola (nave ammiraglia del comandante superiore in mare) ed alle Squadriglie Cacciatorpediniere IX, X e XII (cioè tutta la II Squadra Navale, più la I Divisione), prende il mare per fornire copertura alla VII Divisione ed alla XIII Squadriglia Cacciatorpediniere, inviate a compiere un’incursione contro il traffico mercantile francese nel Mediterraneo occidentale, dopo che intercettazioni e ricognizioni aeree hanno posto in evidenza l’esistenza di un intenso traffico convogliato tra Provenza ed Algeria.
Colleoni e Bande Nere partono da Palermo alle 17.30 del 22 giugno ed al tramonto dello stesso giorno, a nord di Palermo, si riuniscono al Pola ed alla I e III Divisione, uscite da Augusta e Messina. La formazione fa rotta fino ad un punto situato 40 miglia ad ovest dell’isola di San Pietro (Sardegna), da dove poi tenersi pronta ad intervenire a supporto della VII Divisione in caso di necessità.
L’operazione non porta comunque ad incontrare alcuna nave nemica; le avverse condizioni del tempo (nubi basse, piovaschi e foschia) impediscono alla ricognizione aerea di individuare alcunché.
Colleoni e Bande Nere rientrano a Palermo, arrivandovi alle 2.50 del 24.
28 giugno 1940
Il Colleoni salpa da Palermo alle 23.15, preceduto alle 22.30 dal Bande Nere, per trasferirsi ad Augusta, seguendo la rotta che passa a nord della Sicilia.
29 giugno 1940
I due incrociatori giungono ad Augusta alle 9.30.


Il Colleoni all’ormeggio (g.c. Carlo Di Nitto)

2 luglio 1940
Colleoni e Bande Nere salpano da Augusta tra le 20 e le 20.30, insieme alla X Squadriglia Cacciatorpediniere, per tentare l’intercettazione di un cacciatorpediniere britannico classe J, indicato come in navigazione da Gibilterra verso, probabilmente, Malta.
3 luglio 1940
Il Bande Nere catapulta un aereo da ricognizione, ma non si effettuano comunque avvistamenti; la visibilità sul mare, con vento fresco da maestrale, è piuttosto contenuta, ed alla fine le navi sono costrette a rientrare ad Augusta a mani vuote, giungendovi alle 17.50 (Colleoni) ed alle 19 (Bande Nere).
4 luglio 1940
Colleoni e Bande Nere lasciano Augusta tra le 00.05 e l’1.40 per raggiungere, a 100 miglia dalla Sicilia, un convoglio di due mercantili (Esperia e Victoria, scortati dalle torpediniere Procione, Orsa, Orione e Pegaso) di ritorno da Tripoli, del quale assumere la scorta per un tratto (assieme agli incrociatori pesanti Zara, Fiume e Gorizia della I Divisione e dei cacciatorpediniere Alfieri, Oriani, Gioberti e Carducci della IX Squadriglia e Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco della X Squadriglia). Completata la missione (il convoglio giungerà indenne a Napoli lo stesso 4 luglio), il Colleoni torna ad Augusta alle 19.55, preceduto dal Bande Nere che vi è già arrivato alle 9.30.


In navigazione (da digilander.libero.it) 

7 luglio 1940
Bande Nere (con a bordo l’ammiraglio Casardi) e Colleoni lasciano Augusta alle 12.55, insieme ai cacciatorpediniere della X Squadriglia (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco), per assumere la scorta del primo convoglio di grandi dimensioni inviato in Libia (operazione «TCM»), partito da Napoli alle 18 del giorno precedente: lo compongono il piroscafo Esperia (con 1571 militari a bordo) e le motonavi Calitea (con 619 militari a bordo), Marco Foscarini, Francesco Barbaro e Vettor Pisani (queste ultime tre, da carico, aventi a bordo in tutto 232 automezzi, 5720 tonnellate di carburanti e lubrificanti e 10.445 tonnellate di altri rifornimenti), scortate dalle moderne unità della XIV Squadriglia Torpediniere (Orsa, Procione, Orione e Pegaso).
A protezione del convoglio è in mare pressoché tutta la flotta italiana: 35 miglia ad est, per scorta indiretta, vi sono l’incrociatore pesante Pola, la I e III Divisione con cinque incrociatori pesanti e le Squadriglie Cacciatorpediniere IX, XI e XII con dodici unità in tutto; 45 miglia ad ovest vi sono i quattro incrociatori leggeri della VII Divisione ed i quattro cacciatorpediniere della XIII Squadriglia. In più vi è un gruppo di protezione/sostegno costituito dall’intera 1a Squadra Navale, con le due corazzate della V Divisione, i sei incrociatori leggeri della IV e VIII Divisione ed i tredici cacciatorpediniere della VII, VIII, XV e XVI Squadriglia.
Il convoglio, procedendo a 14 nodi (il gruppo che comprende la II Divisione procede a 20 nodi sino ad incontrare il convoglio a sud della Sicilia, per scortarlo nel tratto più pericoloso, fino a Bengasi), segue rotta apparente verso Tobruk fino a giungere in un punto situato 245 miglia a nordovest di Bengasi, quindi assume rotta verso quest’ultimo porto; dopo altre 100 miglia il convoglio si divide, lasciando proseguire a 18 nodi le più veloci Esperia e Calitea, mentre le motonavi da carico manterranno una velocità di 14 nodi.
8 luglio 1940
All’1.50 l’ammiraglio Inigo Campioni, comandante della flotta italiana, a seguito di avvistamenti della ricognizione che rivelano la presenza in mare della Mediterranean Fleet britannica (anch’essa uscita a tutela di convogli), ordina al convoglio, che si trova in rotta 147° (per Bengasi) di assumere rotta 180°, in modo da essere pronto ad essere dirottato su Tripoli in caso di necessità. Alle 7.10, appurato che la Mediterranean Fleet non può essere diretta ad intercettare il convoglio, Campioni ordina a quest’ultimo di tornare sulla rotta per Bengasi.
Il convoglio «TCM» arriva a Bengasi, dopo una navigazione tranquilla, tra le 18 e le 22; la II Divisione e la X Squadriglia vengono inviate a Tripoli.
9 luglio 1940
La II Divisione e la X Squadriglia vengono dislocate a Tripoli, dove il Colleoni dà fondo alle 13.10, preceduto, alle 10.25, dal Bande Nere. Queste unità non parteciperanno quindi alla battaglia di Punta Stilo, scatenatasi il giorno seguente tra la flotta italiana (1a e 2a Squadra Navale) e quella britannica e conclusasi senza vincitori né vinti.

Il Colleoni ormeggiato a Trieste nel 1934 (Coll. Alessandro Asta, via www.associazione-venus.it

Capo Spada

La perdita del Colleoni fu la conseguenza di un piano che, nell’idea di base, non sembrava sbagliato.
Dopo che la II Divisione, al termine dell’operazione del 9 luglio, si era dislocata a Tripoli, Supermarina decise infatti di trasferirla per un breve periodo in Egeo, e precisamente nella base navale di Portolago, a Lero, per impiegarla come forza d’attacco veloce per incursioni contro il traffico britannico nell’Egeo, allo scopo di recare il maggior danno possibile. Un’idea simile avrebbe spinto nell’ottobre 1941 la Royal Navy a dislocare a Malta la Forza K (incrociatori leggeri Aurora e Penelope e cacciatorpediniere Lance e Lively) per attaccare i convogli italiani diretti in Libia, con notevole successo. Forse sarebbe stato meglio, per Supermarina, designare due incrociatori più moderni delle classi Montecuccoli, Duca d’Aosta o Duca degli Abruzzi, anziché Bande Nere e Colleoni, dotati di modesta corazzatura e di una velocità massima ormai erosa dal trascorrere degli anni; in tal caso, forse, gli eventi successivi avrebbero preso una piega del tutto diversa. Ma si tratta di una questione buona soltanto, ormai, per il giudizio della Storia.
Il piano di Supermarina prevedeva che Bande Nere (nave di bandiera dell’ammiraglio di divisione Ferdinando Casardi, comandante la II Divisione) e Colleoni, partiti da Tripoli senza scorta di cacciatorpediniere (li avrebbero scortati i cacciatorpediniere di Tobruk, solo nell’ultimo tratto di avvicinamento a quella base e nella navigazione fino a Sollum e ritorno), si sarebbero riforniti rapidamente a Tobruk, poi avrebbero eseguito un’azione (breve ma intensa) di bombardamento contro posizioni costiere britanniche a Sollum (o, solo secondariamente, Marsa Matruh) dopo di che avrebbero diretto inizialmente su Tobruk fino al tramonto, in modo da trarre in inganno eventuali ricognitori britannici, per poi assumere rotta per Lero, dove sarebbe giunta nel primo pomeriggio del giorno da stabilire, transitando nel canale tra Rodi e Scarpanto oppure tra Cerigo e Candia.

Il 13 luglio 1940, pertanto, Supermarina ordinò all’ammiraglio di divisione Bruno Brivonesi, comandante di Marina Libia (a Bengasi), di chiedere al Comando Superiore Africa Settentrionale Italiana quali fossero gli obiettivi da colpire a Sollum, avvertendo al contempo anche l’ammiraglio Casardi della prossima missione della sua Divisione. Furono inoltre richieste ricognizioni aeree ad est di Tobruk, con velivoli delle basi di Rodi e della Cirenaica, per accertare che non vi si trovassero forze navali avversarie; e contattati gli Addetti Navali ad Atene ed Ankara per avere informazioni sull’eventuale concentramento, verso Creta, di piroscafi provenienti da porti della Grecia e della Turchia. L’indomani anche il Comando Superiore delle Forze Armate delle Isole Italiane dell’Egeo (Egeomil, a Rodi) venne avvisato – a mezzo di dispaccio spedito per aereo, onde evitare intercettazioni – della prossima dislocazione della II Divisione a Portolago, dei relativi scopi e dei tempi e modalità di massima dell’arrivo. La sosta forzata dell’aereo a Bengasi, per “ragioni meteorologiche”, ne ritardò però l’arrivo a Rodi fino al 24 luglio, quindi il 18 Supermarina dovette mandare un telegramma.
Il 14 luglio Supermarina aveva inviato all’ammiraglio Casardi, sempre per via aerea, anche l’ordine d’operazione con obiettivi e dettagli della missione dei due incrociatori. Le navi sarebbero procedute a 20 nodi (di più, a scelta di Casardi, nelle zone in cui avesse voluto zigzagare) in modo da giungere, alle 5.30 del giorno seguente alla partenza, 20 miglia a nordovest del punto prestabilito «C», dove sarebbero state raggiunte dai cacciatorpediniere di Tobruk, che le avrebbero scortate in porto. Qui si sarebbero rifornite di acqua (il minimo possibile) e nafta, poi sarebbero ripartite in giornata, avrebbero raggiunto Sollum a 25 nodi ed effettuato il bombardamento in modo da concluderlo due ore prima del tramonto; poi avrebbero fatto rotta per Tobruk a 25 nodi per ingannare il nemico, salvo, calato il buio, lasciare i cacciatorpediniere liberi di rientrare a Tobruk, e dirigere da sole per Portolago, passando, a seconda degli ordini che avrebbero ricevuto, tra Rodi e Scarpanto (messaggio in codice «Rimandate sosta prevista», anche cifrato per maggior sicurezza) oppure ad ovest di Creta («Pervenuto plico confidenziale», sempre in codice e cifrato), sempre a 25 nodi. Giunti a Portolago, gli incrociatori, rifornitisi delle munizioni impiegate nel bombardamento, si sarebbero dovuti tener pronti ad uscire in mare (in 6 ore fino a mezzanotte del giorno seguente a quello di arrivo, poi pronti in 2 ore salvo che nelle 24 ore successive al rientro da ciascuna incursione, quando sarebbero stati pronti in 6 ore) per rapide scorrerie contro naviglio mercantile britannico od al servizio del Regno Unito, e relative scorte. Durante la navigazione, specie verso Sollum, le navi si sarebbero dovute tenere per quanto possibile sopra fondali di profondità non inferiore ai 500 metri, in modo da non rischiare di incappare in campi minati; per tutta la durata della missione le navi di Casardi avrebbero dovuto mantenere il più rigido silenzio radio.
Se l’azione contro Sollum fosse stata compresa nella missione, Casardi avrebbe ricevuto un telegramma cifrato con il messaggio convenzionale (anch’esso cifrato) «Sedici terreni saranno espropriati», indicante che il giorno X (inizio della missione, partenza da Tripoli) sarebbe stato il 16 luglio; se invece la II Divisione avrebbe dovuto lasciare Tripoli diretta subito in Egeo, senza sostare a Tobruk e bombardare Sollum, il messaggio previsto sarebbe stato «Sedici trasmissioni errate», pure in cifra. Nessuno all’infuori di Casardi doveva essere messo al corrente degli ordini d’operazione; anche i comandanti dei due incrociatori, capitani di vascello Franco Maugeri (Bande Nere) e Umberto Novaro (Colleoni), avrebbero ricevuto dall’ammiraglio ordini più precisi soltanto una volta in mare.

L’Addetto Navale ad Istanbul, su richiesta di Supermarina, comunicò il 15 luglio che quel giorno, alle 18.30 ora italiana, tre motocisterne fluviali britanniche di 1500-2000 tsl, apparentemente a pieno carico, erano passate nel Bosforo dirette ai Dardanelli; il 16 aggiunse che avevano atteso a Çanakkalè, sulla sponda asiatica dei Dardanelli, altri tre piroscafi britannici, che stavano caricando merce ad Istanbul, onde poi salpare in un unico convoglio. Non mancò di descrivere l’aspetto delle cisterne, così che fossero riconoscibili, e poi di indicare anche i nomi di tutte e sei le navi. Al contempo, il 15, Marina Libia aveva riferito che in quel momento un bombardamento di Sollum non occorreva; lo si sarebbe chiesto in seguito, qualora fosse servito.
Sulla base di queste informazioni, il 16 sera Supermarina comunicò ad Egeomil quanto saputo da Istanbul e domandò se tale Comando acconsentisse all’invio a Lero, direttamente da Tripoli (senza bombardamento su Sollum) la II Divisione, che sarebbe passata presso Cerigo all’alba del 19, richiedendo inoltre ricognizione aerea sulla rotta per Lero. In attesa della risposta, alle 9.30 del 17 luglio Supermarina ordinò ai due incrociatori di accendere le caldaie e tenersi pronti a muovere, quindi telegrafò all’ammiraglio Casardi «diciassette trasmissioni errate» (partire da Tripoli e trasferirsi direttamente in Egeo, giorno X era appunto il 17) e poi aggiunse che la II Divisione sarebbe dovuta salpare alle 21 del 17 procedendo a 20 nodi, dirigendo da Tripoli per un punto situato 30 miglia a nord di Derna (giungendovi alle 21 del 18), da dove poi avrebbe fatto rotta 12° verso il passaggio tra Creta e Cerigotto (transito previsto per le 4.30 del 19); l’arrivo a Portolago era previsto per le 14.30 del 19 luglio. Arrivato l’assenso da Egeomil (ma solo dopo che il Comando Supremo ebbe dovuto ribadire gli ordini di Supermarina, perché il governatore dell’Egeo, il borioso megalomane Cesare De Vecchi, “accettava” direttive o “suppliche” solo dal Comando Supremo), Supermarina aggiunse che tale Comando avrebbe provveduto alla ricognizione aerea sulla rotta che dovevano seguire, e che una volta in Egeo la II Divisione avrebbe potuto ricevere ordini diretti anche da esso.

