sabato 4 luglio 2015

Tifone

La Tifone nel 1942 (g.c. Giorgio Parodi, via www.naviearmatori.net)

Torpediniera di scorta della classe Ciclone (1160 tonnellate di dislocamento standard, 1652 in carico normale, 1800 a pieno carico). Ebbe breve, ma intensa esistenza sulle rotte dei convogli tra l’Italia e l’Africa settentrionale.

Breve e parziale cronologia.

17 giugno 1941
Impostazione nei Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Trieste.
31 marzo 1942
Varo nei Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Trieste.

31 marzo 1942: il varo della Tifone (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)

11 luglio 1942
Entrata in servizio, al comando del tenente di vascello Luigi Bortone (il quale è al suo primo comando).
La Tifone andrà a formare la II Squadriglia Torpediniere, detta anche delle “tempeste”, insieme alle gemelle Uragano, Groppo (o Monsone), Ciclone e Fortunale. Solo quest’ultima sopravvivrà alla battaglia dei convogli.
Luglio 1942
Prove in mare e dell’armamento nel Golfo di Trieste, al comando del tenente di vascello Luigi Bortone.
Vengono dapprima effettuate le prove in mare, di velocità e di manovrabilità (che la porteranno per la prima volta nel golfo di Trieste), che mostrano una velocità superiore a quella di contratto ed un’eccellente manovrabilità anche a tutta forza; il giorno seguente vengono effettuate le prove di tiro, diurno e notturno, sia con i cannoni contro bersaglio (provocano la rottura di tutti i vetri degli strumenti di bordo, che richiederanno due giorni in cantiere per le riparazioni) che con le mitragliere. Vengono poi eseguite le prove di tiro contraereo contro un bersaglio rimorchiato da un velivolo, di nuovo con cannoni e mitragliere, ed infine, di notte (dopo una momentanea sosta nel porto di Trieste durante il pomeriggio), le esercitazioni antisommergibile con l’ecogoniometro, usando come “bersaglio” un vecchio relitto (in mancanza di un vero sommergibile, non inviato da Pola); tutte hanno esito soddisfacente.
28 luglio 1942
Alle 21.55, mentre rientra dall’esercitazione antisommergibile, la Tifone rileva con l’ecogoniometro – 2,7 miglia a nordovest di Punta Salvore, tra Grignano e Monfalcone – un contatto subacqueo che, ritenuto inizialmente un relitto della Grande Guerra non segnato sulle carte, si rivela poi essere (o almeno così si ritiene) un oggetto in movimento: un autentico sommergibile, nemico. Ha inizio la caccia, che si protrarrà per quasi tutta la notte: il sommergibile manovra per sottrarsi alla caccia, si avvicina ai relitti presenti sul fondale così che la sua eco si confonda con la loro, tenta di raggiungere il mare aperto; la Tifone compie continue accostate per seguirlo e non perdere il contatto, ed esegue ripetuti lanci di bombe di profondità, sin quasi ad esaurirne la dotazione. La scia prodotta dalla torpediniera con le sue continue manovre, tuttavia, disturba l’ascolto ecogoniometrico: alla fine l’eco del sommergibile viene persa e non più ritrovata. La Tifone incrocia vanamente sino all’alba nel tentativo di riprendere il contatto, poi rientra a Trieste, dove trova ad attenderla una folla di curiosi – marittimi, vecchi pescatori, anche donne con la borsa della spesa e pensionati – che domanda ai marinai cosa abbia fatto la nave durante la notte, visto che la sua azione antisommergibile ha svegliato tutta la città.
Dopo che il comandante Bortone ed il comandante in seconda Filiberto Sturlese hanno fatto rapporto sull’accaduto – sulla Tifone si pensa che il sommergibile fosse stato inviato nel Golfo a “controllare” l’allestimento della corazzata Roma, nei cantieri della città dove la Tifone stessa è appena stata completata – la torpediniera si rifornisce di bombe di profondità per riformare la propria dotazione, poi per due settimane effettuerà addestramento e rastrello antisom nel golfo di Trieste.
Dopo aver battuto ininterrottamente in lungo e in largo tutto il golfo, accertando la totale assenza di unità subacquee, viene rilevata dall’Uragano frattanto ultimata, e torna in cantiere, dove passerà altri tre giorni per le ultime messe a punto e per rassettare le attrezzature lesionate dall’impiego delle cariche di profondità.
Nonostante tutto, non vi era alcun sommergibile nemico nel golfo di Trieste al tempo degli eventi descritti. L’attacco della Tifone fu con ogni probabilità rivolto davvero, come sospettato all’inizio, contro il relitto di un piroscafo affondato nella prima guerra mondiale, il Gilla.
31 luglio 1942
Viene inviata a dare la caccia al sommergibile britannico Traveller (tenente di vascello Michael Beauchamp St. John), che alle 9.42 ha infruttuosamente lanciato sei siluri contro la vecchia cannoniera (ex incrociatore protetto) Cattaro nel punto 44°36' N e 13°54' E, nell’Adriatico.
Agosto 1942
Tornata a Trieste, la Tifone ne riparte diretta a Pola, dove dovrà ultimare l’addestramento: nel tragitto è di scorta ad una petroliera. Sarà la sua prima missione di scorta e la sua prima navigazione in mare aperto.
Salpata in mattinata, la torpediniera effettua per fino al tramonto rastrello antisommergibile, essendo la cisterna da scortare in ritardo con il caricamento. Alle 20, sopraggiunta la petroliera a pieno carico, le due navi (Tifone in testa seguita dalla cisterna) si mettono in navigazione verso Pola, superando Muggia e Capodistria per poi addentrarsi in alto mare. Sulla Tifone il mare lungo, che causa fortissimo beccheggio, “stende” quasi tutto l’equipaggio, che è preda di violento mal di mare (tanto che il comandante in seconda Sturlese, uno dei pochi a non soffrirne, la definisce ironicamente “la nave dei morti” dato lo stato cadaverico del suo equipaggio). Giunta nel canale di Fasana, la Tifone smette di oscillare, essendo tali acque, riparate, più calme; viene rilevata da una vecchia “tre pipe”, forse l’Antonio Mosto, nella scorta alla petroliera, che prosegue verso Taranto, poi raggiunge Pola.
Qui la Tifone rimane per una settimana, uscendo ogni giorno per intenso addestramento; poi viene inviata a Fiume e scorta da lì a Pola una nave carica di siluri.
A Pola la torpediniera si rifornisce di acqua, provviste, carburante e munizioni, poi riprende il mare per scortare una petroliera carica di carburante, proveniente da Trieste e diretta a Brindisi. Incontrata la cisterna al largo, la Tifone la scorta fin oltre Brindisi, completando lungo il percorso l’addestramento (specie antisommergibile); poi viene rilevata nella scorta da altre due torpediniere provenienti da Taranto, e raggiunge Brindisi, dove si ormeggia. Durante la brevissima sosta a Brindisi vengono scoperti dei problemi alle macchine, per cui, anziché proseguire verso sud per iniziare le scorte sulle rotte per la Libia, la Tifone dev’essere rimandata in cantiere a Trieste. Lungo il tragitto scorta un vecchio piroscafo che procede a 4-5 nodi, continuamente afflitto dalle avarie; la Tifone ne approfitta per eseguire altre esercitazioni, usando il piroscafo come “bersaglio”, mentre siluristi e cannonieri discutono scherzosamente se sia il caso di liberarsene davvero silurandolo o cannoneggiandolo, vista la sua esasperante lentezza e le avarie. Durante la navigazione una vedetta “aggiuntiva” (per esercizio, il comandante in seconda Sturlese ha disposto turni di vedetta aggiuntivi per il personale di sottocoperta libero dal servizio) avvista una mina vagante a prora dritta, e un aereo che la mitraglia per cercare di affondarla (prorompendo, nell’annunciare il duplice contemporaneo avvistamento, in un confuso “Ore due, mina a bassa quota!”).
La Tifone giunge infine a Trieste, dove si ormeggia in cantiere e subisce dei primi lavori nel corso della notte stessa; mancando le parti necessarie a completarli, l’indomani la torpediniera viene fatta proseguire per Venezia, dove tali parti sono disponibili. Giunta in Arsenale dopo aver mancato di poco la collisione con un rimorchiatore (con conseguente colorito scambio di battute tra il comandante del piccolo mezzo e Sturlese della Tifone), la Tifone vi sosta 36 ore per terminare le riparazioni.
Lasciata Venezia, la torpediniera scorta a Taranto una nave tedesca, poi torna a Trieste scortando una petroliera scarica e ne riparte di scorta ad una carica diretta a Messina. Durante la navigazione viene rilevata un’eco incerta, forse di un sommergibile, ma la nave prosegue come da ordini, che, stante l’urgenza della consegna del carico di carburante (circa 10.000 tonnellate) poi destinato in Africa, impongono di non perdere tempo tranne che in caso di pericolo certo ed immediato.
La Tifone fa poi ritorno a Trieste.

La Tifone a Brindisi nel 1942; dietro di essa si scorgono i fumaioli della torpediniera Antonio Mosto e del cacciatorpediniere Augusto Riboty, e più a destra una torpediniera classe Spica (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)

3 settembre 1942
Riparte da Trieste scortando un’altra nave cisterna diretta in Africa. Nel pomeriggio viene avvistata una mina vagante (una recente mareggiata ne ha, infatti, strappate molte dai loro ormeggi); la Tifone accosta e la bersaglia con una raffica di mitragliera, facendola esplodere. La notte passa tranquilla.
4 settembre 1942
Di prima mattina, al traverso di Bari (a circa cinque miglia dalla costa), l’ecogoniometrista in servizio, il sottocapo Benito Muscariello, rileva una mina vagante con l’ecogoniometro, e comunica immediatamente alla plancia di accostare, ma l’individuazione è stata troppo tardiva: la Tifone vi è già “sopra”, e, accostando per evitarla, la risucchia nelle eliche, facendola scoppiare. L’esplosione investe violentemente la torpediniera a poppa sinistra: la nave viene scossa violentemente, e molti uomini vengono gettati contro le paratie o gli oggetti che si trovano a bordo, restando feriti o contusi; alcuni subiscono anche delle ustioni, ma nessuno è ferito in modo grave.
I due torpedinieri in servizio ai paramine, a poppa estrema, vengono gettati fuori bordo dall’esplosione: non saranno mai trovati, dispersi in mare.
I danni non sono letali, ma il timone è incatastato, l’opera viva a poppa sinistra è gravemente danneggiata e vi sono falle da scardinamento che causano infiltrazioni d’acqua, provocando un progressivo appoppamento; vi sono perdite di nafta e vapore dai nebbiogeni ed altre perdite dal deposito di nafta adiacente al locale specialisti, che ne viene allagato, con pericolo d’incendio. Il paramine di sinistra è scomparso, strappato dal suo alloggiamento, mentre le bombe di profondità sono pericolosamente in bilico sulle loro tramogge; tutte le attrezzature a poppa sono state divelte, tranne i verricelli di manovra, e tutta la zona è ricoperta di melma nerastra.
Subito intervengono le squadre antincendio; la situazione rimane sotto controllo (l’elica di dritta funziona ancora), ma la Tifone, che per via dell’incatastamento del timone sta compiendo un giro in tondo per abbrivio, si sta appoppando pericolosamente, quindi viene eseguito il segnale di avaria, alzato un pallone nero per segnalare che la nave è ingovernabile, e chiesto aiuto per radio a Bari, richiedendo l’invio di soccorsi.
Lasciano Bari, a tutta forza, la vecchia torpediniera Antonio Mosto ed un rimorchiatore dei pompieri, che rimorchia una bettolina sulla quale trasbordare la nafta e le bombe di profondità, ancora pericolosamente instabili. La Mosto prende a rimorchio la Tifone e la porta a Brindisi, dove la torpediniera viene subito fatta entrare in bacino. MAS e motovedette uscite da Bari setacciano il mare dov’è avvenuto il sinistro fino a notte, in cerca dei due marinai dispersi, ma non trovano nulla. Saranno i primi due caduti della Tifone.
Dopo il prosciugamento del bacino di carenaggio, lo spettacolo che si presenta è desolante: sul lato sinistro, da centro nave (in corrispondenza del quadrato) fino all’estrema poppa, le lamiere sono schiodate ed il fasciame presenta grosse fessure; lo scafo appare devastato, il timone è accartocciato, l’asse portaelica ingobbito e l’elica sinistra priva di una pala. La ruota di poppa è schiacciata e rientrata fino ad assumere “la forma dell’interno di una cupola” come colpita “da un pugno formidabile”.
Tutto l’equipaggio cerca di rendersi utile, molti si offrono per ogni lavoro che possa servire a rimettere in sesto la nave. Viene stimato che le riparazioni richiederanno tre mesi. Alla sera, durante l’assemblea dell’equipaggio, il comandante Bortone fa recitare una preghiera in memoria dei caduti.
Settembre 1942
I primi lavori di carenaggio vengono eseguiti in bacino a Brindisi; si protraggono per 15 giorni, dopo di che la Tifone è in grado di riprendere il mare governando con la stazione di poppa. Per lavori più approfonditi occorre un Arsenale più equipaggiato: Taranto è il più vicino, ma non può riparare la Tifone in quanto già oberato di lavori. La torpediniera tornerà ancora una volta a Trieste: nel cantiere San Rocco di Muggia.
Ottobre-dicembre 1942
Lasciata Brindisi procedendo avanti mezza con una sola elica, la Tifone raggiunge Trieste dove viene alleggerita di tutti i pesi, poi, trainata da un rimorchiatore, viene condotta a Muggia, dov’è immessa in bacino di carenaggio e circondata da ponteggi: sarà necessario ricostruire la poppa.
L’equipaggio, non necessario, viene mandato in due turni in licenza ed in soggiorno a Merano.
Le riparazioni vengono ultimate a fine dicembre; durante questo periodo il comandante Bortone viene sostituito dal capitano di corvetta Stefano Baccarini, secondo e ultimo comandante della Tifone. Avvengono anche alcuni altri avvicendamenti, ma l’equipaggio rimane in massima parte lo stesso.
6 gennaio 1943
Terminati i lavori e rifornitasi di tutto, la Tifone lascia il cantiere e si ormeggia nel porto di Trieste, dove l’equipaggio viene visitato da alcuni gerarchi e riceve “pacchi di conforto per i combattenti” (guanti, sciarpe, calze e panettone).
7 gennaio 1943
Prima dell’alba la Tifone molla gli ormeggi da Riva IV Novembre e lascia per l’ultima volta Trieste, diretta a Taranto. Passeranno esattamente quattro mesi prima della sua fine.