La segretezza sull’operazione, nonostante De Vecchi (che prese a mandare lunghissimi ed inutili telegrammi a Supermarina ed al Comando Supremo, finché la sera del 18 Supermarina fu costretto a ricordargli che la II Divisione doveva mantenere il silenzio radio, che gli aerei non avrebbero dovuto tentare di contattarla e, sostanzialmente, di stare zitto per non compromettere la segretezza dei codici della Regia Marina), fu mantenuta; i comandi britannici non seppero nulla di quanto quelli italiani stessero pianificando. Ma Supermarina non era l’unico comando a predisporre in quel momento operazioni in Mar Egeo.
Per contrastare l’attività dei sommergibili italiani, dislocati agli sbocchi meridionali dell’Egeo ed a settentrione di Creta, a danno dei convogli britannici in navigazione tra l’Egitto ed i Dardanelli, il comando della Mediterranean Fleet soleva predisporre, in coincidenza con il passaggio di propri convogli, dei rastrelli antisommergibile con impiego di unità leggere.
Uno di questi rastrelli ebbe inizio il 18 luglio 1940, prima della partenza dall’Egitto per i Dardanelli del convoglio «AN. 2»: in base a ordini diramati il pomeriggio del 17 luglio, la 2nd Destroyer Flotilla, con i cacciatorpediniere britannici Hasty (capitano di corvetta Lionel Rupert Knyvet Tyrwhitt), Hero (capitano di fregata Hilary Worthington Biggs), Hyperion (capitano di fregata Hugh St. Lawrence Nicolson, capoflottiglia) ed Ilex (capitano di corvetta Philip Lionel Saumarez), avrebbe condotto caccia antisommergibile nel canale tra Caso e Creta; al contempo l’incrociatore leggero australiano Sydney (capitano di vascello John Augustine Collins) ed il cacciatorpediniere britannico Havock (capitano di corvetta Rafe Edward Courage) avrebbero fornito appoggio a distanza a tale formazione ed effettuato un rastrello contro il traffico italiano (tra l’Italia da una parte e Mar Nero e Dodecaneso dall’altra) nel golfo di Atene. Le sei navi salparono da Alessandria d’Egitto il 18 luglio (la 2nd Flotilla poco dopo mezzanotte, Sydney e Havock alle 4.30), poi si divisero in due gruppi, diretti ai rispettivi obiettivi. Quando avesse completato la missione, la flottiglia di Nicolson avrebbe dovuto lasciare l’Egeo attraverso il canale di Cerigotto, passandovi alle 6 del 19 luglio.

Il Colleoni, al comando del capitano di vascello Umberto Novaro, ed il Bande Nere (capitano di vascello Franco Maugeri, imbarcato l’ammiraglio Casardi al comando della II Divisione) lasciarono Tripoli come previsto alle 21 del 17 luglio 1940. Alle 22.07 del giorno seguente le due unità raggiunsero il punto prestabilito al largo di Derna, dove accostarono verso nord per dirigere verso il canale di Cerigotto.
Fino alle sei del mattino del 19 luglio la navigazione dei due incrociatori italiani procedette tranquilla, senza imprevisti.
Il sole era sorto intorno alle cinque e un quarto. Colleoni e Bande Nere erano dotati di idrovolanti da ricognizione IMAM Ro. 43, ma l’ammiraglio Casardi non li aveva fatti catapultare, dato che sarebbe stato difficile e pericoloso a causa delle condizioni meteomarine sfavorevoli, con vento teso da maestrale e mare agitato (per catapultare gli aerei le navi dovevano mettere la prua al vento, il che in quelle condizioni avrebbe comportato la riduzione della velocità, esponendoli al rischio di attacchi da parte dei sommergibili che si temeva fossero in quelle acque), e soprattutto che, stando a quanto gli era stato comunicato, sarebbe stato Egeomil a provvedere alla ricognizione aerea nella zona attraversata dalla II Divisione. A quello scopo Egeomil aveva fatto eseguire delle ricognizioni aeree con idrovolanti IMAM Ro. 44 nel pomeriggio del 18, ma senza avvistare nulla; il mattino del 19 tre idrovolanti CANT Z. 501 della ricognizione marittima (84° Gruppo della Regia Aeronautica) sarebbero dovuti decollare da Lero alle 4.45, ma non poterono farlo per problemi tecnici (il primo, alle 4.45, subì il surriscaldamento del motore durante il decollo, reso difficile dal mare mosso, e dovette così interrompere il decollo; il secondo decollò alle 4.50, ma dovette rientrare dopo un’ora per lo sforzo sostenuto dal motore; il terzo, decollato alle 4.55, fu costretto anch’esso al rientro per problemi al motore) ed altri due velivoli dello stesso tipo (il primo della 147a Squadriglia ed il secondo della 185a Squadriglia) poterono decollare solo alle 6.20 ed alle 6.50: ormai troppo tardi per influire sul corso degli eventi, che anzi avevano già avuto inizio.
(Secondo la storia della Marina australiana, un superstite del Colleoni, poi preso prigioniero, affermò che intorno alle sei del mattino c’era stato un tentativo di lanciare un idrovolante, ma si dovette rinunciare, probabilmente per un guasto meccanico. Risulta inoltre che a bordo dell’Hyperion e del Sydney le condizioni del vento e del mare vennero riportate come più calme rispetto a quanto descritto da Casardi; in un dispaccio il Sydney riferì di mare forza 5).
Alle 6.17 Colleoni e Bande Nere stavano procedendo a 25 nodi a zig zag su rotta 73° ed erano a circa dodici miglia dal passaggio tra Creta e Cerigotto, quando avvistarono di prua, a circa 18 miglia di distanza, i profili di quattro navi (distese in linea di fronte a circa mille metri l’una dall’altra, come lo schermo esplorativo di una formazione di navi maggiori), che, pur avendo negli occhi il riverbero del sole (che era sorto proprio dietro le unità in arrivo), riconobbero per altrettanti cacciatorpediniere britannici: erano Hasty, Hero, Hyperion ed Ilex della 2nd Destroyer Flotilla, che – terminato il rastrello antisom e diretti ora alla loro base – si stavano anch’essi avvicinando al passaggio tra Creta e Cerigotto (Canale di Cerigotto) provenendo da est (mentre la II Divisione proveniva da ovest), con rotta per sudovest.
Alle 6.22 anche questi ultimi avvistarono le navi di Casardi: alle 6.33 l’Hero lo riferì al Sydney – che si trovava 40 (o 60) miglia più a nord-nord-est, a 40 miglia per 010° da Capo Spada, insieme all’Havock (non avevano trovato alcuna nave da attaccare e stavano dirigendosi verso il Golfo di Atene) – e subito tutti i cacciatorpediniere accostarono per 60° (cioè a dritta) ed accelerarono gradualmente da 18 a 31 nodi, ritirandosi verso nordest inseguiti dagli incrociatori italiani; un minuto dopo l’Hyperion inviò al Sydney una comunicazione più dettagliata, indicando la propria rotta come 60° e quella delle navi italiane come 360°, oltre a precisare posizione (3 miglia per 340° dal faro dell’isolotto di Agria Gramvousa) e velocità. L’incontro, in una delle poche circostanze del genere nella guerra del Mediterraneo, era stato del tutto casuale: sull’Hyperion gli uomini avevano appena lasciato i posti di guardia dell’alba, e si stava preparando la colazione, quando la vedetta dell’ala dritta di plancia aveva annunciato “Two cruisers on the starboard bow, sir” precisando poi “and they’re Italian, too”. Suonati i campanelli d’allarme, i cacciatorpediniere avevano subito compiuto una netta virata verso nordest issando le bandiere di combattimento; Hyperion ed Ilex, i più vicini alle navi italiane, avevano anche aperto il fuoco durante la manovra (l’Hyperion con i soli cannoni poppieri), ma con tiro troppo corto.
(Secondo una fonte, gli incrociatori di Casardi erano stati avvistati dalla RAF il giorno precedente, ma Collins non ne era stato informato. Nella storia ufficiale dell’USMM e della Royal Australian Navy e nella maggior parte dei libri scritti a riguardo, però, non si fa menzione di questo avvistamento, tanto da far dubitare della sua veridicità).

Il Colleoni visto dal Bande Nere all’inizio dello scontro (g.c. Carlo Di Nitto)

Quando ricevette la comunicazione sulla situazione della 2nd Flotilla, il comandante Collins del Sydney assunse subito rotta verso sud (prima 240° e subito dopo, ricevuto il secondo segnale dell’Hyperion, 190°; successivamente con varie accostate verso est/sudest in base agli aggiornamenti sulla posizione del’Hyperion) a tutta forza, insieme all’Havock; poco dopo il comando della Mediterranean Fleet, avendo intercettato i messaggi inviati dai cacciatorpediniere, ordinò che Sydney ed Havock si riunissero agli altri quattro cacciatorpediniere, per condurre un attacco congiunto. Collins, stando agli ordini che aveva ricevuto, si sarebbe dovuto trovare in realtà circa 200 miglia più a nord di dove effettivamente era; si era portato lì di sua iniziativa, temendo di trovarsi altrimenti troppo lontano dai cacciatorpediniere della 2nd Flotilla in caso di attacco da parte di unità nemiche, ed aveva visto giusto. Sul Sydney l’equipaggio, consumata rapidamente la colazione, si preparò alla battaglia.
Da parte italiana si era completamente all’oscuro della presenza in zona di queste altre due navi, e si continuò a restarne all’oscuro, perché Collins mantenne il silenzio radio per tutto il tempo, proprio per giungere loro addosso di sorpresa.
Intanto la II Divisione, portata la velocità a 30 nodi, si spiegò sulla sinistra (assumendo rotta 360°) ed aprì il fuoco alle 6.27, da 17.500 metri, sui due cacciatorpediniere più a sinistra, cioè Ilex ed Hyperion. Gli incrociatori assunsero una rotta verso nord, leggermente divergente da quella dei cacciatorpediniere (che era verso nordest), il che impedì alle distanze di diminuire; ciò fu spiegato con il sospetto, da parte di Casardi, che i cacciatorpediniere fossero lo schermo avanzato di una formazione più pesanti, ma di fatto impedì alla II Divisione di sfruttare la sua superiorità in armamento e (almeno teoricamente) velocità per infliggere gravi danni alla 2nd Destroyer Flotilla.
Alle 6.32 i cacciatorpediniere risposero al fuoco; Casardi tenne le sue navi ad una distanza tale da restare al di fuori della portata dei cannoni da 120 mm delle unità nemiche (cioè 15.550 metri, contro i 28.350 teorici, ma 24.600 reali, dei pezzi da 152 degli incrociatori di Casardi), oltre che per evitare attacchi siluranti. Pezzi di tale calibro non avrebbero dovuto, normalmente, impensierire un incrociatore, ma la pochezza della corazzatura delle prime due classi del tipo “Condottieri” rendeva invece Colleoni e Bande Nere vulnerabili anche ai tiro dei pezzi da 120, se colpiti. Il problema derivante da questa decisione, come detto, fu l’impossibilità, tirando a distanze tanto elevate, di mettere un sol colpo a segno sulle navi britanniche.
Il tiro dei cacciatorpediniere del comandante Nicolson appariva centrato, ma corto di 800 metri; quello delle navi dell’ammiraglio Casardi, molto disperso. Un marinaio di uno dei cacciatorpediniere britannici ricordò in seguito che durante tale fase dell’azione le navi della 2nd Flotilla non poterono far altro che cercare di distanziare alla massima velocità possibile (31 nodi) le unità avversarie, evitando i colpi che frequentemente risultavano sparati alla giusta distanza, ma sempre disallineati dai bersagli (azimut errato), che non riuscivano così mai a colpire (ciò era dovuto anche al fatto che i “Da Barbiano” erano delle piattaforme d’artiglieria piuttosto mediocri, soggetti con mare mosso – come appunto in quello scontro – a forte rollio, che disturbava seriamente il tiro). Guardare le salve da 152 che esplodevano tra le navi, sollevando “spruzzi verdi, gialli e rossi”, fu per quegli equipaggi uno “spiacevole passatempo”.
Alle 6.43, secondo Casardi, la 2nd Flotilla cessò il tiro e lanciò i propri siluri da 18.000 metri, per poi coprirsi con cortine nebbiogene che, assieme alla foschia naturale del mattino ed alla luce del sole che accecava i puntatori italiani, riuscirono ad allontanarsi indenni verso nordest, passando a proravia delle navi di Casardi. Queste ultime cessarono il fuoco alle 6.48 (in quel momento esse si trovavano a sudest di Cerigotto, mentre i cacciatorpediniere erano a nord di Capo Spada), essendo i bersagli ormai occultati dalla foschia naturale e dalla nebbia artificiale, e due minuti dopo accelerarono a 32 nodi e compirono una netta accostata a dritta (verso sudest) nel tentativo di ridurre le distanze, che erano aumentate fino a 24.000 metri (le rotte dei due gruppi risultavano infatti leggermente divergenti, mentre dopo questa manovra divennero leggermente convergenti).
Il lancio dei siluri da parte delle navi di Nicolson, e l’avvistamento di due dei siluri, passati molto lontani sulla dritta degli incrociatori, fu però solo il frutto di un’illusione ottica da parte italiana: la 2nd Flotilla non eseguì in realtà alcun lancio di siluri in questa fase, non potendo fare altro che manovrare per evitare le salve tirate dalle navi italiane. Nella loro fuga, intorno alle sette i cacciatorpediniere passarono a otto miglia da un vecchio mercantile greco: il suo equipaggio, temendo di essere coinvolto nella battaglia e forse attaccato per errore, fermò la nave e l’abbandonò su una lancia.
Frattanto, alle 6.47 le navi di Nicolson avevano virato per 360° per tentare di riconoscere la classe degli incrociatori italiani, ma alle 6.53, vedendo le navi di Casardi manovrare per ridurre le distanze, tornarono su rotta 60°.
Alle 6.57 Casardi ordinò di virare ancora, stavolta verso est, mentre Nicolson aveva virato verso nordest quattro minuti prima, nel tentativo di avvicinarsi al sopraggiungente Sydney che ancora non si vedeva. Questa manovra, mantenendo ancora una rotta divergente, continuò ad impedire agli incrociatori italiani di ridurre le distanze, il che avrebbe invece permesso loro una maggior precisione del tiro.
Il fuoco fu aperto solo saltuariamente, ogniqualvolta qualche cacciatorpediniere appariva tra nebbia e foschia, prima di sparire nuovamente; alle 6.58 i cacciatorpediniere ridivennero visibili, a 23.000 metri, e fu nuovamente aperto il fuoco contro di loro, ma ormai la distanza era tale da rendere vano il tiro (che da parte avversaria venne valutato sia corto che irregolare), ed alle 7.05, dopo poche salve, fu cessato il fuoco. Alle 7.03 Casardi ordinò di virare a sinistra (verso est), con rotta pressoché analoga a quella di Nicolson: ora la rotta non era più divergente, e le distanze iniziarono a calare. Alle 7.21 la velocità della II Divisione venne nuovamente ridotta a 30 nodi, ed un minuto dopo l’ammiraglio Casardi chiese via radio ad Egeomil di inviare dei bombardieri, indicando la propria posizione e la situazione; alle 7.25 fu nuovamente aperto il fuoco.
Intanto la 2nd Flotilla aveva più volte cambiato rotta: 030° alle 7.04 (dopo aver ricevuto l’ordine di riunirsi al Sydney), 060° alle 7.06 (un minuto dopo aver comunicato al Sydney che la II Divisione era in quel momento a 17 miglia per 265° dai cacciatorpediniere, con rotta 090°), 040° alle 7.14 e 030° alle 7.21.
Nel mentre, il Sydney aveva assunto rotta 150° alle 7, 160° alle 8.15 e 120° alle 8.20.


 Il Colleoni inquadrato dalle prime salve (g.c. Carlo Di Nitto)


Alle 7.30, mentre la II Divisione stava navigando a 30 nodi verso nordest con rotta leggermente convergente a quella dei cacciatorpediniere, che si erano intanto distanziati verso nord, alcune salve di medio calibro, provenienti da nord, caddero sulla sinistra del Bande Nere. Dalle navi italiane si vedevano le vampe dei cannoni ma non si riusciva a vedere quali fossero le navi da cui proveniva quel tiro, essendo nascoste da un banco di densa foschia: era il Sydney, che aveva avvistato gli incrociatori italiani alle 7.26 (già alle 7.20 ne aveva visto il fumo) verso sud (a 21.000 metri per 188°, cioè a 20° al traverso a dritta) ed aveva aperto il fuoco tre minuti più tardi, da 18.000 metri di distanza, oltre a rompere il silenzio radio per inviare un segnale di scoperta a Nicolson ed al suo superiore, ammiraglio Cunningham.
Il suo tiro fu da subito ben centrato sulle due unità di Casardi; da parte loro, queste risposero al fuoco alle 7.31 con tutti i cannoni ma senza poter telemetrare, ed un minuto più tardi accostarono a un tempo di 90° a dritta (verso sudest, su rotta parallela al Sydney) per evitare di ridurre velocemente le distanze, trovandosi però così a poter impiegare solo le torri poppiere, sparando verso dritta.
Mentre da parte italiana non si riusciva ancora a vedere le unità avversarie, il Sydney vedeva bene gli incrociatori di Casardi, contro i quali sparava continuamente salve di sei-otto colpi da 152 mm. Il primo ad essere colpito fu il Bande Nere, raggiunto da un proiettile che causò danni non gravi ma uccise quattro uomini. Nel frattempo le salve italiane dirette sul Sydney, dapprima corte, divennero lunghe, ed una salva “anomala” inquadrò anche l’incrociatore australiano. Il tiro italiano divenne tale da essere considerato piuttosto accurato da Collins, ma ad un ritmo di tiro troppo lento, mentre il Sydney sparava con cadenza di tiro molto superiore (si pensi che l’incrociatore australiano sparò da solo 956 colpi da 152 mm, ed in tutto più di 1300 proiettili di tutti i calibri, in due ore di azione, mentre Bande Nere e Colleoni spararono tra tutt’e due soltanto 500 colpi in tre ore, includendo anche la fase precedente all’arrivo del Sydney). Alle 7.38 la flottiglia cacciatorpediniere di Nicolson (dopo aver essere passato da rotta 020° a 240° e poi 260°) invertì la rotta di 180°, portandosi su rotta sudovest (cioè 170°), e manovrò per tentare un attacco silurante, aprendo al contempo il fuoco coi cannoni alla massima distanza (ma cessando il tiro dopo cinque minuti, essendo questo troppo corto). Solo a questo punto i cacciatorpediniere furono avvistati dal Sydney, che distaccò poi l’Havock per unirsi a loro ed alle 7.41 ordinò a Nicolson di avvicinarsi ed attaccare con i siluri.
Per cercare di migliorare la propria situazione, o piuttosto peggiorare quella del nemico, l’ammiraglio Casardi ordinò di emettere per quattro minuti una cortina nebbiogena: il provvedimento si rivelò efficace, e la precisione del tiro del Sydney andò rapidamente calando. Smesso di far nebbia, il Bande Nere compì una decisa accostata di 90° a dritta (verso sudovest) ed alle 7.40 il Colleoni gli si accodò. Questa virata vanificò l’intento di Nicolson di compiere un attacco silurante, per il momento; il comandante britannico portò allora le sue navi su rotta 215° e poi 350°, proseguendo l’inseguimento alla massima velocità, 32 nodi. La manovra del Sydney (alle 7.45 accostò anch’esso per 215°), per continuare a seguire le navi italiane, lo portò a trovarsi in una sorta di “linea di fronte” con i suoi cacciatorpediniere.
Alle 7.46 la formazione italiana accostò di nuovo, per 215°, e le navi nemiche – distanti 19.000 metri – risultarono infine visibili tra la foschia: fu però commesso un notevole errore di riconoscimento, dato che l’una venne correttamente riconosciuta quale incrociatore “classe Sydney”, ma l’altra – l’Havock, un cacciatorpediniere – venne scambiata per un ben più grande incrociatore leggero “classe Gloucester”. Allo stesso tempo, dato che il Bande Nere risultava troppo nascosto dal fumo, il Sydney – che contemporaneamente aveva correttamente identificato gli incrociatori come “classe Colleoni” – spostò il tiro sul Colleoni, che impegnò con le torri prodiere da 17.000 metri; anche i cacciatorpediniere si aggiunsero con il loro tiro, ma soltanto per un paio di minuti.

L’ammiraglio Casardi sapeva che il principale vantaggio delle sue navi era rappresentato dalla loro velocità, e, non ritenendo di poter manovrare liberamente nel tratto di mare in cui si trovava (e temendo che le unità avversarie potessero sfruttare la loro superiorità numerica, e le caratteristiche del bacino in cui si svolgeva lo scontro – così intrappolando le sue navi tra sé stesse e la costa cretese –, per impedirgli la ritirata qualora le cose si fossero messe al peggio), manovrò per attirare la formazione britannica in acque libere. A questo scopo alle 7.46, invece che dirigere su Lero, Casardi ordinò un’altra netta accostata di 50° a dritta (dirigendo verso sud), con schieramento approssimativamente parallelo a quello britannico, in modo da rilevarlo nei settori di massima offesa e da trovarsi in posizione avanzata, idonea anche all’eventuale impiego dei siluri.
Alle 7.50 Casardi ordinò di accostare a sinistra per ridurre l’efficacia del tiro avversario, e per lo stesso motivo ordinò invece un’accostata a dritta alle 7.53.
Alle 7.53 la II Divisione accostò per dirigere su Capo Spada (Creta), e poi accostò ancora per doppiare tale Capo, assumendo rotta 230°. Queste manovre furono coperte con cortine fumogene. Il Sydney, però, virò a sua volta, dapprima verso sudest e poi verso sud-sudovest, assumendo rotta parallela alla loro.
Solo alle 8.01 risultò possibile telemetrare adeguatamente le unità avversarie, così che Colleoni e Bande Nere poterono nuovamente aprire il fuoco con tutte le torri. (Fino ad allora, mentre ambedue le formazioni effettuavano ripetute accostate per variare le distanze o portare almeno momentaneamente in campo tutte le artiglierie, le navi di Casardi avevano sparato solo ad intermittenza, mentre il Sydney aveva eseguito un tiro continuo, prendendo di mira ora il Colleoni, ora il Bande Nere). In quello stesso momento il Sydney tornò a sparare contro il Bande Nere, poi, dalle 8.08 (dato che il Bande Nere era nuovamente occultato dal fumo), diresse il tiro (delle sole torri prodiere) nuovamente contro il Colleoni, distante ora non più di 17.000 metri su rilevamento 210°.
Nel frattempo, però, i quattro cacciatorpediniere della 2nd Flotilla (disposti in linea di rilevamento) avevano accostato verso ovest per riunirsi al Sydney, rispetto al quale erano più arretrati, ed alle 8.10 (7.49 per altra fonte) aprirono il fuoco a loro volta, sparando in tre riprese, ogni volta della durata di alcuni minuti; poco dopo si unì a loro anche l’Havock, che aveva lasciato il Sydney. La II Divisione, che disponeva di 16 pezzi da 152 mm, si veniva così a trovare sotto il tiro di un totale di 8 pezzi da 152 e 20 pezzi da 120: come accennato sopra, anche questi ultimi, se portati entro sufficiente distanza di tiro, erano in grado di danneggiare navi così poco corazzate come i “Da Barbiano”. Il Colleoni, la nave più vicina a quelle avversarie, era il bersaglio principale sia del Sydney che dei cacciatorpediniere, anche perché il Bande Nere era spesso oscurato da cortine fumogene. Comunque, il tiro dei cacciatorpediniere risultò ancora una volta corto.
Alle 8.15 il Sydney accostò di 35° a dritta, in modo da mettere in punteria tutte e quattro le torri; cinque minuti dopo le vedette italiane avvistarono l’isoletta di Agria Gramvousa davanti a loro: ciò significava che avevano superato Capo Spada, ma erano troppo a sud per poter doppiare Capo Busa (estremità nordoccidentale di Creta) e dovevano quindi virare un altro po’ più verso dritta per portarsi in acque aperte. La manovra, intanto, aveva fatto scendere le distanze tra gli incrociatori italiani e quello australiano a 16.000 metri.
Il mare vivo da maestrale faceva rollare tutte le navi, ostacolando la punteria da ambo le parti, ma il tiro sia italiano che britannico rimaneva intenso e serrato. Le unità della II Divisione, sparando con tutte le torri ed eseguendo ripetute accostate per disturbare il tiro avversario, giunsero quasi al traverso di Capo Kimaros, cinque miglia oltre Capo Spada. Essendo le distanze in calo, il tiro italiano divenne via via più preciso; alle 8.21 il tiro delle navi della II Divisione  ottenne l’unico centro italiano (contro cinque da parte del Sydney, due sul Bande Nere e tre sul Colleoni) di tutto lo scontro: un proiettile da 152 mm passò da parte a parte il fumaiolo prodiero del Sydney, aprendo uno squarcio quadrangolare di circa 90 cm di lato, danneggiando lievemente tre imbarcazioni ed alcune attrezzature e ferendo leggermente il marinaio D. Thompson, ma senza comunque causare danni seri.