La Tifone il 14 gennaio 1943 (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)

Gennaio-febbraio 1943
Dopo il viaggio di trasferimento lungo l’Adriatico e lo Ionio, senza alcun evento di rilievo, la Tifone giunge a Taranto e si ormeggia in banchina torpediniere, in Mar Piccolo.
Per tutto il mese di gennaio e parte di febbraio, la torpediniera viene assegnata alla vigilanza antisommergibile sulle rotte che da Taranto portano in Grecia e verso lo stretto di Messina: il suo incarico è tenere i sommergibili nemici lontani dalle rotte percorse dai convogli. È un compito “oscuro, arduo, sfibrante”, insieme monotono e pericoloso: la nave gira in lungo e in largo il Mar Ionio, specie tra il Canale d’Otranto e lo Stretto di Messina, completamente sola nel mare spesso agitato, in interminabili rastrelli antisommergibili; individua alcuni contatti subacquei, dei quali ritiene di averne danneggiati un paio, mentre gli altri si sono defilati. La snervante routine rende gialli e macilenti i marinai, che si alternano di continuo ai turni di guardia, dormendo dove capita, “possibilmente vicini a qualche boccaporto”. La Tifone subisce anche ripetuti attacchi di aerosiluranti, che appaiono all’improvviso volando a bassissima quota, sganciano i siluri e si dileguano per evitare il furioso tiro contraereo, e di bombardieri, che, sganciando da alta quota, non colpiscono mai il bersaglio. Gli attacchi di aerosiluranti, più pericolosi, diventeranno infine tanto frequenti che membri dell’equipaggio inizieranno ad osservarne i lanci “con occhio critico”, commentando sulla loro accuratezza.
9 febbraio 1943
Dopo aver sostato a Brindisi per poche ore, appena il tempo necessario a far riposare un poco l’equipaggio stremato da una violenta burrasca (forza 8-9) affrontata in Mar Ionio, che ha pure danneggiato coperta e sovrastrutture, la Tifone viene fatta uscire in mare alle 16.05 per dare la caccia ad un sommergibile britannico (l’Unbending) che ha affondato il dragamine ausiliario Eritrea al largo di Monopoli e si pensa trovarsi ora tra Bari e Brindisi.
La ricerca avviene in condizioni difficili: il mare non si è placato, e la nave rolla e beccheggia fortemente, causando di nuovo forte mal di mare tra l’equipaggio. Alle 16.55, nel punto 40°44' N e 17°55' E, il sottocapo ecogoniometri sta Alberto Ferrari localizza un’eco subacquea: il sommergibile. Subito viene dato l’allarme, e l’equipaggio mandato ai posti di combattimento. La Tifone, le cui manovre sono disturbate dal vento, si porta sopra il sommergibile, poi, alle 17.55, lancia una serie di bombe di profondità (tre salve di tre bombe ciascuna), e subito dopo si vede spandersi sulla superficie una chiazza di nafta nera e iridescente; emergono anche dei rottami, che vengono ricoperti dalla nafta. L’equipaggio accoglie tale visione con grida di “Urrà” e “Viva il re”, poi, mentre cala il buio, ripassa altre tre volte sulla posizione, ogni volta lanciando altre bombe di profondità: dapprima alle 17.58 (altre tre salve di tre bombe di profondità ciascuna), poi alle 18.17 (due salve di tre cariche ciascuna) ed infine alle 18.23 (una salva di tre cariche di profondità).
A bordo si ritiene di aver affondato il sommergibile, il che viene comunicato alla base (che ordina di proseguire nelle ricerche e nel rastrello antisom, dato che potrebbe esserci un secondo battello che operava in coppia col primo, ed è necessario liberare la zona con certezza in vista del passaggio, il giorno seguente, di una petroliera proveniente da Trieste e diretta in Africa), ma le ricerche protratte per tutta la notte nel mare in tempesta non permettono di localizzare alcun rottame o prova del presunto successo. All’alba, dato che la mareggiata ha strappato gli ormeggi di molte mine che si trovano ora alla deriva, rendendo pericoloso proseguire nel rastrello antisom, la situazione viene comunicata alla base, che concede alla Tifone di rientrare.
Al rientro in porto, il comandante Baccarini ed il comandante in seconda Sturlese si recano al Comando a presentare la relazione sull’azione antisommergibile, ma questa non viene ritenuta probante per poter comunicare a Supermarina l’avvenuto affondamento. In effetti, nonostante le impressioni, la Tifone non ha né affondato, né neanche localizzato l’Unbending: il bersaglio dei suoi attacchi, come si scoprirà in seguito, è stato il relitto della torpediniera Confienza, affondata in quelle acque quasi tre anni prima.
15 febbraio 1943
Missione di scorta alla posacavi Giasone.
17 febbraio 1943
Esce nuovamente in mare per rafforzare la scorta della petroliera durante l’attraversamento della zona pericolosa. Se ne approfitta, essendosi calmato il mare, per cercare rottami del sommergibile, ma non si trova nulla.
Febbraio 1943
Torna ad effettuare rastrelli antisommergibile facendo base a Taranto (dove, durante le soste in porto, la nave è presa d’assalto dai topi) con scali anche a Messina. Fino alla fine del mese prosegue in tale servizio nelle acque dello stretto di Messina, individuando ed attaccando alcuni contatti all’imboccatura dello stretto, ma con esito incerto. Viene ancora attaccata da aerosiluranti (una volta, per sbaglio, anche da aerei italiani, che vengono bersagliati con le mitragliere finché non segnalano la loro nazionalità con dei razzi); i mitraglieri ritengono di aver abbattuto due aerei. In un’occasione rimorchia in salvo un grosso piroscafo danneggiato e immobilizzato, operazione complicata per le continue interruzioni imposte dagli allarmi, che costringono a mollare i cavi per poter manovrare e difendersi.
21 febbraio 1943
La Tifone ed il cacciatorpediniere Lubiana (caposcorta) salpano da Taranto alle 00.30 scortando la motonave Ombrina, diretta a Biserta. Il convoglio giunge a Messina alle 18.
22 febbraio 1943
Le navi ripartono da Messina alle 3.30, raggiungendo Palermo alle 13.30; qui la Tifone lascia il convoglio.
17 marzo 1943
La Tifone (capitano di corvetta Stefano Baccarini) salpa da Taranto per Biserta alle 2.30, insieme al cacciatorpediniere Lubiana (capitano di fregata Luigi Caneschi, caposcorta), alla torpediniera Antares (capitano di corvetta Maurizio Ciccone) ed al cacciasommergibili VAS 221, scortando le moderne motonavi Marco Foscarini e Nicolò Tommaseo. La navigazione durante la notte si svolge tranquilla sino alla prima mattina.
Verso le 10, nel Golfo di Squillace, si verifica un primo allarme, poi viene avvistato un ricognitore, che pedina il convoglio tenendosi fuori tiro. Poco dopo mezzogiorno (oppure tra le 13.30 e le 14.30), al largo di Punta Stilo, il convoglio viene attaccato da una dozzina di aerosiluranti, che si avvicinano volando a pelo d’acqua: Lubiana e Antares, che si trovano tra gli aerei e le motonavi, aprono il fuoco per primi con tiro di sbarramento; la Tifone accelera per difendere la Foscarini, quindi apre il fuoco con i cannoni da 100/47 mm e le mitragliere da 20 mm, scompaginando la formazione attaccante. Da bordo si ritiene di aver abbattuto tre aerei (mentre i caccia tedeschi della scorta li rivendicano per sé); in ogni caso, nessun siluro va a segno. Gli aerei rimasti tornano all’attacco da un’altra direzione e lanciano siluri rimanenti, che vengono evitati con la manovra dall’Antares e dalle motonavi – uno passa anche a poppavia della Tifone –, poi si allontanano inseguiti dai caccia della Luftwaffe.
Al tramonto il convoglio raggiunge Messina, dove sosta dalle 19 alle 22, poi prosegue per Biserta senza più la VAS 221 ma con il rinforzo del cacciatorpediniere Lampo (capitano di corvetta Loris Albanese) e delle torpediniere Perseo (capitano di corvetta Saverio Marotta) e Cassiopea (capitano di corvetta Virginio Nasta).
18 marzo 1943
Alle 14 la Tifone riceve ordine di lasciarne la scorta e raggiungere subito Napoli, per rimpiazzare un’altra torpediniera in avaria nella scorta ad un altro convoglio, che si accinge a partire e sarebbe altrimenti privo di navi scorta munite di ecogoniometro.
La nave riparte ad alta velocità, supera lo stretto, decelera per risparmiare carburante nel Basso Tirreno, andando incontro al convoglio che è già partito.
Ad un certo punto, durate la notte, la turbodinamo va in avaria, lasciando la nave paralizzata e senza corrente per una decina di minuti, prima che il personale di macchina riesca a mettere in funzione l’altra turbodinamo.
21 marzo 1943
La Tifone incontra il convoglio proveniente da Napoli (da dov’è partito alle 5.30): lo compongono altre due moderne e veloci motonavi, la Monti e l’Ombrina, cariche di munizioni e carburante, e le torpediniere Libra (caposcorta) e Perseo; vi sono inoltre due squadriglie di MAS italiani ed una di motosiluranti tedesche per fornire protezione antisommergibile a distanza. I due mercantili procedono in linea di fila, con Libra e Perseo a sinistra e dritta; arrivata la Tifone, la Perseo le cede il proprio posto in formazione per portarsi in testa al convoglio. Poco dopo appare un ricognitore nemico, che si tiene fuori portata del tiro delle navi ma viene messo in fuga dall’intervento dei caccia tedeschi di scorta; si verificano anche alcuni allarmi per sommergibili, ma la Tifone riceve ordine dalla Perseo di proseguire, delle corvette saranno inviate a dar loro la caccia.
22 marzo 1943
Poco dopo mezzogiorno viene avvistata a prora dritta una formazione di bombardieri Consolidated B-24 “Liberator” che volano ad alta quota, ma gli aerei, avendo evidentemente un altro obiettivo, passano lontani dal convoglio senza attaccare. Alle 13.45, già vicini a Biserta (vicino all’isola Plane), l’Ombrina urta una mina, riportando gravi danni a poppa; l’equipaggio civile, da poco imbarcato e ancora non affiatato, abbandona la nave, mentre quello militare, al comando del tenente di vascello Enrico Rossinelli, rimane a bordo.
La Perseo dà assistenza alla nave danneggiata, mentre la Monti viene fatta proseguire con la scorta di Libra e Tifone, sorvolate dai dodici caccia tedeschi Messerschmitt Bf 109 della scorta aerea, che incrociano nel cielo sopra al convoglio da un orizzonte all’altro, allontanandosi anche parecchio dalle navi prima di tornare indietro. Intorno alle 14, mentre la parte più avanzata del convoglio si trova al largo dell’isola di Plane ed i caccia tedeschi si trovano lontani, dalla parte opposta delle navi, sopraggiungono due formazioni di bombardieri “Liberator” (in tutto una decina di aerei) scortati da caccia Lockheed P-38 “Lightning”.
Mentre questi ultimi, dopo aver mitragliato le navi, vanno incontro ai Messerschmitt per impegnarli, i bombardieri si dividono per attaccare entrambi i gruppi di navi: Monti, Libra e Tifone da una parte; Ombrina (che ha da poco rimesso in moto) e Perseo dall’altra. Quasi subito la Monti viene colpita da un grappolo di bombe: a bordo scoppia un incendio che si estende rapidamente, poi – alle 15.15, a 18 miglia da Biserta – la nave esplode investendo le torpediniere con una folata di aria arroventata e lanciando rottami nel cielo per un centinaio di metri in altezza. Un altro grappolo di bombe di grosso calibro cade in mare circa 25-30 metri a poppavia della Tifone, che, non appena i bombardieri sono giunti a tiro, ha aperto un intenso fuoco di sbarramento assieme alla Libra. Lo scoppio delle bombe solleva la poppa della torpediniera dall’acqua e spinge tutta la nave in avanti, arrecando qualche danno alle sovrastrutture con la miriade di schegge proiettate loro addosso, ma senza causare vittime. Le torpediniere ritengono di aver abbattuto due dei bombardieri (in totale saranno tre gli aerei persi dagli attaccanti). I caccia tedeschi e alleati, ancora in combattimento, spariscono verso ovest: sono le 15.30 e l’attacco è terminato. La Libra viene lasciata sul posto a soccorrere i naufraghi (ne recupererà 102, mentre le vittime saranno 41), mentre la Tifone si riunisce alla Perseo nella scorta alla danneggiata Ombrina, dovendo procedere alla minima velocità, per tenere il passo con la malconcia motonave.
Alle 17 le tre unità entrano infine in porto a Biserta, dove i modesti danni da schegge riportati dalla Tifone vengono riparati alla meglio.
24 marzo 1943
Tifone, Libra (caposcorta) e Perseo ripartono da Biserta all’una di notte scortando la motonave Tommaseo ed il piroscafo Saluzzo, carichi di prigionieri di guerra e diretti a Livorno. Alle 10.11, nel punto 37°52’ N e 11°27’ E (30 miglia ad ovest-sud-ovest di Marettimo), il sommergibile britannico Unseen (tenente di vascello Michael Lindsay Coulton Crawford) lancia quattro siluri contro il Saluzzo, che alle 10.15 ne avvista due e li evita di stretta misura con un’accostata che per poco non lo fa finire in collisione con la Tommaseo; Libra e Perseo contrattaccano, individuando il sommergibile e ritenendo di averlo danneggiato, mentre la Tifone gira intorno ai mercantili tenendosi pronta ad intervenire.
Giunto nel Golfo di Napoli durante un bombardamento, il convoglio viene fatto sostare a ridosso di Capri fino alla notte, gettando di tanto in tanto qualche bomba di profondità intimidatoria (la zona è infatti infestata dai sommergibili). Infine il convoglio rimette in moto e prosegue verso Napoli, tranne la Tifone, che alle 21.40 riceve ordine di effettuare un rastrello antisommergibile al largo di Gaeta.
25 marzo 1943
Approda alle 4.40 a Gaeta, dove la Tifone si rifornisce e riparte subito verso Livorno.
Giunge a Livorno alle 13.40 e ne riparte subito scortando, con altre unità e numerosi aerei antisom tedeschi (tanto che sulla Tifone è stato imbarcato un ufficiale di collegamento della Luftwaffe), due motonavi cariche dirette verso sud (la Tifone è l’unica unità della scorta ad avere l’ecogoniometro). Il mare è agitato, ma non si verificano inconvenienti; la Tifone zigzaga in rastrello antisommergibile a proravia del convoglio, sino all’arrivo a Napoli.
25-28 marzo 1943
Durante i tre giorni di sosta a Napoli, l’equipaggio provvede a rassettare le attrezzature usurate dal lungo servizio, ripulire i tubi delle caldaie ed anche scendere in franchigia per la prima volta dall’ultima partenza da Taranto.
(Il servizio di scorta è infatti così intenso che di solito l’equipaggio non ha mai tempo per scendere a terra, e neanche per riparare i danni e rimediare all’usura della nave: ogni volta ci si rifornisce di acqua, nafta e munizioni e si riparte subito per una nuova missione. Nei porti africani, poi, anche quando si è in porto vengono mantenuti i turni di servizio e di guardia che ci sono in navigazione, dati i continui attacchi aerei. Quasi mai l’occasione di dormire in branda; nessuna attenzione più alla un tempo regolamentare cura della divisa, con vestiti sempre più rabberciati, senza che i commissariati avessero più indumenti da fornire. Come ricorderà Alberto Ferrari: «“Le turbine perdevano vapore?” “Metteteci sopra uno strapuntino”, era la risposta. “Le mitragliere erano roventi dall’usura?” “Pisciateci sopra!” “Equipaggi, siete all’orlo del collasso?” “Presto lascerete con onore questa valle di lacrime”»).
Il comandante in seconda Sturlese sbarca, sostituito dal tenente di vascello Luigi Sanfilippo.
28 marzo 1943
La Tifone, già pronta a muovere da Napoli in poche ore per partire come previsto, viene fatta salpare subito verso Torre Annunziata quando viene dato l’allarme per l’incendio della motonave Caterina Costa, carica tra l’altro di benzina e munizioni. Più tardi, quando la Tifone sarà già lontana e al sicuro, la motonave salterà infatti in aria, uccidendo almeno 549 e ferendone oltre 3000, oltre ad affondare i rimorchiatori Oriente e Cavour e a causare ingenti danni al porto ed alla città.
29 marzo 1943
Poco dopo che a Napoli la Caterina Costa è esplosa, la Tifone lascia Torre Annunziata per assumere la scorta di un convoglio (denominato «SS») partito alle 18 e composto dalla nave cisterna Bivona, carica di carburante, dai piroscafi italiani Aquila (con a bordo veicoli, bombe d’aereo e munizioni) e Giacomo C. (con carri armati e munizioni) e dal tedesco Charles Le Borgne (carico di munizioni e bombe d’aereo). A testimonianza della decimazione della flotta mercantile italiana dell’anteguerra, tre su quattro (tranne il Giacomo C.) sono navi ex francesi catturate da pochi mesi. La scorta, oltre che dalla Tifone, è composta dal cacciatorpediniere Lubiana (caposcorta, capitano di fregata Luigi Caneschi) e dalla vetusta torpediniera Giuseppe Dezza (tenente di vascello Aldo Cecchi), più i cacciasommergibili tedeschi UJ 2205 e UJ 2208 in retroguardia.
Il convoglio è in franchia alle 19, ed assume subito rotta diretta per Tunisi.
30 marzo 1943
Verso le dieci del mattino il convoglio, rallentato dal Giacomo C. che è in avaria, viene superato da un altro convoglio composto dai piroscafi Nuoro, Crema e Benevento e scortato dalle torpediniere Clio, Cigno e Cassiopea. Il Giacomo C. dev’essere infine mandato a Palermo (alle 17.50), assistito dalla Dezza; proseguono Lubiana, Tifone, Aquila, Bivona e Le Borgne. Il convoglio della Tifone supererà indenne gli agguati di sommergibili e motosiluranti e gli attacchi aerei – che invece affonderanno tutti e tre i mercantili del convoglio che l’ha preceduto – solo per andare distrutto a causa del maltempo.
31 marzo 1943
Al largo di Capo Ras Mustafà (dove avviene l’atterraggio) il Lubiana ordina alle navi di disporsi in linea di fila. Al tramonto del 31 marzo, mentre il mare ingrossa da nordovest, le navi giungono in vista di Capo Bon; alle 20.45 il Lubiana ordina di disporsi in linea di fronte nell’ordine, dal largo verso il lato rivolto alla costa: un cacciasommergibili tedesco, la Bivona, il Le Borgne, l’Aquila e l’altro cacciasommergibili; la Tifone procede in testa al convoglio, a proravia della Bivona, mentre il Lubiana precede la torpediniera di circa un miglio, tenendosi a 40-45 gradi a prua sinistra di quest’ultima (a 2000 metri per 40° dalla sua prua, a sinistra; cioè più verso terra).
Il tempo va peggiorando: mare e vento (vento fresco da nordovest, in aumento) peggiorano e la visibilità cala (solo il fanale di Zembretta è visibile a tratti, unico punto di riferimento per le navi, che lo usano per calcolare la loro posizione), finché, alle 21.42, il Lubiana, che il vento ha fatto scarrocciare verso terra, s’incaglia malamente presso Ras Ahmer (otto miglia ad ovest di Capo Bon), restando immobilizzato con gravi danni (tanto che sarà poi considerato perduto e abbandonato sul posto) e senza corrente. Quando la Tifone passa accanto al cacciatorpediniere, il comandante di quest’ultimo, capitano di fregata Caneschi, le ordina col megafono (in mancanza di corrente, la radio non funziona) di scostare al largo (accostando a dritta) ed assumere il ruolo di caposcorta.
Mentre la burrasca va peggiorando, la Tifone cerca di segnalare con ogni mezzo ai mercantili di allargare, per evitare di incagliarsi a loro volta, ma nessuno sembra ricevere o capire il messaggio: solo la Bivona, intuito il pericolo, segue la Tifone nella manovra (la torpediniera accosta di 20° a dritta), mentre le altre navi sono sparite nella notte, e non rispondono alle chiamate effettuate col fanale da segnalazione. Il vento continua a sospingere tutte le unità verso terra, e la visibilità è pressoché nulla.
Il Le Borgne passa vicino al Lubiana, il cui comandante Caneschi gli grida di accostare subito, ma l’equipaggio tedesco del piroscafo non comprende l’avviso, così anch’esso va ad incagliarsi circa cento metri più avanti; l’Aquila, che lo segue, lo sperona a poppa e s’incaglia pure lui.
Di tutto questo, così come della sorte dei cacciasommergibili tedeschi, la Tifone è totalmente all’oscuro: solo la Bivona la segue a vista. Le due navi procedono a bassa velocità, in attesa di qualche segno di vita dalle navi scomparse; la torpediniera torna indietro in cerca delle unità disperse, governando al minimo dei giri, finché alle 22.30 s’imbatte nell’Aquila, che è riuscito a disincagliarsi ma è fortemente appruato, causa l’acqua imbarcata dalle falle subite nella collisione, e non risponde ai segnali coi quali gli si chiede cosa sia successo. Sopraggiunge anche uno dei cacciasommergibili: la Tifone riesce ad ordinargli, a mezzo segnali luminosi col proiettore di coffa, di mettersi a cercare l’unità similare e dare assistenza all’Aquila; per parte sua l’unità tedesca riferisce che il Le Borgne è incagliato vicino al Lubiana e che i danni dell’Aquila sono dovuti a collisione con il Le Borgne.
Alla Tifone, essendo troppo pericoloso restare ancora in acque tanto insidiose, non resta che proseguire scortando la Bivona, nave più preziosa del convoglio nonché unico mercantile indenne. L’Aquila si andrà poi ad incagliare presso Capo Zebib, per non affondare, ma andrà comunque perduto.
1° aprile 1943
Alle 00.00 la torpediniera Sagittario, proveniente da Tunisi dove ha lasciato un altro convoglio, viene incontro a Tifone e Bivona; la Tifone le ordina di andare ad assistere il Lubiana (che però non sarà recuperabile, al pari di Aquila e Le Borgne) dopo di che, alle 10 del 1° aprile, entra finalmente a Biserta assieme alla petroliera.
L’equipaggio della Tifone inizia subito a riparare i danni causati dalla burrasca, i quali tuttavia si rivelano più estesi di quanto inizialmente pensato, tanto che, contrariamente a quanto previsto, la torpediniera non potrà ripartire con la Bivona il 4 aprile, dovendo essere rimpiazzata dalla Sagittario.
4 aprile 1943
Terminate le riparazioni, la Tifone lascia Tunisi alle 16 insieme alla torpediniera Antares (caposcorta), scortando il piroscafo tedesco Claude e la motonave italiana Belluno, ambedue ex francesi.
6 aprile 1943
Dopo tre giorni di navigazione insidiata giorno e notte da attacchi di bombardieri, aerosiluranti e motosiluranti, Tifone, Antares, Claude e Belluno giungono alle 7.30 a Livorno (Napoli è semidistrutta dai bombardamenti), dove la torpediniera sosterà brevemente per revisione delle macchine fortemente usurate (ma mancano i pezzi di ricambio, tanto che spesso bisogna prelevarli dalle navi ancora in costruzione in cantiere). L’equipaggio, sempre più malconcio e stremato, può finalmente scendere a terra.
Inizia per la Tifone l’ultimo mese della sua breve vita.
14 aprile 1943
Giunti i ricambi da La Spezia, i lavori alle macchine vengono portati a termine e la Tifone (capitano di corvetta Stefano Baccarini; per la prima volta caposcorta), lascia Livorno per Trapani alle 16.05, scortando la Belluno carica.
15 aprile 1943
Alle 12.35, una novantina di miglia a nord di Marettimo, si unisce alla scorta la torpediniera Climene (capitano di corvetta Mario Colussi) uscita da Palermo.
Giunto il convoglio a Trapani alle ore 19.50 (o 20), durante la sosta in rada una bettolina si porta sottobordo alla Tifone, i cui depositi prodieri vengono riempiti di benzina: la torpediniera si ritroverà così a fungere, data la disperata situazione del fronte tunisino, anche da trasporto del preziosissimo e pericolosissimo combustibile oltre che da nave scorta. Viene severamente vietato fumare, accendere fuochi od innestare circuiti elettrici senza autorizzazione del capo elettricista, per tutta la zona prodiera dalle cucine al castello; l’aria di molti locali interni diviene irrespirabile per le esalazioni di benzina, e più di qualcuno non può fare a meno di pensare alla fine della Caterina Costa.
16 aprile 1943
All’una di notte (o 1.30) il convoglio salpa da Trapani per Tunisi. Oltre a Tifone e Climene in scorta diretta alla Belluno, dato che la Tifone non può compiere azioni belliche per via della pericolosa benzina avio contenuta nei suoi depositi, altre due torpediniere vengono assegnate a compiti di scorta avanzata: la Cigno (capitano di corvetta Carlo Maccaferri) e la Cassiopea (capitano di corvetta Vittorio Nasta). Dovendosi tenere in posizione di esplorazione avanzata (a protezione contro attacchi di motosiluranti od unità sottili), precedendo il convoglio di cinque miglia, tali due torpediniere sono le prime a partire, seguite dalle altre tre navi (la Tifone, per via del suo carico, ha ricevuto libertà di manovra e indipendenza dal convoglio). La notte è chiara, la luna sta tramontando; la Tifone è in testa, seguita dalla Belluno e poi dalla Climene in linea di fila.
Dopo circa un’ora di navigazione, alle 2.38, a sudovest di Marsala e 15 miglia a ovest/sudovest di Capo Lilibeo, Cigno e Cassiopea avvistano a sudovest due sagome scure, che non sembrano di cacciatorpediniere italiani di ritorno da Tunisi; la Cigno effettua comunque il segnale di riconoscimento, ma non riceve risposta, e poco dopo le due nuove arrivate, che sono i cacciatorpediniere britannici Paladin e Pakenham, si dividono in modo da circondare Cigno e Cassiopea. Poi l’apertura del fuoco: il combattimento è violentissimo, quasi un corpo a corpo tra navi.
Tifone, Climene e Belluno, che seguono a poche miglia e si trovano al largo di Capo Lilibeo, avendo appena superato Favignana, assistono impotenti: la Tifone, coi depositi pieni di benzina, è impossibilitata ad intervenire, e per entrambe l’ordine è di restare con la Belluno a sua difesa, e reagire solo se attaccate direttamente. La Tifone ordina quindi al convoglio, non appena si vedono a proravia le vampe dell’artiglieria, di invertire la rotta ad un tempo: in tal modo la Tifone si trova in coda, pronta – nei limiti delle circostanze – a coprire la Belluno in caso di attacco.
Questa pericolosa eventualità viene scongiurata dall’eroica difesa di Cigno e Cassiopea: pur trovandosi di fronte ad avversari ben più grandi e meglio armati, le due torpediniere combattono accanitamente e riescono a respingerli; la Cigno colpisce ripetutamente il Pakenham, immobilizzandolo, ma non prima di essere stata a sua volta devastata dal tiro del cacciatorpediniere. Colpita anche dai siluri lanciati dal Pakenham (che è sua volta oggetto del lancio di siluri da parte della Cigno, che però non vanno a segno), la torpediniera si spezza in due e affonda con 103 dei 150 uomini del suo equipaggio. La Cassiopea lancia infruttuosamente dei siluri contro il Paladin ed apre contro di esso un intenso fuoco con le proprie artiglierie, ma viene immobilizzata e incendiata dal tiro congiunto di entrambi i cacciatorpediniere. Il sacrificio non è stato vano: i due cacciatorpediniere rinunciano infatti a proseguire l’attacco contro l’obiettivo principale, ossia il Belluno con il suo carico, e si ritirano; il Pakenham, ridotto ad un relitto galleggiante, dev’essere preso a rimorchio dal Paladin, che più tardi dovrà provvedere esso stesso a finire con un siluro la nave gemella, nell’impossibilità di salvarla.
La Tifone, impotente a contrattaccare, invia la Climene a soccorrere la Cassiopea, fortemente sbandata e carica di morti e feriti, poi riceve ordine di rientrare a Trapani, dove giunge prima dell’alba, ancorandosi davanti al porto alle 4.25 e restando in attesa di ordini. Anche la Climene rientrerà in porto, portando con sé la malconcia, ma ancora galleggiante, Cassiopea.
Passato poco tempo, alle 5.45 la Tifone riceve ordine da Supermarina di ripartire per proseguire il viaggio per Tunisi insieme alla Belluno, attraversando di giorno il Canale di Sicilia.
Dopo un viaggio sorprendentemente tranquillo – solo due allarmi aerei privi di conseguenze – Tifone e Belluno raggiungono Tunisi alle 17.15 (o 17.20). Alle 14.25 la torpediniera Libra, proveniente da Biserta, è giunta incontro al convoglio per pilotarlo sulle rotte di sicurezza. Nell’ultimo tratto si assiste ad una tragedia: poco dopo l’arrivo della Libra le navi sono sorvolate da un aeroconvoglio di 70 velivoli da trasporto, ed alle 15.42 da un altro, che vola un po’ più vicino alla costa e viene attaccato da caccia britannici Supermarine Spitfire. Questi, subendo la perdita di uno Spitfire, abbattono quattro trimotori Savoia Marchetti SM. 82; la Libra lascia il convoglio e recupera i superstiti, circa 70 dagli aerei italiani abbattuti più il pilota britannico dello Spitfire.
Dopo l’arrivo a Tunisi, la Tifone prosegue per Biserta, dove può finalmente scaricare la benzina contenuta nei depositi prodieri.
18 aprile 1943
La Tifone lascia Biserta alle quattro del mattino scortando il piroscafo Mostaganem, avente a bordo prigionieri alleati.
Per tutto giorno il convoglio viene attaccato da aerei; la Tifone reagisce con intenso tiro contraereo, evoluendo ad alta velocità ed abbattendo alcuni degli aerei attaccanti; viene mitragliata e subisce anche danni da schegge. I prigionieri sul Mostaganem, la cui vita è ora minacciata dai loro connazionali e tutelata dal nemico italiano, applaudono e gridano “Urrà TF” (dalla sigla dipinta sulla prua della Tifone) quando la Tifone passa vicino al piroscafo di controbordo.
Col calare del buio gli attacchi aerei cessano, ma vengono raddoppiati i turni di vedetta, nel timore di un attacco navale. Si preparano squadre antincendio e carpentieri con puntelli e turafalle, serventi di riserva per le artiglierie, i sacchi-branda diventano paraschegge; ma non sono le navi nemiche ad arrivare, bensì altri aerei.
19 aprile 1943
Gli aerei sorvolano le due navi per un paio di volte senza riuscire a trovarle nel buio della notte. La Tifone, che procede a velocità minima per evitare fumo e scie vistose, li segue con le armi in punteria; ma la previsione che il comandante Baccarini ha fatto alla partenza da Biserta su quel “palazzo ducale” del Mostaganem – troppo grosso e vistoso, un bersaglio troppo facile anche di notte, non arriverà a Napoli – è destinata ad avverarsi. È proprio a segnalare involontariamente al carnefice la propria posizione: dal fumaiolo escono delle scintille, che permettono agli aerei di individuarlo. I bengalieri iniziano a gettare i bengala, che diventano subito il bersaglio di cannoni e mitragliere della Tifone: i primi vengono distrutti, ma sono troppi, decine, che illuminano a giorno i cielo. Il Mostaganem viene subito attaccato e colpito dagli aerei (sia bombardieri che aerosiluranti; il convoglio si trova a 20 miglia per 290° da Levanzo), e, all’1.30, è anche silurato dal sommergibile britannico Unrivalled (tenente di vascello Hugh Bentley Turner), che gli ha lanciato tre siluri. Il piroscafo affonda lentamente nel punto 38°11’ N e 11°44’ E (o 38°15’ N e 12°00’ E), mentre la Tifone, per non essere colpita a sua volta, deve disimpegnarsi ed allontanarsi senza raccogliere i naufraghi. In loro soccorso saranno inviati dei motovelieri il giorno seguente.
20 aprile 1943
La Tifone giunge a Trapani alle 7.30, ormeggiandosi vicino al relitto devastato della Cassiopea.
Pochi giorni dopo la Tifone si trasferisce a Napoli; qui l’equipaggio apprenderà che anche la Climene è stata affondata, silurata il 28 aprile dal sommergibile britannico Unshaken. Il numero delle “ultime del Canale”, il sempre più sparuto gruppo di torpediniere che si alternano nella scorta ai convogli nel Canale di Sicilia, si va sempre più assottigliando.
La Tifone nel 1943 (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)