 Il Colleoni colpito (sopra, visto dal Sydney): dalla caldaia danneggiata si leva una colonna di fumo nero (Australian War Memorial)


Il breve dramma del Colleoni ebbe inizio alle 8.23: il tiro del Sydney divenne sempre più preciso, e a quell’ora l’incrociatore del comandante Novaro venne raggiunto da un primo proiettile, che mise immediatamente fuori uso il timone. (Per altra fonte, il proiettile colpì a prua senza causare danni di rilievo, ed il timone si bloccò invece da solo, per avaria; subito dopo il Colleoni fu colpito da altri due proiettili in rapida successione). Non fu più possibile governare, nemmeno dalla camera d’ordini; ma dato che il timone si era bloccato al centro, l’incrociatore rimase sulla rotta che stava seguendo. Subito dopo, però, altri due colpi del Sydney raggiunsero l’uno il torrione (colpendo la plancia, causando parecchie vittime e feriti tra i quali, in modo grave, lo stesso comandante Novaro) e l’altro – dopo aver perforato il ponte a centro nave, presso i tubi lanciasiluri, per poi esplodere nel tunnel dell’asse dell’elica di dritta – i locali caldaie 5 e 6 (quelli più poppieri), mettendo fuori uso tali caldaie e distruggendo il collettore principale del vapore e parecchi altri tubi (che collegavano tali caldaie alla sala macchine prodiera), dai quali si sprigionarono nubi di vapore surriscaldato che uccisero tutti gli uomini presenti nei locali colpiti ed in quelli comunicanti. Anche i montacarichi che rifornivano le torri di munizioni da 152 mm dai depositi furono danneggiati; dato che tali montacarichi, ed anche quelli che rifornivano gli impianti secondari da 100 mm, erano alimentati elettricamente, la contemporanea messa fuori uso dell’impianto elettrico rese impossibile rifornire sia le torri del calibro principale che gli impianti di quello secondario. L’esplosione di questi colpi uccise o ferì anche gran parte del personale addetto alle armi contraeree ed ai tubi lanciasiluri.
La distruzione del collettore del vapore lasciò tutte le caldaie, anche quelle indenni, senz’acqua: il Colleoni iniziò a perdere improvvisamente velocità, e già alle 8.24 si ritrovò immobilizzato, a cinque miglia per 250° da Capo Spada.
Fu segnalata avaria di macchina al Bande Nere, che, essendo rimasto solo contro sei unità avversarie, accostò pressoché subito verso sud per tentare di disimpegnarsi.
Ora, oltre al Sydney, anche i cacciatorpediniere presero a sparare sul Colleoni, al quale erano finalmente riusciti ad avvicinarsi abbastanza perché il loro tiro avesse efficacia. Lo sfortunato incrociatore fu colpito dappertutto, ma soprattutto a centro nave e nel torrione, falcidiando l’equipaggio e scatenando principi d’incendio. Durante la battaglia, solo tre centri pieni sul Colleoni furono dovuti al tiro dei pezzi da 152 mm del Sydney: e tanto bastò a condannarlo, a riprova dell’insufficiente corazzatura degli “incrociatori di carta” delle prime due classi della serie Condottieri. Il resto dei danni fu fatto dai pezzi da 120 dei cacciatorpediniere.
In breve il Colleoni venne circondato dalle colonne d’acqua sollevate dalle salve che cadevano tutt’intorno, tirate da navi sempre più vicine; inizialmente il tiro delle torri principali continuò incessantemente e con regolarità, ma, dopo che tutta la nave fu rimasta senza energia elettrica, soltanto gli impianti secondari da 100 mm, che potevano essere puntati manualmente, risultarono utilizzabili.
Mentre il Sydney, insieme ad Hasty ed Hero, cessò il fuoco contro il Colleoni alle 8.38 (quando la distanza si era ridotta a 6860 metri) per continuare ad inseguire e cannoneggiare il Bande Nere (questi fu colpito di nuovo alle 8.50, mentre verso le 9.30 l’incrociatore australiano accostò e rinunciò a proseguire nell’inseguimento perché aveva pressoché esaurito le munizioni), che alla fine sarebbe riuscito a disimpegnarsi e raggiungere Bengasi, Hyperion ed Ilex accostarono per 240° e si concentrarono sul Colleoni ormai fermo ed appruato, distante 13.260 metri, avvicinandoglisi sempre più. Alle 8.30 la distanza tra l’incrociatore immobilizzato ed i cacciatorpediniere era scesa a 4570 metri, e tre minuti dopo Collins ordinò a Nicolson, con una sola parola («Torpedo»), di finire la nave italiana coi siluri.


Una sequenza di immagini, scattate dall’Hyperion, che mostrano il Colleoni immobilizzato e bersagliato dai cannoni britannici (Australian War Memorial e Imperial War Museum)






Non appena le unità britanniche giunsero a distanza di tiro, i pezzi da 100 mm del Colleoni aprirono il fuoco contro di essi, diretti manualmente – dopo che la trasmissione era stata interrotta dai danni ricevuti – dal direttore del tiro, sottotenente di vascello Massimo Adrower, coadiuvato dal sottocapo cannoniere Adelbardo Baldin (che rimase ucciso). All’interno della nave, cessata l’erogazione di energia elettrica, era rimasto in funzione l’impianto d’illuminazione d’emergenza, ma gli ulteriori danni subiti posero fuori uso anche tale impianto, lasciando l’interno dell’incrociatore completamente al buio. Per riuscire ad uscire dai compartimenti precipitati nell’oscurità, i marinai dovettero farsi luce con fiammiferi e accendini.
Ormai Hyperion ed Ilex erano vicinissimi, e crivellavano di colpi il bersaglio immobile; plancia e torrione furono devastati da un diluvio di proiettili che uccise o ferì tutti gli uomini che si trovavano in quell’area, e scatenò un incendio, alla base del torrione, che presto si estese alle munizioni delle armi contraeree e trasformò l’intero torrione in un unico rogo.
Gli impianti da 100 mm di centro nave continuarono a sparare sino all’esaurimento delle riservette; poi non fu più possibile rifornirli di munizioni dal deposito centrale, anch’esso colpito e reso inutilizzabile, così dovettero cessare il fuoco.
Ormai il Colleoni era un relitto in fiamme, in lento ed inesorabile affondamento. L’equipaggio si prodigò fino alla fine: nei locali caldaia di prua il personale di macchina, nonostante la nave venisse continuamente colpita, continuò a tentare di rimettere in pressione le caldaie, sotto la direzione del tenente del Genio Navale Fernando Voltolini (che perseverò nei suoi sforzi fin quando non ricevette l’ordine di abbandonare la nave); nel deposito munizioni di prua gli addetti rimasero ai loro posti, per rifornire le torri, finché non si trovarono con l’acqua alla cintola. Il capitano del Genio Navale Alberto Cristofanetti, capo reparto macchine, si profuse di sforzi per tentare di rimettere in funzione la parte non danneggiata dell’apparato motore.
Alle 8.30 il comandante Novaro diede l’ordine di allagare i depositi munizioni, per l’autoaffondamento, ed abbandonare la nave.
Il capo telemetrista di prima classe Giovanni Agnes, nonostante l’ordine di abbandonare la nave, rimase a bordo e soccorse tra mille difficoltà un ufficiale gravemente ferito, a costo di restare ustionato, poi raggiunse la plancia invasa dalle fiamme e ancora bersagliata dalle cannonate, insieme al tenente di vascello Francesco Lapanse, per provvedere alla distruzione dei documenti segreti, abbandonati da chi, addetto alla loro distruzione, era già stato colpito a morte.
Il tenente di vascello Eugenio Bellini, nonostante fosse ferito gravemente ad un braccio, abbandonò la nave solo dopo aver messo in salvo i suoi uomini. Rimase al suo posto fino alla fine anche il capo radiotelegrafista di prima classe Giovanni Snichelotto; sarebbe successivamente morto per le ferite riportate a bordo della nave ospedale Maine, sulla quale era stato costretto ad imbarcarsi. Il secondo capo cannoniere Pietro Zaccaria, uno degli artiglieri delle torri principali da 152, si rifiutò di abbandonare la nave e dovette essere calato dai compagni su un’imbarcazione di salvataggio; un colpo di mare, però, lo fece finire in acqua, dove scomparve trascinato a fondo dal risucchio della nave in affondamento.
Filiberto Salvi, capo meccanico di terza classe, lasciò il suo locale caldaie solo dopo che tutti i suoi fuochisti si erano già messi in salvo. Il meccanico Carmelo Pellegritto, ferito, si dedicò ad aiutare i propri commilitoni, rifiutando l’aiuto per sé.
Il tenente del Genio Navale Gino Galuppini, salito dalla sala macchine, notò in coperta che a poppavia del fumaiolo poppiero non c’erano danni visibili, ma la zona prodiera era pesantemente danneggiata, e qua e là si vedevano numerose vittime. Poco più tardi un colpo che andò a segno tra i due fumaioli scatenò un altro incendio.
Il marinaio Venirio Neri, in servizio in camera d’ordini, ricordò le urla dei compagni (uno invocò la madre) quando la nave fu colpita e immobilizzata, poi il valore surriscaldato che ustionò gli uomini più vicini alle tubature colpite, il caos. Arrivò un ufficiale del Genio Navale che tentò di mettere in funzione le valvole del timone, per governare dalla camera d’ordini (non essendo più possibile farlo dalla plancia), ma anche questo tentativo fallì; fu dato l’ordine di fare fumo per coprire la ritirata del Bande Nere. Ricevuto l’ordine di abbandonare la nave, Neri, anziché lasciare la camera d’ordini passando da dove era entrato, si recò sottocastello a prua, dove, giunto sul ponte di batteria, vide ovunque i bossoli sparati sparpagliati sul ponte. C’erano degli altri marinai, paralizzati dal panico, che si guardavano senza fare niente; fu Neri a riuscire ad aprire il boccaporto che conduceva in coperta a prua, svitandone le viti.
Alle 8.38 l’incrociatore fu scosso da una violenta esplosione a prua. La maggior parte dell’equipaggio, gettatosi in mare, galleggiava vicino alla poppa della nave; le torri da 152, intatte ma inutilizzabili per l’impossibilità di rifornirle di munizioni, erano rimaste puntate verso dritta, e attraverso i fori aperti dai proiettili nel suo scafo si vedevano i bagliori degli incendi che ardevano al suo interno. La bandiera italiana sventolava ancora sull’albero principale, ma fu a quel punto spazzata via da un’altra cannonata.
Vedendo l’incrociatore italiano in fiamme a centro nave ed agonizzante, Hyperion ed Ilex decisero ch’era giunto il momento di farla finita, e lanciarono dei siluri contro il Colleoni per dargli il colpo di grazia.


Il relitto in fiamme del Colleoni, fotografato dall’Hyperion (Australian War Memorial e Imperial War Museum)







Per primo, alle 8.35 (o 8.40), lanciò l’Hyperion: i tre (o quattro) siluri da esso lanciati, da 1280 metri di distanza, mancarono però tutti il bersaglio perché lanciati in salva troppo ampia (due passarono a prua del Colleoni e due a poppa, e tutti esplosero contro la costa di Agria Gramvousa). Subito dopo fu l’Ilex a lanciare un’altra salva, di due siluri, dalla medesima distanza: stavolta una delle armi uno andò a segno, colpendo l’incrociatore tra la prua estrema e la prima torre da 152: i primi trenta metri prodieri del Colleoni, compreso il suo idrovolante da ricognizione, esplosero ed affondarono subito (secondo una versione, in precedenza i primissimi metri della prua dell’incrociatore erano già collassati a seguito di un altro siluro a segno, ma nessun cacciatorpediniere britannico riferì di aver lanciato prima).
Un marinaio raccontò in seguito che, attraversando vari compartimenti, incontrò alcuni uomini che uscivano dalla sala macchine, terribilmente ustionati dal vapore. Proseguì, aprì un altro portello e si accorse che non portava in un altro compartimento: fuori c’era il mare. La prua non c’era più. Tra sé e sé, si disse che ormai la nave era perduta.
Anche Venirio Neri, quando uscì in coperta a prua, rimase di sasso nel vedere che la prua era scomparsa. Vicino al bordo c’erano alcuni cadaveri. Neri scese una scaletta e si diresse a poppa, dove si tolse rapidamente camicia e pantaloni e, con singolare comportamento riferito anche da altri superstiti in altre occasioni, si prese il tempo di riporre i sandali da parte con cura. Poi, mentre ancora cadevano a bordo le cannonate dei cacciatorpediniere, si gettò in mare e prese a nuotare per allontanarsi, temendo il risucchio che avrebbe generato la nave in affondamento.
L’Hyperion si avvicinò a poche centinaia di metri dal relitto del Colleoni: benché priva della prua, la nave era ancora in assetto e non sembrava in immediato pericolo di affondamento, tanto da indurre il comandante britannico a pensare brevemente all’opportunità di abbordarla per vedere se fosse possibile recuperare qualcosa; alle 8.54, però, quest’ingannevole impressione fu smentita quando il torrione venne avvolto da un vasto incendio, a seguito del quale la plancia fu distrutta da una forte esplosione, e Nicolson decise di finire la nave italiana lanciando l’ultimo siluro che gli era rimasto. L’arma colpì l’incrociatore a centro nave (alle 8.52 per una fonte, ma ciò contrasta con il precedente orario delle 8.54), sollevando una grande nube di fumo nero-biancastro, dopo di che il Colleoni, già sommerso fin quasi all’altezza della coperta, sbandò a dritta (a Casardi, sul Bande Nere, sembrò a sinistra), si capovolse ed affondò rapidamente, sollevando leggermente la poppa, a 6,4 miglia da Capo Spada e 4,6 miglia per 029° dal faro di Agria Gramvousa (una fonte australiana indica le coordinate 35°41'34" N e 23°43'14" E). Erano le 8.59.
Il comandante Novaro, mortalmente ferito ed intenzionato ad affondare con la sua nave, dovette essere trascinato in salvo a viva forza da alcuni suoi ufficiali, tra cui il capitano del Genio Navale Cristofanetti, anch’egli ferito (aveva un’ampia ferita in una gamba). Il capitano Cristofanetti, che aveva già provveduto a mettere in salvo i suoi uomini, avrebbe poi ricevuto la Medaglia d’Argento al Valor Militare.
Il Colleoni fu il primo incrociatore della Regia Marina ad andare perduto nel secondo confitto mondiale. Altri quindici ne avrebbero seguito la sorte negli anni a venire.

Il siluro (la scia appare visibile) corre verso il Colleoni immobilizzato (Australian War Memorial)




L’esplosione del siluro (Australian War Memorial)

L’esplosione vista da bordo dell’Hyperion (Australian War Memorial)
Il Colleoni sbanda fortemente.
Si abbatte sul fianco.

La fine.