L’ultima torpediniera per Tunisi

Questo il titolo del libro scritto dal sottocapo elettricista ed ecogoniometri sta Alberto Ferrari (sotto lo pseudonimo di Alberto Arcene), sopravvissuto della Tifone, che vi narra la breve vita e la fine di questa torpediniera. Toccò infatti in sorte alla Tifone di scortare in Tunisia l’ultima nave mercantile con rifornimenti che riuscì a raggiungere il fronte nordafricano.
Erano le sette di sera del 3 maggio 1943 quando la Tifone lasciò Trapani alla volta di Tunisi, scortando la motonave Belluno. Ormai era evidente a tutti che la caduta della Tunisia era solo questione di giorni: non aveva più senso inviare rifornimenti a truppe che presto si sarebbero dovute arrendere, ma per qualche misterioso motivo gli uomini della Marina dovettero continuare a combattere, e morire, per far giungere i rifornimenti a destinazione fino all’ultimo giorno. Quattro furono i convogli che salparono dall’Italia per la Tunisia nella prima settimana di maggio 1943, gli ultimi: due furono distrutti; uno costretto al rientro dopo la perdita del suo unico mercantile; uno solo arrivò a destinazione: Belluno e Tifone.
La Belluno trasportava bombe e carri armati, mentre la Tifone si ritrovava di nuovo a dover trasportare benzina nei depositi prodieri. Mentre il comandante era sempre il capitano di corvetta Stefano Baccarini, si era svolto un ultimo avvicendamento, prima dell’ultima partenza, nel ruolo di comandante in seconda: il tenente di vascello Sanfilippo, dopo aver salutato con affetto e commozione il suo equipaggio di “connuti e fetusi”, come li aveva chiamati sin da quando era giunto a bordo, era infatti sbarcato; il suo posto era stato occupato dal sottotenente di vascello Augusto Fiani.
Nella notte tra il 3 ed il 4 maggio, Tifone e Belluno dovettero assistere impotenti, per la seconda volta – sempre la solita benzina nei depositi della torpediniera, ad impedirle ogni intervento – ad un combattimento navale a poche miglia di distanza: l’ultimo sulle rotte della Tunisia, e questa volta vinto dai britannici. Il piroscafo Campobasso e la torpediniera Perseo, che precedevano Tifone e Belluno di poche miglia, vennero infatti attaccati dai cacciatorpediniere britannici Nubian, Petard e Paladin. Le sorti dell’impari scontro erano segnate: dopo un duro combattimento, sia la Perseo che il Campobasso furono affondati, con la maggior parte dei loro equipaggi.
Tifone e Belluno, dopo aver assistito a distanza al combattimento, vedendone lampi, bagliori ed esplosioni, riuscirono ad evitare di essere a loro volta individuati dai cacciatorpediniere – sarebbe stata la fine – e giunsero a destinazione alle 7.11 del mattino del 4 maggio, dove la Tifone lasciò la Belluno all’imbocco di La Goletta (Tunisi). Nessun’altra nave dell’Asse sarebbe più giunta in quella città, che ormai aveva le ore contate.

Lasciato a Tunisi il mercantile, la Tifone proseguì a tutta forza per Biserta, dove scaricò la benzina e riparò alla meglio macchine e attrezzature. Qui i segni della fine imminente erano più che vistosi: il porto era già bersagliato dall’artiglieria statunitense, e gli artificieri del Regio Esercito stavano già facendo saltare magazzini ed installazioni per non farli cadere intatti in mano nemica. L’arsenale era già un cumulo di rovine, nessuna speranza di trovarvi i pezzi di ricambio di cui c’era disperata necessità: furono perciò formate delle comandate di recupero che vennero inviate ad ispezionare i relitti semiaffondati nel porto. Un’iniziativa tanto disperata diede i suoi frutti: le parti necessarie furono trovate. La Tifone lasciò la banchina per portarsi in rada, luogo più sicuro, ma anche lì dovette tenere due caldaie accese e continuare a cambiare boa, perché bersagliata dal tiro delle artiglierie terrestri. Il cielo era pieno di caccia e cacciabombardieri angloamericani, che, diretti contro gli obiettivi di terra, non attaccarono la torpediniera. Il Comando della Piazza di Biserta comunicò alla Tifone che al largo incrociavano unità alleate pronte ad intercettare qualunque nave avesse tentato di partire; ma il comandante Baccarini ed i suoi uomini erano essi stessi esperti di rastrello e delle acque intorno a Biserta, ed escogitarono il modo per sfuggire al blocco.
A mezzogiorno del 6 maggio l’equipaggio consumò l’ultimo rancio a bordo: il comandante Baccarini offrì sigari a tutti e pranzò con i suoi uomini, poi li ringraziò per le soddisfazioni che avevano saputo dargli e assicurò che non li avrebbe mai scordati, definendoli “la sua migliore famiglia”. Ricordò loro il giuramento di fedeltà alla Patria e al re e fece loro altre raccomandazioni, poi descrisse con chiarezza la gravità della situazione, spiegò che la nave sarebbe tornata a Tunisi e che, se fossero riusciti a rientrare in Italia, ci sarebbero stati lavori per la nave e licenza per tutto l’equipaggio.
Alle 14 la Tifone mise in moto, a bassissima velocità e senza fare fumo, per dare l’impressione di stare soltanto cambiando ancora la boa, ma iniziò a passare tra i relitti semiaffondati per guadagnare l’uscita. Le artiglierie terrestri tacevano.
Il piano era di uscire dal porto mentre le navi nemiche di vigilanza erano in fase di allontanamento, poi puntare diritti sui campi minati: l’equipaggio della Tifone ormai li conosceva bene, non così le navi avversarie, che non vi si sarebbero avventurate. Il piano funzionò: protetta dai campi minati, la torpediniera si allontanò a tutta velocità, sollevando un ‘baffo’ a prua alto fino al castello, poi, una volta al sicuro, riassunse la rotta normale, fino ad accostare presso Cartagine – con una velocità tanto alta da minacciare d’ingavonarsi – ed entrare nel Golfo di Tunisi. Dopo aver messo le macchine indietro tutta per contrastare l’abbrivio, alle 17 la Tifone dette fondo a circa 500 metri dalla testata del molo di La Goletta (Tunisi), dove fu poco dopo raggiunta da una pilotina con gli ordini di Maritunisi. La Tifone avrebbe dovuto prendere accordi con la Belluno, che stava imbarcando prigionieri alleati nella vicina Korbus, per ripartire alle 21 e rientrare a Napoli scortando la motonave. Il messaggio si concludeva con “Buona fortuna Tifone!”. Nessuna delle due navi sarebbe giunta indenne alle ore 21.