La battaglia era finita; là dove era stato il Colleoni galleggiavano rottami, chiazze di nafta e centinaia di uomini con indosso giubbotti salvagente, tra cui parecchi feriti; nessuna lancia e pochissime zattere. Subito l’Hyperion e l’Ilex si avvicinarono ai naufraghi e calarono fuori bordo delle reti a maglie larghe, per agevolare il salvataggio. Più tardi si unì a loro anche l’Havock, che sarebbe dovuto proseguire nell’inseguimento insieme a Sydney, Hasty ed Hero, ma non aveva ricevuto il segnale che glielo ordinava perché troppo distante. Durante il salvataggio i cacciatorpediniere ricevettero più volte segnali da Collins che li sollecitava a riunirsi a lui prima possibile, ma proseguirono nell’opera di soccorso fino alle 9.24.
L’Ilex raccolse 230 naufraghi, in maggioranza seminudi (58 di essi erano feriti, 25 in modo grave, e tre morirono durante la notte successiva), l’Hyperion solo 35; tra gli uomini raccolti dall’Ilex era anche il comandante Novaro, che, ferito gravemente e con indosso un salvagente che gli era stato infilato addosso dai suoi ufficiali, che lo avevano costretto a mettersi in salvo, fu sostenuto da un ufficiale fin sottobordo all’Ilex.
Sulle unità soccorritrici, i medici britannici dei cacciatorpediniere e quelli italiani superstiti del Colleoni lavorarono insieme per medicare i moltissimi feriti. Il tenente medico Adolfo Piccinno, recuperato dopo parecchio tempo trascorso in mare, si rifiutò di ricevere per primo le cure, e si mise invece all’opera per medicare gli altri feriti; anche il capo cannoniere di seconda classe Michele Liuzzi ed il secondo capo cannoniere Ferdinando Natrella, sebbene feriti in più parti del corpo, pretesero che fossero prima i loro compagni ad essere curati.
Il cappellano del Colleoni, tenente cappellano don Augusto Bianco, sostenuto dal marinaio Ardito Bonanni in quanto ferito a un braccio, tenne alto il morale dei naufraghi sinché non furono salvati.
Venirio Neri, non appena riemerse dopo essersi gettato in mare, sentì centinaia di voci gridare “Alla costa, alla costa!”. Quando il Colleoni venne silurato, anche Neri fu investito dalla concussione generata dallo scoppio del siluro; si voltò a guardare e vide la sua nave capovolgersi ed affondare, e notò anche che c’erano degli uomini aggrappati alla chiglia mentre la nave si capovolgeva. Iniziò a nuotare, finché si parò davanti a lui ed ai suoi compagni un cacciatorpediniere britannico, che fermò le macchine ed iniziò a recuperare i naufraghi. Neri decise prudenzialmente di aspettare e vedere quale trattamento fosse riservato agli uomini recuperati dal mare; constatato che non c’era pericolo, si avvicinò e, dopo che un marinaio britannico gli ebbe lanciato una corda, si arrampicò a bordo su una rete. “Giommi”, un marinaio livornese già tratto in salvo prima di lui, gridò che c’era in mare un ferito, ed un marinaio del cacciatorpediniere si tolse il camisaccio, prese una corda, si gettò in mare e raggiunse il ferito per porgergliela ed aiutarlo a salire. Una sentinella armata di fucile chiese a Neri, a gesti, se fumasse; ottenuta risposta negativa, gli preparò comunque una sigaretta, l’accese e gliela diede, al che Neri si mise a fumare. Più tardi portarono anche tè e gallette, ma Neri non volle mangiare.
Tra i naufraghi salvati dall’Ilex era anche il capitano del Genio Navale Cristofanetti. Sua moglie, Maria Giuditta Cristofanetti Boldrini, avrebbe pubblicato nel 1990 un libro dal titolo "Gli eroi vinti", nel quale si affermava tra l’altro che il capitano Cristofanetti, a bordo dell’Ilex, avesse visto, «appeso a una parete e bene in vista, un foglio. Lo legge: è l'ordine di operazione della nave inglese e c'è scritto che in quel giorno 19 luglio 1940 si dovrà partire alle cinque della mattina, dalla baia di Suda, per andare contro due incrociatori italiani diretti a Lero». Questa testimonianza (che comunque risulta indiretta e postuma, dal momento che il libro non fu scritto personalmente dal capitano Cristofanetti, il quale era deceduto dodici anni prima) ha dato ad alcuni modo di ravvivare la teoria, di matrice trizziniana, che vedeva nel "tradimento" di elementi della Marina la causa di tante sconfitte. Teoria rafforzata, a detta dei suoi sostenitori, dal fatto che a comandare il Bande Nere, nello scontro di Capo Spada, fosse il capitano di vascello Francesco Maugeri, additato nel dopoguerra proprio come uno dei presunti "traditori" per via di quanto scritto nel suo libro di memorie "From the ashes of disgrace" (nel quale sosteneva, forse più che altro per opportunismo politico nel nuovo clima postbellico – il libro, peraltro, era destinato al pubblico anglosassone –, di essere giunto nel 1942-1943 a ritenere che la sconfitta militare sarebbe stata necessaria, ed anche auspicabile, per la liberazione dell’Italia) e per una decorazione conferitagli nel 1948 dagli Stati Uniti "Per la condotta eccezionalmente meritoria nell'esecuzione di altissimi servizi resi al governo degli Stati Uniti come capo dello spionaggio navale italiano" (tale motivazione si riferiva, con ogni probabilità, all’attività svolta da Maugeri dopo l’armistizio, quando aveva costituito nella Roma occupata dai tedeschi un "Servizio Informazioni Clandestino" che, operando con grande rischio, raccoglieva informazioni poi trasmesse agli Alleati con radio clandestine: ma naturalmente i sostenitori della tesi del "tradimento" colsero l’occasione per sostenere che invece i "servizi" in questione si riferissero ad una intelligenza pre-armistiziale con gli Alleati, mai dimostrata). In realtà, la presenza di Maugeri sul Bande Nere sembra piuttosto una conferma che tradimento non ci fu, per lo meno non da parte sua: difficile credere che sarebbe stato così stupido da agevolare l'intercettazione, da parte nemica, della propria nave, scatenando un combattimento nel quale era possibilissimo restare ucciso. Durante la battaglia il Bande Nere venne colpito anch'esso, con vittime tra l'equipaggio, e nulla avrebbe impedito ad uno dei colpi nemici di centrare la plancia invece di altre parti della nave (il che fu dovuto più che altro a casualità) uccidendo lo stesso Maugeri. 
Anche la possibilità di un’intercettazione di comunicazioni italiane (che di per sé sarebbe stata possibile, e persino agevolata, ad esempio, dalla dissennata condotta di De Vecchi, citata più sopra) da parte britannica risulta poco probabile, per il semplice motivo, in primo luogo, che da parte britannica non risulta che questo sia avvenuto. Di certo i britannici non avrebbero motivo di nascondere ancor oggi il fatto di aver intercettato comunicazioni italiane e di aver predisposto un'imboscata sulla base di queste – il ruolo delle intercettazioni britanniche in battaglie come quelle di Capo Matapan, Capo Bon, Banco Skerki (convoglio "H") ed altre è stato da tempo rivelato, e non vi sarebbe motivo per cui analoghe circostanze nella battaglia di Capo Spada dovessero essere coperte da maggiore segretezza. È poi opportuno rilevare alcuni particolari importanti in quanto scritto in "Gli eroi vinti" circa tale presunto ordine di operazione: e cioè che le navi britanniche sarebbero dovute partire "…alle cinque della mattina, dalla baia di Suda, per andare contro due incrociatori italiani diretti a Lero". Ciò risulta pressoché impossibile per almeno due motivi: in primo luogo, dalle fonti britanniche risulta che Sydney, Ilex e gli altri cacciatorpediniere partirono da Alessandria d'Egitto il 18 luglio, non da Suda il 19. Se poi si volesse supporre che dette fonti britanniche stessero mentendo per coprire (ma perché mai?) quella che in realtà era una trappola preparata, vi è un altro punto fondamentale: nel luglio 1940, e fino al 28 ottobre di quell'anno, la Grecia era neutrale; Suda non era e non poteva essere in alcun modo una base della Royal Navy in quel periodo (lo divenne invece dopo l’invasione della Grecia: celebre l’attacco della X Flottiglia MAS che nel marzo 1941 vi affondò l’incrociatore pesante York), e nessun soldato britannico mise piede a Creta prima dell'ottobre 1940. Dunque le navi britanniche non potevano essere partite da Suda, il che pone seriamente in dubbio la fondatezza di quanto scritto dalla vedova Cristofanetti. Si può poi aggiungere che tutto lo svolgimento dell'azione di Capo Spada è assai poco compatibile con un'intercettazione pre-organizzata dai britannici – in generale, quando la Royal Navy intercettò formazioni navali italiane perché disponeva informazioni su di esse, lo fece nottetempo e a colpo sicuro, con un'unica formazione che attaccò a sorpresa e nel luogo e momento più favorevole ai britannici. Invece i cacciatorpediniere britannici al largo di Creta furono sorpresi dall'arrivo degli incrociatori italiani, e corsero un grosso rischio: sarebbe stato tutt'altro che impossibile che qualcuno di essi venisse colpito dal tiro italiano prima dell'arrivo del Sydney. Ed a proposito di quest’ultimo, sarebbe stato sommamente imprudente, se si fossero voluti intercettare due incrociatori italiani, inviare contro di essi una forza navale che comprendeva un solo incrociatore. La dinamica della battaglia, insomma, non sembra proprio quella di un'imboscata preparata in precedenza.


I naufraghi in mare ed i soccorsi (Australian War Memorial ed Imperial War Museum)





Il ponte dell’Ilex ingombro di naufraghi, visto dall’Hyperion (Australian War Memorial)

Naufraghi del Colleoni a bordo delle unità britanniche (Australian War Memorial e Imperial War Museum). La foto sotto è però presentata altrove anche come ritraente naufraghi del cacciatorpediniere Espero, affondato dal Sydney il 28 giugno 1940.


Alle 9.24 Hyperion ed Ilex ricevettero l’ordine di riunirsi al Sydney, allontanandosi quindi a tutta forza e lasciando sul posto il solo Havock a completare il recupero degli ultimi naufraghi (questa nave trasse in salvo in tutto 260 uomini). Alle 10.38 quest’ultimo comunicò a Collins che, secondo alcuni naufraghi italiani, la II Divisione avrebbe dovuto essere raggiunta da forze navali maggiori in mattinata (non era vero).
In tutto, i tre cacciatorpediniere britannici recuperarono dal mare 525 superstiti, tra cui 93 feriti (altre fonti parlano di 545 naufraghi recuperati di cui 51 gravemente feriti, compresi quelli deceduti successivamente, ma tale dato non combacia con quelli sui numeri totali degli imbarcati e deceduti), ma durante tale opera di soccorso vennero attaccati da bombardieri italiani, solo allora giunti, tardivamente, sul posto.
I ricognitori partiti da Lero alle 6.20 ed alle 6.50 erano arrivati sulla zona dello scontro alle 8.30; il primo (quello della 147a Squadriglia) vi era anzi giunto già alle 8.20, avvistando “fuoco di battaglia navale”, ma era stato respinto per due volte dal tiro contraereo britannico, e solo più tardi poté tornare sul posto e segnalare la presenza del Colleoni in affondamento e dei tre cacciatorpediniere. I primi bombardieri (sei Savoia Marchetti SM. 79 del 34° Gruppo della Regia Aeronautica), sulla base delle informazioni ricevute dai ricognitori, erano decollati per ordine del Comando Aviazione dell’Egeo solo alle 9.40, quando il Colleoni era già affondato da più di un’ora ed anche il Sydney aveva rinunciato ad inseguire il Bande Nere. I sei “Sparviero” giunsero al largo di Capo Spada alle 11.30, sorprendendo l’Havock intento al recupero dei naufraghi, il quale aprì subito il fuoco contro i bombardieri: le bombe lo inquadrarono e caddero in mare tutt’intorno, senza danneggiarlo (le colonne d’acqua sollevate dagli scoppi ricaddero a bordo, travolgendo gli uomini in coperta) ma ottenendo l’unico effetto di indurlo ad interrompere il salvataggio degli ultimi naufraghi del Colleoni, e dirigere verso sud.
Non bastava: alle 9.50 decollarono da Rodi anche sei bombardieri Savoia Marchetti SM. 81 del 39° Stormo, che, non trovando più l’Havock nella posizione indicata, lo cercarono a sud di Creta e lo trovarono alle 13.30, mentre rientrava ad Alessandria. Durante questo secondo attacco, una bomba 110 kg, caduta in mare vicinissima alla nave, ferì due marinai britannici e perforò il locale caldaia numero 2, allagandolo e costringendo a disattivare tale caldaia, restando temporaneamente immobilizzato. Dopo 55 minuti, comunque, il cacciatorpediniere poté rimettere in moto e proseguire a 24 nodi verso Alessandria, venendo raggiunto strada facendo dal Sydney e da altri due cacciatorpediniere (Hyperion ed Ilex) per assistenza. Le quattro navi britanniche furono ancora attaccate dalle 17 alle 18.30 mentre rientravano ad Alessandria, per tre volte: dapprima da quattro SM. 79 del 12° Stormo dell’Egeo, poi da sei SM. 79 anch’essi del 12° Stormo ed infine da sei aerei dello stesso tipo ma del 15° Stormo della Libia. Nessuna nave fu colpita: una fortuna per i naufraghi italiani che erano a bordo.
Non avevano però avuto la stessa fortuna un’altra cinquantina di naufraghi del Colleoni: quelli che l’Havock, dopo l’attacco degli aerei, era stato costretto a lasciare in mare. Una parte di essi, per la verità, era intenzionata fin da principio a non cadere in prigionia, dunque ad evitare il salvataggio da parte dei cacciatorpediniere britannici e tentare invece di raggiungere la costa cretese, che appariva visibile; il cannoniere Quarto Vicari, già recuperato da un cacciatorpediniere, si gettò anzi in mare per tentare di fuggire verso la costa. Ora l’intento di alcuni era diventato una scelta obbligata per tutti. Purtroppo la distanza che superava quel pugno di uomini in balia delle onde dalla salvezza era ben maggiore di quanto poteva sembrare: dei cinquanta che erano, soltanto in sette sopravvissero (tra di essi il sottocapo radiotelegrafista Augusto Belli, il marinaio Giuseppe Da Mele, il sottocapo cannoniere Giuseppe Manni ed il nocchiere Antonio Paldulfo), venendo soccorsi il 20 luglio da un peschereccio greco (tra di essi, chi era stato in mare di meno vi era rimasto per 26 ore, e chi vi era rimasto più a lungo aveva passato 42 ore in acqua). Gli altri quaranta e più furono inghiottiti dal mare; tra di essi il cannoniere Ciro Avemaria ed i marinai Guglielmo Marek e Marcello Varan, che annegarono tutti dopo aver nuotato per ventiquattr’ore, ed il cannoniere Quarto Vicari.
Un’altra perniciosa conseguenza degli inutili attacchi aerei a combattimento finito, contro le navi impegnate nel salvataggio dei naufraghi, fu che da quel momento in poi le navi britanniche furono molto più caute nel rischiare per soccorrere dei superstiti di unità affondate, di giorno ed entro il raggio dell’aviazione nemica: il 22 luglio l’ammiraglio Andrew Browne Cunningham, comandante della Mediterranean Fleet, diffuse un memorandum per i suoi comandanti, in particolare di cacciatorpediniere, in cui spiegava che «Difficult and distasteful as it is to leave survivors to their fate, Commanding Officers must be prepared to harden their hearts, for, after all, the operations in hand and the security of their ships and ships’ compagnie must take precedence in the war». Pochi mesi dopo, proprio considerando la vicenda dell’Havock, l’incrociatore pesante York avrebbe abbandonato in mare i superstiti del cacciatorpediniere Artigliere da questi affondato (e le cui perdite superarono il 50 % dell’equipaggio, contro il 18 % del Colleoni).
I sette uomini giunti a Creta furono interrogati e poi internati sull’isola stessa dalle autorità elleniche. Nel maggio 1941, con la presa di Creta, furono catturati da militari tedeschi che li avevano scambiati per nemici; fu grazie all’intervento di un ufficiale tedesco che viveva in Istria, Karli Böhm, che aveva riconosciuto uno di essi – un lussignano – che conosceva, se l’equivoco fu chiarito e furono liberati.
A bordo di uno dei cacciatorpediniere britannici, il marinaio Salvatore Braccolino, recuperato dopo aver a sua volta tratto in salvo il marinaio triestino Bruno Cordina, fu incaricato, dato che conosceva l’inglese, di redigere la lista dei superstiti. Così fece, ma dimenticò di includervi il proprio nome: ne risultò così che venne ritenuto disperso. Si addormentò tenendo tra le mani quella di un altro marinaio napoletano, ferito gravemente, e all’alba del giorno seguente, quando si svegliò, si rese conto che il marinaio del quale ancora stringeva la mano era morto.