Alle 18.01 (per altra fonte, 18.30) la torpediniera salpò l’ancora e diresse a lento moto verso Korbus, piccolo villaggio di pescatori sulla sponda orientale del Golfo di Tunisi, ad una sessantina di chilometri da quest’ultima città. La guerra che infuriava due passi non l’aveva ancora toccato: le piccole casupole bianche, sparpagliate tra olivi e sterpaglia in cima alla scarpata che sormontava la spiaggia sabbiosa, percorsa da un ruscelletto, parve agli uomini della Tifone un quadro pastorale, quasi un presepio. La Belluno, ancorata nell’insenatura, si stagliava a prora dritta; la Tifone avrebbe dovuto raggiungerla per consegnarle l’ordine d’operazione per il viaggio a Napoli ed accordarsi circa la traversata.
Nel cielo, innumerevoli caccia e cacciabombardieri diretti verso ovest, che mitragliavano e bombardavano a volo radente le posizioni militari sulle alture vicine. La Tifone, unica nave da guerra presente nel golfo, non sembrava destare il loro interesse, al pari della Belluno ancora intenta a caricare prigionieri: ma l’equipaggio, a ragione, non si fece illusioni. Ad ogni buon conto la nave di Baccarini si spostò un po’ più verso il largo, onde evitare che qualcuno degli aerei, finiti i bersagli terrestri, potesse decidere di attaccarla. I marinai – che erano ai posti di combattimento fin da Biserta –, indossati gli elmetti, tolte le draglie e rizze inutili, rifornite le riservette e ricontrollato le armi una volta di più, rimasero in attesa dell’inevitabile: e passati circa venti minuti, le vedette avvistarono una formazione di cacciabombardieri statunitensi – tutti gli attacchi sarebbero stati portati da velivoli dell’USAAF – provenienti da ponente e diretti verso il largo, favoriti dal sole che tramontava, accecando con la sua luce i puntatori della Tifone.
Rapidamente, senza aver ancora perso quota, gli aerei si divisero in tre gruppi, per attaccare l’unità italiana da poppa, da dritta e da sinistra; la torpediniera mise le macchine a tutta forza. Nel locale ecogoniometro, i quattro ecogoniometristi – il sottocapo Alberto Ferrari, il primo idrofonista Mario Saravalle, il sottocapo segnalatore idrofonista Benito Muscariello e l’idrofonista Giuseppe Brizio – fecero rientrare fulmineamente il peritèro, per consentire maggior velocità e manovrabilità (eliminando la resistenza che esso opponeva all’acqua), poi si divisero: Muscariello si recò in plancia, Brizio e Saravalle andarono alle norìe del cannone prodiero da 100/47 e Ferrari, che era anche elettricista, andò nel locale accumulatori, dove gli elettricisti avevano già preparato le batterie di pronto impiego e stavano predisponendo i cavi d’emergenza.
La Tifone aprì per prima il fuoco di sbarramento, ma, dovendo sparare contro aerei che provenivano da tre direzioni diverse, il suo tiro ne risentì negativamente. Gli aerei, superato il tiro di cannoni e mitragliere, mitragliarono e bombardarono in picchiata la torpediniera, il cui comandante Baccarini ordinava intanto con calma e sicurezza sapienti manovre evasive, perfettamente eseguite dall’esperto timoniere. Le macchine risposero bene, e così la Tifone poté uscire dal primo attacco con danni modesti: le bombe caddero in mare a pochissima distanza e danneggiarono l’opera morta in corrispondenza della centrale elettrica, forando alcuni tubi di vapore che furono subito tamponati; il mitragliamento ferì alcuni uomini in coperta, ma il prezzo pagato dagli attaccanti fu di due aerei abbattuti. Alberto Ferrari vide di persona quello colpito dalle armi di dritta: avvolto dalle fiamme, il velivolo precipitò verso la torpediniera e sembrò destinato a precipitare a bordo, ma scivolò d’ala appena in tempo per finire in mare, dove esplose investendo l’equipaggio della nave con una zaffata d’aria rovente.

Non ci fu il tempo di tirare il fiato: furono le vedette in controplancia ad avvistare la seconda ondata, anch’essa divisa in tre gruppi di aerei, che gli uomini della Tifone ritennero essere dei cacciabombardieri Curtiss P-40. I nuovi arrivati attaccarono senza esitazione, lanciandosi in picchiata e sganciando le loro bombe senza badare al fuoco di sbarramento della torpediniera. Molte bombe esplosero tutt’intorno alla nave; una colpì il cannone poppiero da 100/47, squarciandone lo scudo, bloccandolo con brandeggio per chiglia e uccidendo o ferendo i serventi. Il sergente cannoniere Michele Bianchi scomparve insieme alla sua mitragliera poppiera da 20 mm ed ai paramine, spazzati via dalle bombe. La nafta uscita dai tubi tranciati dei fumogeni prese fuoco. Le altre mitragliere continuarono a sparare furiosamente: quella del sergente cannoniere Catello Nostrini, già autore di due abbattimenti in precedenti missioni, colpì un altro aereo che precipitò in fiamme.
Alberto Ferrari osservò lo sfacelo a poppa insieme agli altri due elettricisti, ridossato alla paratia della stazione accumulatori; il locale fu investito da centinaia di schegge che sforacchiarono la tuga e il portello, ma i tre rimasero indenni, riparati in un angolo morto dal bancone di piombo, e riuscirono anche a tirare dentro Mario Saravalle, diretto a poppa per riferire della situazione, subito prima che una bomba esplodesse in mare a forse un metro di distanza, danneggiando il locale sottostante.
A poppa le fiamme si andavano estendendo, e le comunicazioni con la plancia erano interrotte. Il sergente torpediniere Vincenzo Stagni, addetto alle bombe di profondità, ed i suoi uomini, fattisi largo tra le fiamme con manichette e schiumogeni, neutralizzarono l’innesco dei pericolosi ordigni, prelevandoli dalla tramoggia di dritta, e li gettarono in mare per evitare che scoppiassero. Stagni si ritrovò poi con gli avambracci ustionati.
La plancia e la stazione radio erano state mitragliate, con un morto, il sottocapo radiotelegrafista Felice Ghezzi, e parecchi feriti; Benito Muscariello, mentre aiutava a segnalare i colpi subiti dalla nave, era stato ferito all’inguine ed alla coscia da parecchie schegge – due più grandi avevano di poco mancato l’arteria femorale – proiettate dall’esplosione di una bomba, caduta sul piano lance. Una scheggia ammaccò l’elmetto del comandante Baccarini, ma questi non se ne curò.
La Tifone, nonostante i danni, evoluiva ancora in maniera eccellente. Gli aerei avversari, dopo aver sganciato le bombe e poi mitragliato la nave in più passate protrattesi per qualche minuto, si allontanarono nella direzione da cui erano arrivati, dando all’equipaggio italiano un breve momento di respiro.

I feriti venivano portati sottocastello dov’erano curati dall’infermiere, Angelo Manini. I più gravi rantolavano sugli strapuntini, gli altri tacevano, premendosi le ferite. I primo morti erano stati portati in quadrato.
E venne la terza ondata. Meno numerosa delle precedenti, ma ora l’armamento della Tifone era menomato. Gli aerei si avvicinarono al traverso, volando a bassa quota, e tre di essi furono colpiti: due si ritirarono, il terzo precipitò in mare. Gli altri proseguirono decisi nell’attacco. Il sergente Nostrini, alla mitragliera binata sita dietro il fumaiolo, fu colpito sopra l’occhio destro: gravissimo, fu subito rimpiazzato da un altro alla mitragliera, e venne adagiato sulla riservetta vuota.
I velivoli avversari effettuarono una passata mitragliando, poi tornarono da poppa, per sganciare le bombe. La Tifone eseguì una rapida accostata, ma non poté evitare del tutto un grappolo di bombe: uno degli ordigni sfondò la tuga e scoppiò nella motrice poppiera. Qualcuno da sotto gridò “Mamma!”, poi un boato coprì il grido, e lo scoppio della bomba scoperchiò gli osteriggi, dai quali uscì un’immensa fiammata. Ancora altre bombe, un’ultima passata di mitragliamento e poi gli aerei si allontanarono nella direzione del sole. Erano le 18.55, l’attacco era finito.

Quaranta minuti erano bastati a ridurre una moderna torpediniera di scorta ad un pietoso relitto. La nave era diventata ingovernabile, la sua velocità continuava a diminuire; il fumo nero degli incendi si mescolava al vapore bianco che scappava ovunque dalle tubature rotte. Gli attaccanti avevano pagato con la perdita di tre velivoli.
Il comandante Baccarini apparve sull’ala dritta di plancia: era indenne, ma completamente annerito dal fumo che aveva invaso anche il ponte di comando.
La centrale elettrica era fuori uso, gli elettricisti ustionati dai vapori rilasciati dalle turbodinamo danneggiate dalle schegge; Ferrari e gli altri della stazione accumulatori, rimasti illesi o quasi (Ferrari era leggermente ferito alla testa da alcune piccole schegge ed il sangue gli colava fino alla bocca, ma non ci badò, limitandosi a ripulirsi con uno straccio), li issarono dal boccaporto e li portarono sottocastello con gli altri feriti. Poi provvidero a portare le batterie d’emergenza nei locali caldaie e negli altri locali dove i circuiti a bassa tensione erano andati distrutti; Ferrari e Saravalle ne portarono due anche nella stazione radio devastata, dov’erano stati richiesti. I radiotelegrafisti erano tutti feriti, i più in modo grave. Ferrari e Saravalle scesero a controllare il loro locale ecogoniometro e trovarono che tutto era ancora a posto; furono poi chiamati dal sottocapo artificiere Giacomo Speroni, addetto al deposito munizioni di prua che era adiacente al loro locale, e lo aiutarono a passare le munizioni sopra al cannone prodiero da 100/47, ancora funzionante.
Il comandante in seconda Fiani, rimasto senza un graffio, riceveva i rapporti dalle diverse sezioni e li comunicava al comandante Baccarini.
Il timone si poteva manovrare manualmente; la motrice prodiera, unica funzionante, non riceveva vapore perché quello prodotto dalle caldaie fuoriusciva dalle tubature rotte prima di raggiungerla. I fuochisti, sebbene scottati dal vapore surriscaldato, riuscirono a bloccare le valvole di mandata ed isolare le tubature rotte quel tanto che bastava a far arrivare alla motrice il vapore necessario, insieme all’abbrivio, a portare la nave a ridosso della costa. Lentamente la Tifone, che andava via via appoppandosi, si avvicinò a Korbus, infine diede fondo a qualche miglio dalla riva. La Belluno, partita da Korbus, passò in lontananza, diretta verso Tunisi. L’indomani vi sarebbe stata danneggiata da un nuovo attacco aereo e sarebbe stata portata all’incaglio per non affondare.

Era quasi buio. Ferrari e Saravalle, cercando Muscariello, s’imbatterono nel sergente Nostrini, che era ancora sulla riservetta dov’era stato adagiato dopo il ferimento: era troppo grave per essere spostato, non poteva più parlare, ma riconobbe i compagni. L’infermiere Manini fece loro capire, con un cenno, che non c’era più nulla da fare. Ferrari prese la mano di Nostrini, i due si guardarono un’ultima volta negli occhi, poi il sergente strinse forte la mano, reclinò il capo e morì. Ferrari, Manini e Saravalle andarono a prendere un telo che fungesse da sudario, vi avvolsero la salma e la portarono a poppa insieme alle altre.
Ferrari e Saravalle andarono poi sottocastello: prima videro, attraverso lo squarcio aperto dove c’era stato un portello, il comandante Baccarini, berretto in mano, che accarezzava lievemente i feriti più gravi e confortava gli altri; poi trovarono Muscariello seduto su un sacco vicino alla cala pitture, fasciato alla meglio attorno all’inguine, e Brizio che gli stava rimettendo i pantaloni dopo la fasciatura. Si abbracciarono e si raccontarono vicendevolmente quanto era accaduto loro.

Calata la notte, il comandante Baccarini radunò gli ufficiali ed i marescialli capiservizio per un ultimo rapporto sulla situazione della nave, onde decidere cosa fare. Serventi e vedette erano ancora ai loro posti, vigili e pronti.
La poppa presentava dappertutto innumerevoli infiltrazioni e schiodature, ma turafalle e puntelli sembravano poter resistere; per far funzionare il timone dalla stazione poppiera, usando l’argano principale, sarebbe servita la corrente. A questo proposito, le turbodinamo erano inutilizzabili, ma sarebbe stato possibile cannibalizzare uno dei due diesel-dinamo in modo da riparare l’altro con i suoi pezzi; si sarebbe potuto far avere corrente alle zone principali stendendo dei cavi volanti. Le caldaie, che non avevano subito danni gravi, funzionavano bene, anche se occorreva riparare valvole e tubature tranciate; la nafta e l’acqua sarebbero bastate a muovere, e l’unica motrice funzionante sarebbe stata sufficiente per navigare. Le munizioni scarseggiavano, ma trasferendo da poppa a prua quelle del cannone poppiero ormai inutilizzabile sarebbero bastate; quelle delle mitragliere erano giudicate sufficienti, e se le mitragliere di poppa erano distrutte, le altre erano ancora efficienti. I siluri erano intatti, così come la dotazione di bombe di profondità dei lanciabombe e della tramoggia poppiera di sinistra, mentre quelle di dritta erano state buttate in mare. I puntatori e specialisti del tiro erano ancora in numero adeguato, mentre i serventi si sarebbero potuti sostituire.
Quando il comandante Baccarini chiese quali fossero le conclusioni, il secondo, Fiani, disse fiduciosamente che se, considerando quattro ore per le riparazioni indispensabili, la nave avesse avuto corrente e vapore per salpare entro mezzanotte, avrebbe potuto sfruttare le quattro rimanenti ore di oscurità per tentare di raggiungere Pantelleria prima dell’alba; probabilmente il nemico, sapendo che non c’erano più convogli diretti in Tunisia e timoroso di finire sulle mine, non li avrebbe cercati (e qui si sbagliava: aveva preso il via l’operazione «Retribution» con il preciso scopo di impedire che qualsiasi unità potesse lasciare la Tunisia, e le acque tunisine erano pattugliate da motosiluranti e cacciatorpediniere), e comunque l’artiglieria era ancora abbastanza efficienti. Fiani esprimeva il pensiero comune; tutti erano disposti a rischiare la pericolosa traversata per tentare di tornare in Italia, tutti tranne il direttore di macchina Cesare Scardecchia ed il capo cannoniere Giovanni Sartoris, i più anziani di bordo, meno giovani e spericolati del resto dell’equipaggio. Disillusi sulle probabilità di farla franca e non convinti dall’entusiasmo con cui Fiani aveva parlato, si limitarono a scuotere la testa in silenzio.
Fu il comandante Baccarini a riportare tutti alla realtà. Ringraziò Fiani ed i suoi uomini, ma espose la cruda realtà: la Tifone non sarebbe mai uscita dalla rotta di Zembretta; al largo cacciatorpediniere e motosiluranti rastrellavano il mare, e la torpediniera, dovendo governare a mano, sarebbe stata troppo lenta; dal fumaiolo privo di cappello, senza più un tiraggio sufficiente, sarebbe uscito troppo fumo, che li avrebbe resi visibilissimi. Bengalieri ed aerosiluranti li avrebbero trovati subito, e sarebbe stata la fine.
Con la morte nel cuore, il capitano di corvetta Stefano Baccarini annunciò che avrebbe atteso ordini da Maritunisi fino all’alba, poi avrebbe fatto autoaffondare la nave. Assicurò ai suoi uomini che, qualsiasi cosa fosse successa, sarebbero stati loro ad affondare la loro nave; aveva già chiesto un rimorchiatore per portarla più al largo, dato che lì, a solo cinque miglia dalla riva, chiunque avrebbe potuto violare il relitto della loro nave. Permise all’equipaggio di tentare per un’ultima volta di rimettere in moto in modo da portarsi più al largo.
Le vedette stavano all’erta; la Tifone era immersa in un’atmosfera spettrale, fiocamente illuminata dalla luce rossastra degli impianti d’emergenza, dove più serviva la corrente, e da fanali e lanterne negli altri locali. I morti erano composti a poppa, i feriti gravi, curati da Manini ed alcuni altri, erano sui bastingaggi. Ovunque gli uomini tentavano di rimettere in funzione ciò che poteva essere riparato, ma era una lotta vana: compresero infine che la Tifone non si sarebbe mai più mossa, abbandonarono i lavori si radunarono in gruppetti con i più intimi, per l’ultima veglia sulla loro nave. Impossibile dormire; tutti rovistavano negli effetti personali, guardavano un’ultima volta le fotografie dei parenti che non sapevano se avrebbero rivisto, presero con sé gli oggetti cui tenevano maggiormente.

Poi giunsero gli ultimi ordini: distruggere gli impianti eccetto quelli necessari alla difesa; poi “Demolire tutti gli impianti, approntarsi per l’abbandono nave”. Seguirono scene infernali: distrutti e addolorati, i marinai sfogarono la rabbia e la tensione accumulate nei mesi precedenti sulla nave che avevano amato. Nei locali risuonarono colpi di martello uniti a bestemmie e imprecazioni. In ecogoniometro Ferrari sfilò due caviglie di ferro dalle valvole, ne tenne una e diede l’altra a Saravalle, con un unico comando: “Distruggi”. Loro avevano un dolore in più da sfogare: pochi giorni prima, in un bombardamento a Napoli, avevano perso entrambi la ragazza che amavano. Tra scrosci di turpiloqui, fracassarono tutte le strumentazioni in una frenesia devastatrice. Gli altri non erano da meno: «Tutta la nave si distrusse. Un fuochista, con gli occhi iniettati di sangue, apparve dal portello della caldaia di prora; una lanterna gli giocava ombre sataniche sul viso. Gridò verso un ufficiale ferito, steso sul bastingaggio: “Spacchiamo tutto! Non troveranno che merda quelli che verranno!” E scomparve nel suo antro nero, ghignando come un folle».
Il comandante Baccarini ammonì di evitare vandalismi inutili, visto che all’alba avrebbero dovuto sparare ancora. Furono scambiati, mediante la radio d’emergenza, gli ultimi messaggi con Maritunisi: quest’ultimo comando comunicò che nella prima mattina sarebbe giunto un rimorchiatore per condurre la nave all’imbocco del porto di La Goletta, per affondarla come ostruzione e così bloccare l’accesso. I marinai riarsero di sdegno: la melma di un porto non sarebbe stata la tomba della loro nave, l’avrebbero affondata prima là dov’era, «dove l’acqua era azzurra».

Il comandante Baccarini si recò a terra per conferire con l’ammiraglio Carlo Pinna, comandante di Mariafrica. Questi confermò l’ordine di autoaffondamento, ma Baccarini ottenne che il capitano di vascello Carlo Franchi, comandante di Marina Tunisi, si recasse sulla Tifone per appurare la situazione e tentare di rimettere in moto.

Venne il mattino del 7 maggio 1943, e venne da Maritunisi, su una pilotina, il capitano di vascello Franchi insieme al comandante Baccarini. Dopo un ultimo tentativo fallito, constatato che la Tifone non era in grado di muovere in alcun modo, Franchi lasciò al comandante Baccarini libertà di decidere cosa fare della sua nave, augurò buona fortuna e se ne andò, mentre veniva avvistata una nuova squadriglia di cacciabombardieri statunitensi. Gli aerei sorvolarono la torpediniera per qualche minuto, forse stupiti nel vedere che non apriva il fuoco, poi scesero per attaccare, e allora i cannonieri iniziarono il tiro, che riuscì ancora ad essere intenso: gli aerei furono costretti a compiere una stretta virata e sganciare le bombe molto a proravia della Tifone, senza così recare danni aggiuntivi. Poi se ne andarono; con questo la torpediniera aveva esaurito le ultime munizioni. Si procedette alla distruzione degli archivi segreti. Erano le 5.30 ed il comandante Baccarini scese dalla plancia e ordinò con voce divenuta quasi impersonale, senza neanche bisogno del megafono: “Ordino a tutto l’equipaggio di abbandonare la nave!”.
Ma nessuno si mosse; qualcuno, non si seppe chi, mormorò “Finché la nave sta a galla, nessuno l’abbandona!” concludendo con un’imprecazione. Baccarini guardò stupefatto i suoi uomini, poi ripeté “Abbandonate la nave, perdio!”, questa volta aggiungendo un colpo di pistola sparato in aria. Il direttore di macchina Scardella azzardò che, essendo riusciti a riparate il diesel-dinamo, con la corrente avrebbero potuto autoaffondarsi al largo, ma Baccarini gli ricordò che non avevano più munizioni per difendersi da altri attacchi aerei, e aggiunse “Esegua il mio ordine e lo faccia eseguire da quella banda di scalmanati dei suoi fuochisti, perdio!”, e poi, sottovoce, “Scusami Cesare, abbiamo l’acqua al culo ormai, credimi, non possiamo far altro”; si abbracciarono.
Con rassegnazione l’equipaggio si preparò ad abbandonare la nave. La guardia pari, quella in servizio, fu incaricata di occuparsi dei feriti; gli zatterini rizzati sui lati delle sovrastrutture furono filati a mare, poi vi furono deposti i feriti più gravi e poi gli altri, in ordine decrescente di gravità. Non bastavano per tutto l’equipaggio; le quattro motolancie erano inutilizzabili, sforacchiate dai colpi e bruciacchiate, quindi si usarono delle tavole di abete, sottratte all’Arsenale di Taranto per essere usate come paraschegge, per realizzare delle grosse zattere di legno. I morti sarebbero rimasti a bordo, in quadrato, le salme sarebbero state portate via al momento di affondare per sempre la nave. Gli uomini calarono le biscagline e, in un ultimo gesto goliardico, anche la passerella ufficiali, ma questi ultimi saltarono in mare insieme a sottufficiali e marinai. Prima di calarsi o buttarsi in mare, gli uomini salutarono la bandiera, ancora sventolante, sebbene strappata, a poppa, ed il comandante, che attendeva accanto ai siluri, per abbandonare la nave per ultimo come si conveniva.
Alberto Ferrari guardò un’ultima volta la sua nave, poi mormorò “Ciao Tifone”, ringraziò il comandante per tutto quello che aveva fatto per loro e gli disse che l’avrebbero atteso a terra; questi ringraziò, gli raccomandò di aver cura dei suoi uomini e di non pensare a lui, si sarebbero rivisti a terra. Si lasciarono con una mesta stretta di mano; poi Ferrari saltò in mare e raggiunse il tavolone che gli era stato affidato, per uomini che non sapevano nuotare; erano otto (tra cui il sottocapo cannoniere Giacomo Speroni, il marinaio segnalatore Dante Corcoglioniti ed il sottocapo silurista Dante Varani), più Ferrari e Saravalle che era il suo “secondo”. Questi aveva disposto gli uomini ai lati e spiegato loro come spostare il tavolone; il galleggiante si allontanò dalla nave, prima con lentezza, poi più rapidamente. La corrente della marea trascinava le zattere verso un punto deserto della costa, dove c’era una scogliera, e Ferrari indicò a Saravalle, improvvisato timoniere, un punto della spiaggia sabbiosa su cui dirigere, cercando inoltre a dire agli uomini sugli altri galleggianti che dovevano andare più a dritta. Questi non compresero, e approdarono tutti sulla scogliera; il tavolone di Ferrari sbagliò la manovra e non riuscì a raggiungere il punto desiderato, ma finì anch’esso su un tratto roccioso e deserto di riva, ma dalla parte opposta degli scogli dove si erano ammassati gli altri.