Le navi britanniche reduci dall’azione fecero il loro trionfale rientro ad Alessandria, dove al loro arrivo – ore 11 del 20 luglio – furono accolte da acclamazioni protrattesi per un quarto d’ora, da parte delle navi ormeggiate in porto. Analoghe celebrazioni avrebbero atteso il Sydney al suo rientro in Australia nel febbraio 1941; la nave e l’equipaggio, sceso a terra a sfilare per le vie della città, avrebbero ricevuto rispettivamente una targa commemorativa della battaglia e dei medaglioni commemorativi offerti dal sindaco di Sydney a ciascun ufficiale, sottufficiale e marinaio. La bandiera usata dalla nave durante il combattimento venne conservata come un cimelio.
L’incrociatore australiano doveva incontrare la sua tragica fine nel novembre 1941, affondato con tutto l’equipaggio dalla nave corsara tedesca Kormoran.
Così il bollettino di guerra numero 41 del Comando Supremo delle forze armate italiane, datato 20 luglio 1940, diede notizia della battaglia di Capo Spada: «Presso l'isola di Candia si è svolto ieri all'alba un combattimento di tre ore tra i nostri incrociatori leggeri Giovanni dalle Bande Nere e Bartolomeo Colleoni da 5.000 tonnellate e una forza inglese composta di due incrociatori protetti di 7000 tonnellate, del tipo Sidney, e quattro cacciatorpediniere. Nonostante la netta superiorità delle forze avversarie i nostri incrociatori hanno impegnato il combattimento infliggendo gravi danni al nemico. L'incrociatore Bartolomeo Colleoni, colpito in un organo vitale e immobilizzato, è affondato combattendo strenuamente. Una buona parte dell'equipaggio si ritiene che sia salva. Nostre formazioni da bombardamento hanno raggiunto le forze navali nemiche e le hanno ripetutamente bombardate colpendo più volte gli incrociatori. Una nave nemica in fiamme è affondata. I nostri velivoli sono rientrati tutti alle loro basi».
La II Divisione Navale, ridotta ad una sola unità, fu sciolta; il Bande Nere venne assegnato alla IV Divisione, che comprendeva le altre unità gemelle.

I cannoni del Sydney, con la vernice scrostata per il calore sviluppato a causa dell’intenso ritmo di tiro sostenuto (Australian War Memorial)




Il fumaiolo del Sydney perforato dal colpo italiano andato a segno (Australian War Memorial)

L’unico ferito del Sydney, il marinaio D. Thompson (Australian War Memorial)

Dei 643 uomini che componevano l’equipaggio del Colleoni, 109 affondarono con la nave o morirono in mare, e 525 furono recuperati dai cacciatorpediniere britannici, ma otto di questi ultimi morirono poco dopo il salvataggio, ancora a bordo delle unità soccorritrici, e furono sepolti in mare con gli onori militari; altri quattro spirarono poco dopo l’arrivo ad Alessandria. Altri sette sopravvissuti, come detto, raggiunsero la riva o furono recuperati da un peschereccio ellenico.
Morirono in tutto 4 ufficiali, 17 sottufficiali e 100 tra sottocapi e marinai. Altri ancora sarebbero deceduti durante la lunga prigionia.
Il comandante Novaro spirò a bordo della nave ospedale Maine, ormeggiata ad Alessandria, il 23 luglio, per la gravità delle ferite riportate. In riconoscimento del suo valore, i britannici lo seppellirono solennemente con gli onori militari (che furono tributati anche agli altri superstiti del Colleoni deceduti per le ferite riportate); fu sepolto ad Alessandria ed al funerale parteciparono, col lutto al braccio, ufficiali e marinai delle navi britanniche che avevano preso parte allo scontro, oltre ad una rappresentanza dell’equipaggio dello stesso Colleoni. A reggere i cordini della bara furono i comandanti delle sei navi britanniche, tra cui il comandante Collins del Sydney (che sarebbe poi stato decorato con l’Ordine del Bagno per l’azione di Capo Spada) e Nicolson della 2nd Destroyer Flotila (che avrebbe ricevuto un secondo Distinguished Service Order).
Alla memoria del comandante Novaro fu decretata la Medaglia d’Oro al Valor Militare. La sua salma è oggi tumulata nel Cimitero Militare di El Alamein.


Sopra, i funerali del comandante Novaro (USMM); sotto, il picchetto del Sydney che vi presenziò (Australian War Memorial)


I superstiti del Colleoni sbarcarono ad Alessandria il 20 luglio. Parte di essi, secondo un giornale australiano, fece il saluto romano all’atto dello sbarco; molti ringraziarono sommessamente per il soccorso, in un approssimato inglese. I 513 prigionieri che sopravvissero alle loro ferite furono inizialmente condotti in una caserma di Alessandria d’Egitto, che già “ospitava” i pochi prigionieri italiani sino ad allora catturati in Egitto: pochi fanti ed aviatori e cinque militari prelevati da una nave postale diretta in Italia. L’arrivo di oltre cinquecento uomini scombussolò la situazione, rendendo sovraffollata la caserma; pertanto le autorità britanniche allestirono, nei pressi di Geneifa (nel deserto vicino ai Laghi Amari, non lontano da Ismailia), un campo di prigionia, che fu poi denominato numero 306. Ospitava anche i pochi superstiti di un’altra nave italiana affondata dal Sydney poche settimane prima: il cacciatorpediniere Espero. Qui i prigionieri italiani, dopo le perquisizioni e gli interrogatori, dovettero indossare un’uniforme provvisoria in tela kaki con una grossa losanga blu sul fondo dei pantaloni. Il campo era poco più che un accampamento di tende in mezzo al deserto, recintato con filo spinato; lo comandavano ufficiali britannici e lo vigilavano soldati sikh, indiani.
Venirio Neri ricordò che, all’arrivo ad Alessandria, i naufraghi furono condotti in un piazzale vicino al porto e giunse una camionetta armata con una mitragliatrice; Neri pensò che stessero per essere uccisi, ma furono invece fatti salire sui camion che li portarono a Geneifa. Qui furono vestiti con camicia, pantaloni corti e scarpe di gomma, suddivisi in quattro per tenda ed impiegati per pulire i campi, togliendo sassi.
Da Geneifa tutti sarebbero stati poi trasferiti, a metà dell’agosto 1940, nel campo di Ahmednagar, in India, e da lì successivamente a Ramgarh e poi Yol (1941), situati nel medesimo Paese; alcuni sarebbero stati trasferiti in Inghilterra, altri sarebbero rimasti in India fino alla fine della guerra e oltre.
Qualcuno per sempre. Il capo telemetrista Giovanni Agnes morì soffocato il 26 ottobre 1941, nel campo di prigionia di Ramgarh (India), nel crollo di un cunicolo che aveva scavato con altri per permettere a numerosi compagni di fuggire. Fu decorato con la Medaglia d’Oro al Valor Militare, alla memoria.


I sopravvissuti del Colleoni prigionieri ad Alessandria nel luglio del 1940 (Australian War Memorial ed Imperial War Museum)





Il tenente del Genio Navale Galuppini ricordò che, durante la permanenza a Geneifa, una domenica giunse al campo a celebrare la Messa un soldato britannico che si presentò come “Roman Catholic Chaplain”, mentre la domenica successiva – nella prima decade dell’agosto 1940 – fu mandato un missionario italiano, che prese anche in consegna dal comandante in seconda del Colleoni (capitano di fregata Eugenio Martini) l’elenco dei superstiti, permettendo di informare le famiglie a neanche tre settimane dall’affondamento; ad Ahmednaghar furono distaccati per l’assistenza religiosa due missionari italiani che si trovavano internati nel campo per internati civili, adiacente a quello per prigionieri di guerra, mentre a Ramgarh furono inviati due frati cappuccini e solo a Yol (dopo il maggio 1941) giunsero dei cappellani militari. Quanto all’assistenza medica, ad Ahmednaghar c’erano con loro tutti gli infermieri superstiti del Colleoni ed un ufficiale medico dell’Espero, il capitano Lotti. Il campo di Ramgarh era invece dotato con tenda infermeria ed ospedale da campo, attrezzato anche per operazioni di chirurgia (es. appendicite); anche a Yol c’era un ospedale.
Il servizio postale con le famiglie fu allestito per la prima volta nel campo di Ramgarh, all’inizio del 1941 (cartoline bimestrali di 20 righe, cui alla metà dello stesso anno fu concesso di aggiungere anche una fotografia “formato tessera” a mezzo busto); a Yol poterono essere scattate delle foto di gruppo (dieci uomini per volta) che furono anch’esse spedite per posta alle famiglie.
La maggior parte dei marinai e sottufficiali, perdute le proprie divise, fu rivestita con indumenti militari adatti al deserto come sahariane, bustine e caschi; per gli ufficiali, invece, il capitano di corvetta Salvatore Pelosi (ex comandante del sommergibile Torricelli, affondato in Mar Rosso dopo epico combattimento) ideò nel campo di Ahmednaghar un’uniforme che fu chiamata “divisa Pelosi”, nella quale i gradi erano indicati con galloncini gialli sopra il taschino a sinistra.
Venirio Neri ricordò che a Ahmednaghar le temperature erano molto elevate; le autorità del campo fornivano pane, minestra e anche animali vivi (capre per esempio), che i prigionieri provvedevano a macellare e cucinare. A Ramgarh c’era un ospedale da campo con medici italiani, ma la dissenteria era diffusa e mieteva molte vittime. Alcuni prigionieri, malati od aventi parenti malati a casa, furono rimpatriati; all’armistizio (8 settembre 1943) i prigionieri si divisero tra coloro che rimasero fedeli al re e quanti aderirono alla RSI di Mussolini. I primi, tra cui Neri stessi, divennero cooperatori; fu loro domandato quale fosse il loro mestiere, e furono impiegati di conseguenza. Neri, che era meccanico, fu mandato a Ceylon a riparare caterpillar. Quando nell’estate 1946 gli fu finalmente detto che sarebbero rimpatriati, ormai quasi non ci credeva più; invece dopo un’ora s’imbarcò a Trincomalee su una nave che doveva rimpatriare soldati britannici, e che lungo il percorso fece scalo a Napoli, da dove gli ex prigionieri italiani poterono tornare alle loro case.

Un’altra parte dei prigionieri del Colleoni non finì a Geneifa ma nel campo di Ketziot, nel Sinai. Qui le condizioni erano assai peggiori: il campo consisteva in un insieme di tende in mezzo al deserto del Negev, circondate da filo spinato con alcune torrette di guardia; poca o nessuna protezione dalle condizioni climatiche del deserto (54° C di giorno e 0° C di notte), condizioni igienico-sanitarie men che precarie, cibo scarso. Le tende, allestite sulla nuda sabbia e sprovviste di illuminazione, erano sovraffollate; di giorno le dune che circondavano il campo riflettevano i raggi arroventati del sole contro i prigionieri, di notte scorpioni e serpenti entravano nelle tende, uccidendo qualche occupante.
La prigionia a Ketziot si protrasse fino al 2 settembre 1942, quando i prigionieri furono trasferiti dapprima a Kordofan (Sudan), poi a Bombay ed infine, nel dicembre 1942, a Calcutta. Qui sarebbero rimasti fino al maggio 1945, quando, cessate le ostilità in Europa, 76 di essi furono trasferiti in un nuovo campo di prigionieri nel Sussex (Inghilterra), dove furono impiegati come manodopera gratuita fino al 26 aprile 1946 prima di potersi finalmente imbarcare su una nave che li portò a Napoli.

Quale che fosse stato il loro percorso di prigionia, i sopravvissuti del Colleoni trascorsero quasi sei anni in prigionia: tutta la guerra e anche oltre. Furono rimpatriati solo nella seconda metà del 1946.
Tre fecero eccezione: due ufficiali medici, il capitano Romeo Di Tosto ed il sottotenente Domenico Sansaverino, ed il cappellano, don Augusto Bianco. In base alla Convenzione di Ginevra, che prevedeva il rimpatrio del personale “non combattente” ed in particolare di medici e cappellani, i tre ufficiali furono trasferiti dal campo per prigionieri di guerra di Geneifa a quello per internati civili ad esso adiacente – nonostante la richiesta di don Bianco di poter restare con i suoi marinai prigionieri – nell’agosto 1940 e ne partirono l’8 dicembre dello stesso anno, giungendo tre giorni dopo a Nakoura, sul confine tra Siria e Palestina, dove furono consegnati ad un ufficiale francese per poi tornare in Italia dopo pochi giorni, riprendendo servizio dopo una breve licenza.

Il marinaio Pietro Turi, trasferito da Geneifa ad Ahmednagar (Central Internment Camp, dove le condizioni di vita erano in generale piuttosto buone rispetto ad altrove, i prigionieri ricevevano anche delle banconote apposite per gli acquisti allo spaccio del campo) a bordo del piroscafo Rajula (durante il viaggio i prigionieri ricevettero anche una piccola somma per comprare un’aranciata), fu successivamente al campo di Ramgarh insieme ad altri 30 ufficiali e 400 sottufficiali e marinai (qui Turi colse l’occasione per farsi cresimare, avendo come padrino un altro compagno di prigionia), per poi essere mandato, dopo qualche anno, nel campo di Beela River in Scozia, dove i prigionieri erano impiegati alle ferrovie o nell’agricoltura. Qui il cibo e le condizioni generali erano sensibilmente migliori rispetto ai campi in Africa o in India. Dopo la guerra Turi, rimpatriato nel maggio 1946 e rimasto disoccupato in Italia, si sarebbe trasferito proprio in Gran Bretagna nel 1956.
E similmente avrebbe fatto anche un altro naufrago del Colleoni, che, dopo il suo salvataggio (era rimasto intrappolato in una torretta danneggiata ed aveva iniziato a recitare il Rosario e chiedere aiuto, finché era stato sentito da un ufficiale che l’aveva aiutato ad uscire) e l’iniziale prigionia in Egitto, fu trasferito nel 1941 proprio in Australia, dove fu impiegato nell’agricoltura vicino a Griffith (Nuovo Galles del Sud) in un regime di notevole libertà sulla parola. Tornato in Italia a guerra finita, sarebbe emigrato in Australia con la moglie; suo figlio, nato in Australia, avrebbe chiuso il cerchio prestando servizio proprio nella Marina australiana, la Marina del Sydney che, affondando il Colleoni, aveva innescato la serie di eventi che aveva portato il padre a stabilirsi in Australia.


I caduti del Colleoni:

Alberto Abile, marinaio fuochista, disperso
Paolo Giovanni Aceto, marinaio fuochista, disperso
Mario Acquarone, marinaio elettricista, disperso
Giovanni Agnes, capo cannoniere di prima classe, deceduto in prigionia in India il 26.10.1941
Agostino Aliboni, marinaio, disperso
Pietro Aliquò, marinaio, disperso
Ciro Avemaria, marinaio cannoniere, disperso
Alberto Baldini, sottocapo cannoniere, disperso
Amedeo Bardini, secondo capo cannoniere, disperso
Angelo Barbuto, marinaio infermiere, deceduto
Arturo Bassano, capo radiotelegrafista di terza classe, disperso
Italo Bellavista, secondo capo, disperso
Mario Benedetti, marinaio, disperso
Domenico Bilei, sergente meccanico, disperso
Carmelo Borrata, sottocapo meccanico, disperso
Giuseppe Bochis, marinaio silurista, deceduto
Giulio Bozzi, marinaio, disperso
Gaetano Brandimarte, secondo capo meccanico, disperso
Mario Brondolo, marinaio fuochista, disperso
Rinaldo Busacchi, tenente del Genio Navale, disperso
Carmelo Cambria, marinaio cannoniere, disperso
Agostino Camuffo, marinaio, disperso
Pasquale Carelli, marinaio fuochista, disperso
Giovanni Carlotto, marinaio cannoniere, disperso
Altero Cartelletti, marinaio furiere, disperso
Francesco Cerutti, secondo capo meccanico, disperso
Mario Codognini, secondo capo meccanico, disperso
Pasquale Colonna, marinaio fuochista, disperso
Antonio Corvo, marinaio, disperso
Gaetano D’Agostino, sottocapo elettricista, disperso
Giuseppe D’Esposito, marinaio, disperso
Michele Daleno, marinaio cannoniere, disperso
Gaetano De Martino, marinaio fuochista, disperso
Guerrino Di Martino, marinaio fuochista, disperso
Otello Domenichini, sottocapo cannoniere, disperso
Mario Dotti, sergente radiotelegrafista, disperso
Antonio Esposito, marinaio furiere, disperso
Renato Esposito, marinaio, deceduto in prigionia in Egitto (per le ferite riportate) il 20.7.1940
Gino Fabris, marinaio, disperso
Virgilio Favret, marinaio, disperso
Umberto Fea, sottocapo segnalatore, disperso
Gino Ferrucci, secondo capo furiere, disperso
Mario Flagiello, capo meccanico di terza classe, disperso
Cesare Fondelli, capo aiutante di terza classe, disperso
Giuseppe Francisci, marinaio cannoniere, disperso
Guido Furlan, marinaio, disperso
Domenico Gallina, marinaio cannoniere, disperso
Sauro Garabello, marinaio cannoniere, deceduto in prigionia in India il 7.1.1941
Domenico Gatti, marinaio, disperso
Osvaldo Ghizzoni, marinaio elettricista, disperso
Giovanni Maria Giagoni, marinaio fuochista, disperso
Gaetano Gilli, marinaio radiotelegrafista, disperso
Gaetano Gioli, marinaio fuochista, disperso
Giulio Enrico Giordanelli, sergente cannoniere, disperso
Silvestro Granella, radiotelegrafista, deceduto in territorio metropolitano il 4.5.1947
Vincenzo Grassi, sottocapo cannoniere, disperso
Alfredo Guarino, marinaio cannoniere, disperso
Piero La Fata, marinaio, disperso
Guglielmo La Neve, secondo capo radiotelegrafista, disperso
Angelo Lafranceschina, marinaio cannoniere, disperso
Vincenzo Lo Giovane, sottocapo radiotelegrafista, disperso
Giuseppe Longhi, marinaio, disperso
Cesare Lunardi, capo furiere di terza classe, disperso
Giovanni Maddalena, sottocapo elettricista, disperso
Silvestro Magri, marinaio elettricista, deceduto in prigionia in India l’8.9.1943
Ferdinando Maiolo, marinaio motorista, disperso
Giuseppe Manganaro, marinaio, disperso
Salvatore Manganaro, marinaio, disperso
Guglielmo Marek, marinaio, disperso
Giuseppe Marelli, marinaio fuochista, disperso
Roberto Mariuz, sottocapo elettricista, disperso
Paolo Massa, marinaio fuochista, disperso
Antonio Mastrototaro, marinaio, disperso
Biagio Maugeri, marinaio cannoniere, deceduto in territorio metropolitano il 5.1.1945
Pietro Mazzantini, sottocapo cannoniere, disperso
Giuseppe Merico, marinaio cannoniere, disperso
Pasquale Migliaccio, capo furiere di prima classe, disperso
Salvatore Minnala, secondo capo nocchiere, deceduto
Corrado Miotello, sottocapo S. D. T., disperso
Sergio Miotti, marinaio, disperso
Riccardo Molina, sottocapo S. D. T., disperso
Alessandro Montone, marinaio, disperso
Manlio Moscarda, marinaio S. D. T., disperso
Andrea Murrone, sottocapo elettricista, deceduto
Umberto Novaro, capitano di vascello (comandante), deceduto in prigionia in Egitto (per le ferite riportate) il 23.7.1940
Sauro Nuti, tenente del Genio Navale, disperso
Giuseppe Pacorig, marinaio fuochista, disperso
Amedeo Paganelli, marinaio cannoniere, disperso
Pietro Parodi, marinaio furiere, disperso
Erminio Pedroni, capo S. D. T. di seconda classe, disperso
Massimino Peirolo, marinaio cannoniere, disperso
Giuseppe Pellegri, meccanico, disperso
Carmelo Pellegrino, marinaio cannoniere, disperso
Pasquale Petroli, marinaio furiere, disperso
Dante Piacentini, sottocapo S. D. T., disperso
Carlo Piccioli, marinaio fuochista, disperso
Elso Pilati, marinaio fuochista, disperso
Baingio Piras, secondo capo elettricista, deceduto in prigionia in India il 30.5.1941
Francesco Piro, marinaio cannoniere, deceduto il 21.7.1940
Aldo Plazzi, meccanico, disperso
Urbano Polla, secondo capo meccanico, disperso
Peppino Poy, sottocapo cannoniere, disperso
Damiano Quarta, marinaio fuochista, disperso
Salvatore Quinci, marinaio, deceduto in prigionia in India il 12.8.1943
Luigi Rabaglia, marinaio cannoniere, disperso
Cosimo Rano, marinaio, disperso
Luigi Reale, marinaio, disperso
Ciro Rinaldi, marinaio, deceduto
Vincenzo Russolillo, marinaio, disperso
Antonio Scocimarro, marinaio fuochista, disperso
Salvatore Scordo, marinaio cannoniere, disperso
Marino Sereno, marinaio fuochista, disperso
Giovanni Snichelotto, capo radiotelegrafista di prima classe, deceduto in prigionia in Egitto il 28.7.1940
Luigi Sperotto, sottocapo cannoniere, disperso
Carmelo Strazzeri, marinaio, disperso
Eugenio Taboga, sottocapo radiotelegrafista, disperso
Lino Testa, marinaio fuochista, disperso
Carlo Tizzano, marinaio cannoniere, disperso
Fortunato Tonnini, sergente cannoniere, deceduto in prigionia in India il 13.2.1941
Giuseppe Travagliati, aspirante guardiamarina, disperso
Luigi Triggiano, sottocapo cannoniere, disperso
Matteo Tudisco, marinaio cannoniere, disperso
Rocco Urnera, marinaio fuochista, disperso
Antonio Valle, marinaio cannoniere, disperso
Marcello Varin, marinaio, disperso
Francesco Vazzana, marinaio fuochista, disperso
Quarto Vicari, marinaio, disperso
Giovanni Visconti, marinaio, deceduto
Francesco Vitucci, sottocapo nocchiere, disperso
Pietro Zaccaria, secondo capo cannoniere, disperso
Celestino Zacchini, marinaio cannoniere, disperso
Guido Zilio, secondo capo radiotelegrafista, disperso
Angelo Zuffo, sottocapo portuale, disperso


La motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Militare conferita alla memoria del capitano di vascello Umberto Novaro, nato a Diano Marina (Imperia) il 26 ottobre 1891:

"Comandante di incrociatore leggero, dedicava tutte le sue energie spirituali e materiali alla preparazione della nave per il supremo cimento, guidandone ogni attività verso un sacro ideale di dovere e di sacrificio.
Impegnato in lungo e strenuo combattimento contro forze superiori, portava animosamente al fuoco la sua unità, infondendo nei dipendenti, con la parola e con l'esempio le sue alte doti di coraggio e di sprezzo del pericolo e continuava con implacabile volontà l'impari lotta anche quando la sua nave, immobilizzata dalle avarie e colpita a morte, era circondata dagli avversari che concentravano su di essa l'offesa con ogni arma, a distanza ravvicinata.
Ferito gravemente durante l'azione, incurante di sé, dava disposizioni per il salvataggio della gente, mentre l'unità affondava a bandiera spiegata.
Minorato dalle ferite riportate, deciso ad inabissarsi con la nave, veniva dai suoi ufficiali munito a viva forza di un salvagente e sospinto in mare.
Raccolto da unità nemica, soccombeva alle ferite dopo due giorni di sofferenze sopportate stoicamente, chiudendo in terra straniera la sua nobile esistenza tutta dedicata alla Patria.
Acque di Candia, 19 luglio 1940."

La motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Militare conferita alla memoria del capo cannoniere telemetrista di prima classe Giovanni Agnes, nato a Rovescala il 30 novembre 1906:

"Capo telemetrista di incrociatore leggero in fase di affondamento dopo aspro, impari combattimento sostenuto contro forze navali preponderanti, mentre l'equipaggio – in obbedienza all'ordine impartito – abbandonava la nave, incurante del rischio cui si esponeva e con sereno sprezzo del pericolo, rimaneva a bordo per soccorrere un suo Ufficiale gravemente ferito.
Trattolo a salvamento superando ardue difficoltà e riportando dolorosissime ustioni, animato da altissimo senso del dovere tornava in plancia, tra le fiamme degli incendi e lo scoppio delle granate, per distruggere pubblicazioni segrete abbandonate da un morente. Travolto in mare con l'unità che, nuovamente colpita, si capovolgeva inabissandosi, veniva raccolto dall'avversario.
Costretto in campo di prigionia, nel generoso tentativo di facilitare l'evasione di un gruppo di audaci penetrava, consapevole del gravissimo rischio, in un lungo cunicolo sotterraneo per riattivarne la circolazione dell'aria, ed immolava, nel generoso tentativo, la nobile esistenza, che tante volte aveva votato al dovere oltre ogni limite.
Mirabile esempio di eroica abnegazione e di alte virtù militari.
Mare di Candia, 19 luglio 1940 – Ranghar (India), 29 ottobre 1941."

La motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita al capitano del Genio Navale Alberto Cristofanetti:

"Capo reparto macchina di incrociatore leggero, esplicava i propri compiti con perizia e serenità durante lungo ed aspro combattimento impegnato dalla Nave contro forze avversarie prevalenti.
Immobilizzata l'Unità per i numerosi colpi ricevuti, si prodigava per rimettere in azione la parte non danneggiata dell'apparato motore.
Ricevuto l'ordine di abbandonare la Nave, si assicurava che il personale da lui dipendente avesse lasciato i locali e, sebbene menomato da ferite, impediva, con generoso slancio, che il Comandante, gravemente ferito, si inabissasse con l'Unità.
Mare di Candia, 19 luglio 1940." 


La motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita alla memoria del marinaio cannoniere Quarto Vicari, nato a Cervia (Ravenna) il 3 novembre 1918:

"Destinato agli impianti da 100/47 di incrociatore leggero durante lungo ed aspro combattimento impegnato dalla nave contro forze avversarie prevalenti, si prodigava nel suo compito colmando con la sua inesauribile attività i vuoti creati dal fuoco avversario. Cessata ogni possibilità di tiro, si dedicava al soccorso dei numerosi compagni feriti ed abbandonava la nave solo dopo preciso ordine del suo superiore diretto. Salvato da cacciatorpediniere avversario, approfittando che questo passava vicino ad una isola di nazione neutrale, si gettava in mare per sottrarsi alla prigionia e sacrificava la sua giovane vita nel tentativo di raggiungere la costa. Fulgido esempio di coraggio ed alto senso del dovere.
(Mare di Candia, 19 luglio 1940)".

La motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita alla memoria del secondo capo cannoniere armaiolo Amedeo Bardini, nato a Piacenza il 5 maggio 1910:


"Sottufficiale cannoniere destinato alle mitragliere da 40/39 di incrociatore leggero durante lungo ed aspro combattimento impegnato dalla nave contro forze avversarie prevalenti, manteneva nel massimo ordine il personale dipendente costretto a rimanere inattivo perché la distanza dal nemico era superiore alla gittata delle sue armi. Quantunque ferito si prodigava nel soccorrere gli altri feriti degli armamenti e cadeva infine nuovamente colpito mentre esortava tutti a combattere fino all'estremo. Esempio di fermezza e di attaccamento al dovere.
(Mare di Candia, 19 luglio 1940)."