I dieci uomini, sfiniti dallo sforzo e tremanti per il freddo, rimasero per mezz’ora sul posto a riposare, poi sopraggiunsero dalla strada litoranea tre soldati tedeschi che li incitarono, nella loro lingua e a cenni, a salire in fretta verso di loro; dato che i marinai erano troppo esausti, furono i tedeschi a scendere, prenderli e trascinarli lungo la scarpata spinosa fino in cima, dove li caricarono sul loro autocarro, li stesero sul cassone e divisero con loro una fiasca di grappa, che fu presto svuotata.
L’autocarro tedesco, dopo un’ora a tutta velocità, li portò nell’Ospedale militare di Tunisi, dove entrò distruggendo quel che restava delle già provate aiuole. Dei barellieri corsero verso i dieci naufraghi della Tifone, ma questi, che si reggevano in piedi da soli e non bevevano acqua fin da Biserta, si precipitarono a loro volta su una fontanella, da dove bevvero avidamente finché non furono portati via. Giunti in sala, un tenente medico del Regio Esercito fece loro togliere gli abiti bagnati e sporchi di nafta, li visitò sommariamente, constatando che non c’erano ferite serie, tolse alcune piccole schegge e disinfettò le escoriazioni. Il tenente disse loro che avrebbero potuto riposare per due ore in brandina, poi sarebbero stati assegnati al battaglione destinato all’ultima difesa di Tunisi. Dopo che ebbero riposato per circa un’ora su brandine da campo che riempivano la stanza, avvolti nelle ruvide coperte del Regio Esercito, furono chiamati dal tenente medico, che disse loro che sarebbero stati visitati da un maggiore medico per poi essere inviati a difendere la città, prospettiva che li trovava unanimemente in disaccordo, il che fu sottolineato da un colorito commento del sottocapo Varani all’indirizzo del tenente. Avendo ricevuto l’ordine di mettersi in riga, i dieci marinai uscirono subito all’aperto nudi com’erano, volutamente, prima di essere fermati da un maresciallo che disse loro che prima si sarebbero dovuti vestire. Ferrari gli rispose che avrebbero dovuto dare loro le loro divise; furono portate delle tute mimetiche dell’esercito, ma tutti e dieci rifiutarono sdegnosamente, pretendendo le loro tenute di macchina: che presto arrivarono, ancora umide e sporche, e furono indossate con orgoglio. I dieci naufraghi si allinearono quindi nel giardino, dove erano già in riga fanti, artiglieri, carristi e bersaglieri, sorvegliati da un sergente maggiore con la mano sulla fondina; i marinai si tennero però in disparte dagli altri. Giunse quindi il corpulento maggiore medico, insieme al maresciallo di prima; iniziò a passare in rassegna gli uomini in riga, ma senza nemmeno visitarli: per ognuno si faceva dire nome e causa di degenza, poi sentenziava subito “Abile, al fronte”. Quando giunse al gruppo della Tifone, iniziò con il segnalatore Corcoglioniti; quando questi pronunciò il suo strano nome, il maggiore credette d’essere preso in giro ed iniziò a “scaldarsi”, al che Ferrari intervenne spiegando che erano naufraghi appena raccolti, giunti lì per errore. L’ufficiale lo interruppe rabbiosamente, proclamando “Errore o non errore, ora siete qui e state in piedi. Non mi frega niente se siete naufraghi, ora andate a combattere come gli altri!”, così provocando l’arrabbiata risposta di Saravalle, che lo interruppe dicendo “Già! Perché finora siamo stati a puttane per mare! Ti fregava ’na gott, anche quando ti abbuffavi il trippone con le michette che ti si portava dall’Italia, coglione!”. Il maggiore andò su tutte le furie; afferrò Saravalle per il petto e gridò al maresciallo di metterlo al muro, ma il marinaio si liberò con uno strattone, ed i suoi compagni circondarono l’ufficiale, iniziando a gridare e spintonarlo. Il maresciallo si mise prudenzialmente in disparte; il maggiore cercò vanamente di mettere mano alla fondina, poi, vedendo che nessuno era intenzionato ad aiutarlo, si liberò con uno strattone e scappò dentro l’ospedale. Poi, approfittando della confusione, soldati e marinai fuggirono attraverso il cancello carraio aperto, lasciando il sergente maggiore, sbigottito dalla rapidità con cui tutto si era svolto, solo in mezzo al giardino.
I dieci marinai della Tifone continuarono a correre finché giunsero nella periferia orientale di Tunisi, sulla strada per Korbus; ora bisognava ricongiungersi col resto dell’equipaggio. Gli autocarri che passavano, perlopiù tedeschi, erano diretti a Capo Bon dove si preparava l’estrema resistenza, e non si degnavano nemmeno di ascoltare le loro richieste; alla fine dovettero mettersi in mezzo alla strada per bloccare il primo autocarro italiano di passaggio. Ne arrivò uno con a bordo un maresciallo della Sussitenza, che, spiegandogli la loro situazione, persuasero a dar loro un passaggio per un tratto della strada che portava a Korbus.
Dopo aver superato indenne alcuni mitragliamenti, il camion li lasciò ad un bivio; riforniti di sigarette e minestrone in scatola, che avevano convinto il maresciallo a regalare loro, si misero in cammino verso Korbus, distante ancora dieci chilometri. Svariate volte dovettero gettarsi al riparo nel cunicolo che correva a fianco della strada, quando i caccia angloamericani scendevano a mitragliare i mezzi cingolati tedeschi che passavano sulla strada. Poco prima di arrivare a Korbus mangiarono il minestrone e divisero le sigarette; un soldato tedesco, dopo aver loro quasi sparato addosso perché avevano gettato un barattolo vuoto sotto la ruota del suo camion mentre passava – fu fermato da un altro mitragliamento, che indusse tutti a mettersi indistintamente al riparo nel cunicolo e permise quindi di chiarire l’equivoco – regalò loro una bottiglia di birra. Approssimandosi all’insenatura dove ancora si stagliava la Tifone sbandata e galleggiante a stento, la videro venire bombardata ancora una volta. Ormai non c’era più nessuno a bordo; la loro nave era un bersaglio immobile e inerme.

Gli altri superstiti, raccolti sotto gli ulivi, non sembrarono particolarmente interessati al loro arrivo. Regnava un’atmosfera di sconforto generale; tutti guardavano apatici il mare e quel che restava della loro nave. Seppero poi che era stato infine deciso all’unanimità, poco dopo mezzogiorno (mentre loro erano assenti), di autoaffondare la Tifone quella notte, dato che Tunisi era caduta e non sarebbero giunti mezzi di rimorchio. Su come farlo, il capo silurista aveva proposto di asportare le testate dei siluri e farle esplodere in sala macchina, mentre il sergente Stagni aveva suggerito di usare le bombe di profondità, ma non c’erano mezzi per farlo: fu lasciato agli artificieri di trovare il modo.
Chi si interessò al loro arrivo, quando li trovarono, furono il comandante Baccarini ed i suoi ufficiali, preoccupati dall’assenza dei dieci, che erano scomparsi dopo l’abbandono della nave. Ferrari fece rapporto al comandante, descrivendogli tutto quel ch’era successo, poi gli offrì alcune delle sigarette, mentre le altre furono distribuite ai presenti.
L’aspirante guardiamarina Elio De Melchiorre era stato incaricato del comando della sezione artificieri, per l’autoaffondamento; una seconda squadra di artificieri era pronta in riserva, mentre un’altra comandata, al comando del guardiamarina Marcello Martella, avrebbe recuperato le salme dei caduti per dare loro degna sepoltura.
I feriti della Tifone, curati dall’infermiere Manini e da personale medico tedesco, erano stati ricoverati nelle tende dell’ospedaletto da campo tedesco stabilito subito fuori dall’abitato di Korbus. Qui Ferrari e Saravalle ritrovarono Muscariello, adagiato su una brandina e completamente bendato dall’inguine in giù dopo l’asportazione di innumerevoli schegge dall’inguine alla coscia; aveva la febbre e rischiava un’infezione, ma il medico tedesco li rassicurò spiegando che non era grave e sarebbe presto guarito.
Per cena l’equipaggio della Tifone fu ospitato dalla compagnia bersaglieri che aveva preso posizione in un punto più elevato rispetto a quello in cui si erano accampati i naufraghi; il pasto, consumato fraternamente, consisteva in fave piene di vermi e formaggini “Vincere”.

La “comandata onoranze” del guardiamarina Martella, dopo aver legato insieme delle tavole che sarebbero servite a trasportare i morti, partì per prima poco prima del buio; poi, silenziosa e cupa («Chi affonderebbe il pugnale sul seno che lo ha svezzato?»), la “comandata artificieri” del giovane aspirante De Melchiorre. Il capitano dei bersaglieri aveva fornito loro un ingombrante ordigno che, piazzato in fondo allo scafo, al centro della sentina, sarebbe dovuto bastare ad affondare la nave.
La “comandata onoranze” rientrò alle 22.20 del 7 maggio, rimorchiando la zattera che recava i sei cadaveri; prima di lasciare la nave avevano prelevato anche viveri, coperte e sigarette per l’equipaggio, che era sistemato all’aperto e privo di tutto. I corpi furono composti sotto alcuni olivi più discosti.
Poi tornò anche la “comandata artificieri” di De Melchiorre, che disse al comandante Baccarini che le cariche esplosive sarebbero esplose entro pochi minuti.
Gli uomini della Tifone, radunati sul bordo della strada, guardarono la loro nave nei suoi ultimi minuti di vita. Infine le cariche esplosero. Un lampo accecante nella notte, poi altri, seguiti da un lungo tuono e infine dal fumo. La Tifone si rovesciò sul lato sinistro e si adagiò sui bassi fondali dinanzi a Korbus. Dalle acque rimase affiorante parte del suo lato di dritta, ma nella notte non si vide più nulla.
Ufficiali e marinai si misero sull’attenti e salutarono militarmente la loro nave che affondava, restando poi lungamente in silenzio. Per dirla come Alberto Ferrari: «Addio Tifone! Addio Taj-Fun, vento del diavolo, riposa in pace! Addio! Non ti rivedremo mai più! Addio, con l’orgoglio di esserti appartenuto. Onore a te che hai fatto il tuo dovere fino alla meta cui eri destinato! Tu fosti l’ultima torpediniera per Tunisi!».
Il silenzio fu infine rotto da una voce sconosciuta e commossa, che gridò nella notte: “Regia Nave Tifone. Hip, hip, hip, urrà!” cui tutti i naufraghi risposero con un unico, tonante “Urrà!”; la compagnia bersaglieri, schieratasi accanto ai marinai, sparò in aria salve di moschetto, il nostromo Italo Marzocchi fischiò «Quattro alla banda» (rendere gli onori), persino alcuni soldati tedeschi si commossero e spararono in aria coi loro mitra.
Finì così l’“ultima torpediniera per Tunisi”.
L’equipaggio senza più nave vegliò sino all’alba. 

Il relitto della Tifone in una rara foto a colori, forse scattata da qualche soldato statunitense nei giorni successivi alla caduta della Tunisia (g.c. STORIA militare)

Dal 7 al 9 maggio gli uomini della Tifone attesero la loro sorte sulla spiaggia di Korbus. Scavarono nella terra arida le tombe dei loro morti e li seppellirono; il comandante Baccarini recitò una preghiera. La bandiera della torpediniera venne divisa in pezzi, ognuno dei quali fu posto accanto ad un caduto. Sulle tombe furono piantate delle rozze croci realizzate dai tedeschi: per tutti grado, cognome, nome, città e «nave Tifone». Un plotone pronto a vegliare la loro nave per l’eternità.

Poi riprese l’attesa. La resa delle residue forze italo-tedesche in Tunisia era questione di giorni: le ultime forze tedesche avrebbero ceduto le armi il 12 maggio 1943, quelle italiane il giorno seguente. Il mare e il cielo erano saldamente in mano agli angloamericani: nessuna nave sarebbe giunta a evacuare i 250.000 soldati dell’Asse che restavano in terra africana, l’unica prospettiva all’orizzonte era la prigionia.
In questa massa di uomini destinati alla cattura c’era anche l’equipaggio della Tifone. Ai marinai della torpediniera, così come ai bersaglieri che li ospitavano, l’idea di finire prigionieri non andava minimamente a genio, e il tanto tempo vuoto a disposizione venne impiegato per escogitare i più diversi piani di fuga, nonostante i disillusi ammonimenti del comandante e di qualche sottufficiale anziano a non fare pazzie.
Qualcuno ipotizzava di rimettere qualche relitto in condizione di navigare e tentare di raggiungere Pantelleria o persino la Sardegna; altri si proponevano di nascondersi nella boscaglia, attendere l’arrivo degli Alleati e poi rubare loro una motosilurante.
Un sergente dei bersaglieri trovò i relitti di due motozattere in un’insenatura a circa due chilometri dall’accampamento, in direzione di Capo Bon; i marinai della Tifone valutarono la possibilità di cannibalizzarne una per riparare l’altra, ma non c’era niente da fare: ambedue erano rottami inutilizzabili.
Il tempo passava sempre uguale: cena e ospitalità fraterna dai bersaglieri, fave con vermi; per bere c’era il ruscello; notte all’addiaccio sotto gli ulivi. All’infuori di qualche coperta e telo da tenda forniti dai bersaglieri, i naufraghi non avevano con sé altro che ciò che indossavano al momento di abbandonare la nave. Passavano il loro tempo vagando lungo la spiaggia, cercando chissà cosa tra i rottami della Tifone che il mare portava a riva. Si avvicinarono alla riva anche cinque o sei grossi topi che stentavano a toccare terra: ogni volta la risacca li rimandava indietro. Qualcuno propose di ucciderli a legnate, ma un fuochista pregò di lasciarli vivere: erano topi della loro nave, il loro “secondo equipaggio”; uno lo conosceva personalmente, lo chiamava “figlio di puttana”. Nemmeno loro erano scampati indenni alla battaglia: uno era vistosamente ustionato sulla schiena. Alla fine i roditori, anziché essere ammazzati, furono aiutati a giungere a riva; si riposarono per qualche minuto, poi scomparvero tra la sterpaglia squittendo. I naufraghi lo presero come un ultimo saluto dal loro secondo equipaggio, che andava finalmente in licenza dopo aver condiviso la loro vitaccia.
Quando i cacciabombardieri statunitensi tornarono per colpire ancora la Tifone il mattino dell’8 maggio, e la trovarono già affondata, decisero di scaricare le loro mitragliere sull’equipaggio accampato a terra. Marinai e bersaglieri dovettero ripararsi dietro le cunette; nessuno fu colpito.