Il ricordo di Venirio Neri, per g.c. dell'ANMI:

"Ricordo bene quell’alba. Era la mattina presto, poco dopo le 6, del 19 luglio 1940. Non avevo ancora compiuto vent’anni e come marinaio mi trovavo a bordo del Bartolomeo Colleoni, un incrociatore leggero della classe “Alberto da Giussano” della Regia Marina. Appena imbarcato avevo ricevuto un libretto con le istruzioni, che avevo letto con attenzione. Eravamo diretti a Leros, nel Mar Egeo, e quell’alba apparentemente così uguale a tante altre sarebbe stata per molti di noi l’ultima. A circa 6 miglia da capo Spada avvistammo 4 cacciatorpediniere inglesi, sagome che parvero avvistarci e rifugiarsi poi dietro le onde alzando una cortina fumogena. Li inseguimmo, finché non si ebbe l’impressione (o la certezza) di essere finiti in un agguato. Ad attendere noi e il Giovanni delle Bande Nere c’erano infatti un altro caccia e l’incrociatore Sydney. Il comando che ci chiamava ai posti di combattimento squarciò l’aria e io mi diressi, come di dovere, in camera ordini, dove si ricevevano tutte le disposizioni, dal numero dei cannoni alla posizione. Non avevo fatto neppure in tempo a prendere il caffè. Il Sidney ci spara contro colpendo il timone e il locale macchine. Il Colleoni resta immobile in mezzo alle acque, in balia dei colpi nemici. Ricordo le urla dei compagni. Uno urlava «Mammina Mia!». Sulla nave non c’era più vapore perché colpirono il tubo principale di vapore; il vapore surriscaldato, dunque invisibile, usciva dalla fenditura e bruciò vivi i marinai vicini. Nella confusione generale venne un ufficiale del Genio Navale a mettere in funzione le valvole del timone perché voleva cambiare il comando del timone dalla plancia alla camera ordini, ma non funzionava niente. Dettero l’ordine di fare fumo per far scappare l’altro incrociatore Giovanni delle Bande Nere. In quei momenti è difficile avere l’esatta percezione del tempo che passa, ma l’ordine Abbandonare la nave mi risuonò dentro come un colpo. Allora io uscii dalla camera ordini, ma nella fretta non uscii dalla parte dalla quale ero entrato, e invece andai sotto il castello a prua, dove c’era il piano batteria e si vedevano a terra tutti i bossoli sparati. A quel punto cercai di raggiungere il reparto di sopra, dove c’erano diversi marinai che, terrorizzati, si guardavano quasi senza reagire. Io quando vidi quella scena mi diressi quanto più in fretta potevo al boccaporto e lo aprii svitando le viti. Uscii da prua. I corpi dei cadaveri erano sul bordo della nave. Ma c’era qualcosa forse di ancor più spaventoso: la prua era tagliata, squarciata. La nave era come fosse stata amputata. Mancavano al suo profilo affusolato dieci metri, forse più. A quel punto c’era una scaletta e scesi giù in coperta e da lì venni a poppa. A poppa ricordo ancora che nella confusione, mentre mi levavo più in fretta possibile i pantaloni e la camicia pronto a tuffarmi in mare, che riposi con ordine i sandali da una parte, come se potessi tornare a prenderli di lì a poco… Mi tuffai mentre arrivavano ancora i proiettili dalle navi inglesi. In quel momento pensi solo a nuotare via, lontano dalla nave, per evitare il risucchio nel momento in cui sarebbe stata inghiottita dal mare. Appena riemersi sentii mille voci gridare «Alla costa, alla costa!». La nave era immobile, sempre a galla, irrimediabilmente ferita. Un caccia inglese tirò un siluro: lo scoppio in acqua fu così forte che sentii il rombo nelle viscere. Mi girai e vidi un fumo al centro della nave. Ricordo che si girò, si inarcò forse, e poi sparì. In quel momento mi accorsi che c’erano sempre dei marinai sulla chiglia, ancora là mentre si capovolse. Morirono là. Il capitano morì ad Alessandria d’Egitto per le ferite riportate in combattimento e fu insignito della Medaglia d’oro. Continuai a nuotare, e d’un tratto mi ritrovai di fronte il caccia inglese che si fermò davanti a coloro i quali erano in acqua. Cominciò a raccogliere i marinai. Davanti a me c’era Giommi, un marinaio livornese, andò davanti a me e salì a bordo. Io non salii subito: decisi di attendere per vedere che cosa ci potesse accadere una volta sulla nave inglese. Un inglese mi tirò una corda per avvicinarmi e salii con una rete a maglie. Giommi d’un tratto gridò che in mare c’era un ferito
Ricordo ancora il gesto del marinaio inglese, che, capendo, si levò il camisaccio, prese la corda, si buttò in mare e la porse al marinaio ferito affinché salisse a bordo. C’era una sentinella col fucile davanti a me. Mi domandò, mimandomi l’atto, se fumavo. Io scossi la testa, ma nonostante il mio diniego, lui preparò una sigaretta, l’accese e me porse. Fumai. Dopo non so quanto tempo ci portarono il tè con le gallette, ma benché non avessi toccato cibo dalla sera precedente, non lo assaggiai neppure. Salpammo, verso Alessandria D’Egitto. Una volta ci portarono su un piazzale vicino al porto. Arrivò una camionetta, un soldato guidava mentre l’altro era dietro, con una mitragliatrice pronta a sparare. Ci misero in fila, davanti al muro grigio. Ricordo perfettamente la paura, pensai «Ecco, è la fine. Adesso muoio qui, ad Alessandria d’Egitto, accasciato davanti a un muro grigio, con nelle orecchie una lingua che non è la mia». E invece ci fecero salire sui camion e ci portarono in un campo di concentramento provvisorio di P. O. W. (Prisoner of War) fuori Alessandria, a Geneifa. Le giornate passavano lavorando: andavamo a pulire i campi, levando sassi. Appena arrivati al campo ci dettero una camicia, un pantalone corto e delle scarpe di gomma. Dormivamo nelle tende, 4 prigionieri per tenda. Poi ci imbarcarono sul piroscafo Rajula diretto in India, dove ci stiparono in un campo di concentramento: il Central Internment Camp di Ahmednagar. Faceva molto caldo. Quanto alle condizioni generali, cucinavamo da noi: loro ci davano viveri in natura, come le capre, e ci passavano il pane e la minestra, si riusciva a scrivere alle famiglie. Passammo là qualche anno, poi passammo al campo di Ramgarh, praticamente tutto italiano.
C’era l’ospedale da campo, con medici italiani, la dissenteria, forse aiutata dal clima caldo, era una cosa normale. Molti morivano. Altri rientravano nei cosiddetti casi pietosi: uno che si era ammalato, o c’era a casa gente che stava poco bene, e li rimpatriavano. Dopo l’8 settembre ci divisero fra fedeli al Re e fedeli a Mussolini. Passammo da prigionieri di guerra a cooperatori, e ci chiesero allora dove si voleva andare al lavoro, che mestierefacessimo. Io dissi che ero meccanico: inizialmente mi volevano mandare a Calcutta, ad occuparmi delle locomotive dei treni, poi decisero sarei stato più utile nell’isola di Ceylon, a riparare Caterpillar. A me i motori piacevano, e li riparavo con passione. lo riparavo il caterpillar e lo consegnavano, mentre io ne avevo riparati 3 o 4 loro erano sempre al primo. Ebbi un premio, un mese di riposo. Credo di essere stato l’unico, fra gli italiani, ad avere questa fortuna e questo riconoscimento. E poi il tempo passava. Passarono 6 anni. Dai giornali venimmo a conoscenza della fine della guerra. Mi scrivevo con la famiglia. Quando venne l’ordine di rimpatrio io stavo uscendo, una sera. Venne uno tutto trafelato, disse «Si rimpatria». Io lo guardai, e gli dissi «Senti a me non mi importa niente, ma non lo dire là perché prendi qualche botta». Non ci credevamo più. E invece era vero, in un’ora preparammo le nostre poche cose, e ci si imbarcò a Trincomalee nello Sri Lanka, su una nave diretta in Scozia che veniva in Italia per riportare i soldati inglesi in Inghilterra. Raggiungemmo Napoli. Da lì presi il treno per Roma. Ricordo ancora che, durante l’attesa, andai alla posta per inviare un telegramma a casa. Avevo un po’ di rupie per il lavoro svolto in tasca, scrissi soltanto: «Raggiunto Napoli». Era estate, come il giorno dell’affondamento. Avevo vestiti civili. Una strisciolina tricolore occhieggiava sulle spalline della camicia. Da Napoli arrivai a Roma, poi, con un altro treno, a Follonica dove abitavo nel quartieri Senzuno, vicino al mare. Prima di concludere, mi piace ricordare che quando andai in Marina feci la domanda a premio: erano 5000 lire di allora, una piccola fortuna. Avrei potuto acquistare una casa per la futura famiglia. Quando rimpatriai annullai tutto e mi feci dare il premio e mi diedero le AMLire, e io le diedi a mio babbo e lui ci comprò un agnello. Certo, se quel giorno del luglio 1940 non avessi schivato, per caso, tutti quei proiettili, fossi stato meno fortunato o meno pronto, e nel campo di concentramento avessi preso qualche malattia mortale, non solo non sarei qui a narrare questa storia, ma non ci sarebbe nemmeno mia nipote che ha voluto raccoglierla e farla conoscere a voi tutti."

Il Colleoni in una foto aerea (Coll. Guido Alfano via Giorgio Parodi e www.naviearmatori.net


19 commenti:

  1. Mio nonno è stato uno dei sopravvissuti

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  2. mio padre Paparo Pasquale classe 1912 - capo cannoniere - è sopravvissuto al naufragio, è stato deportato nei campi di concentramento in Egitto,India e Inghilterra.E' morto in Italia - Massa Carrara il 20/06/1971.

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  3. "Alle 20 dello stesso 10 giugno Colleoni e Bande Nere lasciano Palermo per coprire le operazioni di posa, da parte del posamine Buccari e del posamine ausiliario (ex traghetto ferroviario) Scilla, dello sbarramento di mine «L K» (Lampedusa-Kerkennah) nel Canale di Sicilia."

    I believe this is not the «L K» (Lampedusa-Kerkennah) for start it is not in Sicilian channel. LK mine field it was made i believe by Da Barbiano , Cadorna, Lanciere, Corazziere , Polluce und Calipso.

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    Best regards.

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    1. I do not have the books at hand now, I will check them this evening and see...

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    2. I have checked "La guerra di mine", you are right: the mentioned minefield was the "G.P." (Capo Granitola-Pantelleria). I will correct immediately.

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  4. Relativamente ai problemi strutturali dell'incrociatore leggero "Bartolomeo Colleoni" (se così si può dire viste che sappiamo che la classe "Da Giussano" era stata impostata con finalità precise), segnalo che già ai tempi della nota missione in Cina si erano manifestati (vedasi in proposito il libro "Il Commodoro" di Arturo Catalano Gonzaga di Cirella, ed. Mursia, 1995, pag. 82).

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  5. Mio padre era uno dei sopravvissuti classe 1917 stagi claudio fochista di caldaia deceduto il 22/07/1986 Firenze

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  6. Mio nonno Alvaro Orlandini era uno dei sopravvissuti, era fuochista sul Colleoni, fu poi portato in Inghilterra.E' deceduto nel 2001.

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  7. Mio papà fu uno dei sopravvisiti
    GHIDONI MARIO classe 1918.prigioniero in India e Inghilterra.Rientrato nel 1948 si è spento il 17 Agosto 1982 a Brescia

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  8. Camillo Rossetti Cugurullo. Sardo di nascita, trasferitosi da piccolo a Firenze, impiegato come marconista e sopravvissuto. Prigioniero in India e poi in Inghilterra dove venne impiegato nell'ufficio per il rimpatrio dei prigionieri di guerra. Rientrato a Firenze, ha lavorato come impiegato comunale e giornalista freelance. Fino alla morte, avvenuta nel 2000, ha sempre ricordato con nostalgia il periodo trascorso in Cina (posseggoancoramoltefoto), nonché il profondo rispetto ricevuto dai carcerieri inglesi.

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  9. Mio padre, Costagliola Vincenzo, classe 1914, fu tra i sopravvissuti. Prigioniero in India, rientrato nel 1948 si è spento il 1 marzo 2005 a Baia, Bacoli (NA).

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  10. Ho navigato in navi mercantili anni 70, con Filiberto Salvi, che fu superstite e portato prigioniero in India, diventammo grandi amici, anche se c era grande differenza di eta'. Mi racconto' della battaglia tremenda. avete altre notizie di lui???

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  11. Mio padre D'Aniello Giuseppe era marinaio fuochista della colleoni classe1918 tornò a napoli il 15 agosto 1946 è deceduto a giugno 2006.C'è ancora qualche superstite?
    .

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  12. mio nonno MICIONI DI BUONAVENTURA ARNALDO fu uno dei superstiti! ma raccontava di una prigionia in Russia!
    forse ero troppo piccolo e ricordo male??

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    1. Direi di sì... a meno che non sia stato recuperato dagli italiani e poi finito prigioniero in Russia in altra circostanza. Ma non credo che personale di Marina sia finito prigioniero in Russia...

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  13. Bardini Amedeo 2° Capo Cannoniere Armarolo è stto insignito della medaglia d'argento alla memoria"20 dicembre 2023 alle ore 17:32

    Amedeo Bardini 2° Capo Cannoniere medaglia d'argento "alla memoria". Motivazione: "Sottoufficiale cannoniere destinato alle mitragliere da 40/39 di incrociatore leggero durante lungo ed aspro combattimento impegnato dalla nave contro forze avversarie prevalenti, manteneva nel massimo ordine il personale dipendente costretto a rimanere inattivo perchè la distanza dal nemico era superiore alla gittata delle sue armi.
    Quantunque ferito si prodigava nel soccorrere gli altri feriti degli armamenti e cadeva infine nuovamente colpito mentre esortava tutti a combattere fino all'estremo.
    Esempio di fermezza e di attacamento al dovere".
    Mare di Candia, 19 luglio 1940. (Capo Spada - Creta).
    La figlia Rossana Bardini oggi 20 dicembre 2023

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    1. La ringrazio, aggiungo la motivazione della medaglia alla pagina.

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