La salvezza venne il mattino del 9 maggio, sotto forma della nave ospedale Virgilio: le vedette appostate sulla riva – anche a terra si erano organizzati regolari turni di vedetta come a bordo – la videro mentre dirigeva su Tunisi, già caduta in mano nemica, per poi mettersi ad incrociare al largo. Oltre ai naufraghi della Tifone c’erano diversi ospedaletti da campo lungo la costa; la Virgilio comunicò di prepararsi per l’evacuazione di feriti e naufraghi, avendo ottenuto permesso di approdo dalle 14 con partenza prevista alle 18, e precisò che non avrebbe imbarcato personale operativo, sottolineando che un’ispezione alleata era sicura.
A terra, il capo segnalatore della Tifone rispose con lo specchietto; il capo cannoniere Sartoris andò a recuperare razzi e pistola per segnalazioni.
Naufraghi e bersaglieri allestirono un pontile per le lance della nave ospedale; questa, nonostante il suo status, era stata attaccata da aerei già due volte, il 4 ed il 7 maggio, e qualcuno della Tifone propose d’imbarcare di nascosto la mitragliera contraerea da 20 mm dei bersaglieri per fare una sorpresa ad eventuali nuovi attaccanti, ma la proposta rimase lettera morta. La 20 mm rimase comunque in postazione a terra durante l’imbarco, pronta al fuoco contro i tanti aerei che solcavano il cielo, se a qualcuno fosse venuto in mente d’attaccare.
La Virgilio entrò in rada come previsto alle 14, ed ebbe inizio l’imbarco: dapprima i feriti gravi, tedeschi e italiani dell’Esercito e della Marina; poi il resto dell’equipaggio della Tifone, anche gli illesi, in qualità di naufraghi. Salirono con loro anche parecchi bersaglieri: travestiti con resti di divise dei marinai, e da questi ultimi qualificati come fuochisti, nocchieri e cannonieri, con l’avallo del comandante in seconda Fiani, che ne dichiarò l’appartenenza all’equipaggio.
Il direttore sanitario della Virgilio si congratulò ironicamente col comandante Baccarini, dicendo che pensava comandasse una torpediniera ma vedeva che doveva essere piuttosto una corazzata, dato l’equipaggio, e chiedendo se non avesse dimenticato nessuno a terra. Baccarini sospirò che avrebbe voluto che fossero tutti a bordo, alludendo ai caduti che mai avrebbero lasciato la Tunisia.
Alle 16 sopraggiunsero le prime jeeps e i carri leggeri con le avanguardie statunitensi, ma si misero in sosta dietro la curva della strada, lasciando che le operazioni d’imbarco avessero termine.

Alle 18.30 l’imbarco era completato, e la Virgilio riprese il mare.
Ai marinai della Tifone, dopo mesi di privazioni, la nave ospedale, con i suoi saloni lussuosi – ricordo dei tempi da transatlantico –, i lettini candidi e puliti, le crocerossine con un sorriso radioso, parve un paradiso. Le infermiere accompagnarono ciascuno al lettino assegnato, fecero spogliare tutti e consegnarono ad ognuno un pigiama. Per cena brodino: dopo giorni di fave coi vermi un pasto così poco sostanzioso destò un certo malcontento, e alla fine il comandante Baccarini riuscì ad accordarsi con il medico di bordo per far dare ai suoi uomini qualcosa di meglio: mezza razione di maccheroni al sugo (cioè il doppio di quel che mangiavano di solito), spezzatino con purè e anche vino. Poi a letto.
Alle due di notte i marinai della Tifone si svegliarono, accorgendosi che le macchine erano ferme. I bersaglieri, incapaci di percepire la differenza, continuarono invece a dormire. Guardando fuori da un oblò, i naufraghi videro la ragione: a dritta c’era un cacciatorpediniere britannico. Era il Paladin, vecchia conoscenza del Canale, affondatore della Cigno e della Perseo. Sul lato opposto ce n’era un altro.
L’arrivo dei cacciatorpediniere allarmò parecchio i “degenti”, ma sopraggiunse il comandante in seconda Fiani, che spiegò trattarsi di un normale controllo e raccomandò a tutti di restare a letto e, qualora avessero cercato di portarli via, di “fare la faccia di quando marcate visita”. Poi giunse anche l’ordine di distruggere ogni documento o nota che riguardasse l’attività della Tifone ed ogni altro oggetto che potesse essere utile al nemico.
I due cacciatorpediniere britannici scortarono la Virgilio fino a Tunisi; qui la nave diede fondo e salì a bordo una squadra d’ispezione del Paladin: un tenente di vascello, un ufficiale medico e quattro marinai armati di mitra. Ispezionarono la nave e passarono tra le file di letti per quella che pareva una formalità; quando però si sentì che, parlando tra di loro in inglese, qualcuno aveva detto “the bastards” riferendosi a loro, si scatenò un battibecco e i marinai britannici parvero caricare il mitra. Fu il direttore sanitario della Virgilio a fare da paciere, ricordando loro che non era da “gentlemen” insultare dei “colleghi” che avevano combattuto lealmente e coraggiosamente contro la Marina più forte del mondo, tenendole testa per mesi. Tutto andò per il meglio; i due ufficiali britannici sorrisero e salutarono, per poi accomiatarsi con un “salve marinai, buona fortuna” in italiano.

Alle 14 del 10 maggio, la Virgilio riprese la navigazione. Nel suo ultimo viaggio da Tunisi a Napoli passò al largo delle tante località che gli uomini della Tifone avevano visto nei mesi di guerra con la loro nave: Zembra, Zembretta, Capo Bon, Ras Mustafà, Capo Zebib. La giornata fu passata all’aperto, tra una ritrovata allegria e la nostalgia di quando solcavano quelle acque sulla loro nave.
“Capocannone” (Sartoris) e la sergentessa delle crocerossine, sua degna equivalente in severità e disciplina, vigilavano per sventare i tentativi di “contatto” attuati dai marinai nei confronti delle crocerossine.
Ferrari, Brizio e Saravalle ritrovarono Muscariello, ora in via di guarigione.
Nell’ultimo tratto la Virgilio incrociò un cacciatorpediniere senza più nulla da scortare, e più avanti due torpediniere – una sembrava la Fortunale – che scortavano una cisterna per acqua, non più sulla rotta per sud-sudovest.
Quando la Virgilio giunse a Napoli, gli altoparlanti ordinarono “Equipaggio al posto di manovra per attraccare”, rivolti all’equipaggio della nave ospedale, ma anche gli uomini della Tifone si atteggiarono istintivamente ad andare ai propri posti, prima di accorgersene e fermarsi. Osservarono invece la manovra, che il nostromo Marzocchi non valutò bene: le undicimila tonnellate della Virgilio non consentivano la manovrabilità della Tifone. Poi gli altoparlanti annunciarono “Equipaggio del Tifone prepararsi per scendere a terra. Mettersi in riga di fronte alla nave per l’appello”. Fu l’ultima volta che sentirono il nome della loro nave. Era il 12 maggio 1943: l’allegria se n’era andata, sostituita dal rimpianto. I marinai della Tifone si sentivano estranei senza fissa dimora ora che non avevano più la loro nave; nei giorni seguenti avrebbero rimpianto le vecchie divise ammuffite quando, ricevute nuove uniformi fresche di naftalina, le avrebbero trovate anonime, il berretto senza nastro – furono loro ad applicarvi il nastro “Siluranti” gelosamente conservato sui loro cappelli che avevano portato con sé –, il tesserino senza il nome di una nave.
Allo sbarco dalla Virgilio, il comandante Baccarini ringraziò i suoi uomini per la lealtà e l’abnegazione dimostrata, aggiungendo che sperava di averli ancora con sé; poi s’interruppe e corse via per non piangere dalla commozione.

Su un equipaggio composto da 10 ufficiali, 20 sottufficiali e 143 tra sottocapi e marinai, non risposero all’appello, allo sbarco a Napoli, 2 ufficiali, 13 sottufficiali e 36 tra sottocapi e marinai: sei di essi, due sottufficiali e quattro marinai, erano morti (il volume dell’USMM sulla difesa del traffico con l’A. S. parla però di dieci tra morti e dispersi, invece che di sei); altri erano feriti gravemente o mutilati, mentre in 29, non rintracciati il mattino dell’8 maggio, erano rimasti in Tunisia ed erano caduti prigionieri.
I superstiti, mandati al deposito CREM, furono dispersi tra nuove assegnazioni a bordo o a terra dopo un periodo di licenza. Cinquecento lire erano il risarcimento di quanto avevano perso, l’indennità di naufragio.
Restava l’amarezza di aver perduto la nave e i compagni. La guerra, lungi dal finire, si avviava al suo periodo più crudele.

Valga per la Tifone l’epitaffio scritto, ancora una volta, da Alberto Ferrari: «Infine che cos’era? Una piccola torpediniera di scorta, una delle tante, la cui vita e morte resteranno per sempre chiuse ed ammuffite negli archivi dell’Ufficio Storico della Marina. La storia non gli dedicherà alcun cenno. Forse una riga: “Operò nel canale di Sicilia alla scorta dei convogli per l’Africa. Ecco cosa sarai per i posteri, mio caro Tifone: sarai soltanto “uno che operò…” E loro non sapranno mai quanto eri bello, forte, generoso! Non conoscerà nessuno l’ebbrezza dei tuoi 16.000 cavalli scatenati sul mare, quando evoluivi, elegantissimo, ad alta velocità attorno ai piroscafi che scortavi. Soltanto noi ci ricorderemo di te, di quant’eri sozzo, al pari dei tuoi marinai schiantati dalla fatica, ambedue puzzolenti di nafta. Nei porti sembravi un cane randagio che al posto dell’osso arraffavi un po’ di nafta e di munizioni; e via di nuovo a scorrazzare, per azzuffarti ferocemente contro il tuo nemico mortale del canale e contro gli “avvoltoi” del cielo! Noi volevamo ripulirti, lucidarti, ma non avevamo riviste navali in cui esibirti. Soltanto una rotta avevamo per te: “la rotta della morte”».


I caduti della Tifone, ultime vittime della battaglia dei convogli:

Arturo Basigli, fuochista, 21 anni, da Ravenna

Michele Bianchi, sergente cannoniere puntatore mitragliere, 19 anni, da Ramiseto

Raoul Gerli, cannoniere, 20 anni, da Firenze

Felice Ghezzi, sottocapo radiotelegrafista, 19 anni, da Genova

Primo Leonardi, cannoniere puntatore mitragliere, 21 anni, da Seravezza

Catello Nostrini, sergente cannoniere puntatore mitragliere, 23 anni, da Verona


La Tifone dopo il varo (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)

8 commenti:

  1. Mio padre Sano Gino (1921-1991), mi raccontava che era in Sala Radio quando il Ghezzi fu "falciato" all'addome da una scheggia, durante l'attacco aereo. Mio padre fu fatto prigioniero e dopo l'Africa finì la prigionia in Inghilterra. Sano Gianfranco-sanogianfranco@libero.it

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  2. Salve Lorenzo. A me risulta che della II sq. Tempeste anziché la Monsone, vi fosse la Groppo...

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  3. Bgiorno. Un'altra cosa. A me risulta che il TV Bertone si chiamasse Romualdo (nato il 1 agosto 1907), non Luigi e, questi, aveva gia' comandato la Sirio...

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  4. Salve Lorenzo, finalmente ho scoperto l'arcano... Il primo com.te della Tifone era il TV Luigi Bortone (nato il 19 luglio 1911)... Giovanni Pinna.

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  5. Bgiorno Lorenzo. Anche il CC Baccarini fu molto sfortunato. Rimpatriato nel maggio 1943, assunse il comando di una compagnia di fanti di marina a Pola, reparto del reggimento “San Marco”. Rimase al suo posto all'8 settembre. Fu, con la X MAS, al comando della compagnia “Nazario Sauro”. Soldato di assoluta onestà, credette nel patto sottoscritto con il Comitato di liberazione di Pola; fu tratto in arresto il 3 maggio 1945, deportato a Cocevie, torturato con ferocia e legato con filo di ferro, riuscì a scappare ma fu catturato e imprigionato entro una cisterna per mesi e mesi, quasi impazzì, perdette i denti, i capelli, fu ridotto ad una larva umana. Il 1° novembre 1949, dopo 4 anni e mezzo di prigionia dura, venne consegnato, alla frontiera, vicino a Gorizia, a due agenti dei servizi segreti italiani. Dopo molte sofferenze, decedeva, prematuramente, a Firenze il 7 ottobre 1966, a soli 56 anni, senza essersi mai più ripreso.

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    1. Grazie. Ricordo di aver letto questa storia anni fa, quando avevo fatto delle ricerche sugli avvenimenti in Venezia Giulia nel 1945; all'epoca non conoscevo ancora in dettaglio la storia della Tifone e quando poi l'ho letta anni dopo, non avevo riconosciuto il nome del comandante Baccarini.

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