sabato 31 ottobre 2015

Traviata

Il Traviata a Genova (g.c. Pietro Berti via www.naviearmatori.net

Piroscafo da carico da 5123 tsl e 3171 tsn, lungo 125,9 metri, largo 15,9 e pescante 8,8. Appartenente alla Società Anonima Industria Navale (INSA) con sede a Genova, matricola 1796 al Compartimento Marittimo di Genova.

Breve e parziale cronologia.

22 gennaio 1920
Varato come Bolivier nello scalo South Dock del cantiere Bartram & Sons Limited di Sunderland (numero di costruzione 250). Si tratta di una nave da carico standard del tipo “B”.
31 marzo 1920
Completato per il per il Lloyd Royal Belge di Anversa. Stazza lorda originaria 5045 o 4953 tsl.
1930
Trasferito alla Compagnie Maritime Belge S. A. di Anversa.
19 settembre 1932
Acquistato dalle Industrie Navali Società Anonima (INSA) di Genova, e ribattezzato Traviata.
Febbraio 1937
Durante la guerra civile spagnola, compie un viaggio per conto delle Ferrovie dello Stato, trasportando truppe e materiali del Corpo Truppe Volontarie. La nave (come altri trenta piroscafi), non essendovi grande disponibilità di mercantili noleggiabili per trasportare rifornimenti, effettua il trasporto in Spagna nel corso di un viaggio di andata, altrimenti scarica, verso l’Europa settentrionale: parte dall’Italia, scarica i rifornimenti in Spagna e prosegue in zavorra sino in Nordeuropa, dove imbarca carbone per conto dell’Azienda Monopolio Carboni. Per il viaggio sino in Spagna, vengono imbarcati alcuni uomini della Regia Marina per mantenere le comunicazioni e compiere le segnalazioni, ed il comando della nave viene assunto da un ufficiale di Marina; i piroscafi compiono il viaggio da soli od a coppie, con la scorta di incrociatori leggeri o cacciatorpediniere della II Squadra sino al meridiano di Malaga od allo stretto di Gibilterra, poi di navi da guerra del gruppo «Quarto» (esploratori Quarto ed Aquila, torpediniera Audace) basate a Tangeri, che vigilano sulle rotte di accesso a Cadice.
13 settembre 1939
Il Traviata s’imbatte in una lancia con dodici superstiti (al comando del terzo ufficiale) del piroscafo britannico Manaar, affondato una settimana prima dal sommergibile tedesco U 38 nel punto 38°28’ N e 10°50’ O, e ne recupera gli occupanti, che sbarca a Cardiff.

L’affondamento

Il Traviata fu uno degli otto mercantili italiani che andarono perduti tra il settembre 1939 ed il maggio 1940, quando l’Europa era già in guerra ma l’Italia era ancora neutrale.
Nel gennaio 1940 il piroscafo, al comando del capitano Carmelo Midolo, era in navigazione in zavorra da Bagnoli a Newcastle per caricare carbone, scopo per il quale era stato noleggiato dalle Ferrovie dello Stato. Per evitare i pericoli della navigazione notturna, il comandante Midolo, la sera del 10 gennaio, fece dare fondo in una piccola baia della costa britannica, che offrì riparo per la notte. Era ormai divenuto noto, tra i marittimi di tutto il mondo, il grave pericolo rappresentato dalle mine magnetiche posate dalle navi da guerra tedesche lungo le coste orientali della Gran Bretagna: su di esse erano già saltate navi di ogni nazionalità, tra cui le italiane Grazia e Comitas. L’ammiragliato britannico aveva raccomandato una rotta (nella fascia compresa tra la costa ed i campi minati difensivi che la stessa Marina britannica aveva posato per impedire ulteriori incursioni di U-Boote e posamine tedeschi nelle acque costiere) che si riteneva relativamente sicura dalle mine; il capitano Midolo intendeva individuarla il giorno seguente, con la luce del sole.
Dopo la sosta notturna, il Traviata ripartì all’alba dell’11 gennaio 1940, con rotta sud; a bordo, per la navigazione in quelle acque difficili, vi era un pilota inglese in aggiunta ai 29 uomini dell’equipaggio.
Per qualche ora la navigazione proseguì tranquilla, ma alle 10.20 esatte il piroscafo, poche miglia al largo di Cromer, fu scosso da una violentissima esplosione, che sollevò la nave dal mare e ne squassò la prua: la nave aveva urtato una mina tra le stive 1 e 2. La violenza dello scoppio lanciò in aria diversi uomini, tra cui il pilota britannico, che rimase ferito; si ruppe una tubatura del vapore e dalla falla l’acqua iniziò a riversarsi, oltre che nelle stive prodiere, anche in sala macchine. A seguito dell’esplosione si sviluppò anche in incendio, che avvolse il Traviata a centro nave. Il direttore di macchina tentò in ogni modo di fermare le macchine ed arrestare l’emissione del vapore, ma dovette infine abbandonare la sala macchine con i suoi uomini, per ordine del comandante Midolo, per non morire soffocato. Fortunatamente, le macchine si arrestarono da sole poco più tardi.
Lo scossone era stato tanto violento da mettere fuori uso anche l’apparato radiotelegrafico: il bastimento in agonia, pertanto, era impossibilitato anche a chiedere aiuto. Non restava che aspettare e sperare.
Per fortuna dell’equipaggio del Traviata, si trovava a passare a sole tre miglia di distanza un altro piroscafo italiano: il Marte, anch’esso in navigazione a noleggio delle Ferrovie dello Stato per caricare carbone. Questi, notata la situazione di pericolo in cui versava la nave connazionale, le si diresse incontro, e avvertì via radio le autorità britanniche.
Al contempo anche gli abitanti di Cromer si erano accorti dell’accaduto: il boato dell’esplosione era stato avvertito fino a terra, e la gente del posto, affollatasi sulla riva, aveva messo a mare una motobarca da salvataggio (la «Cromer Lifeboat Number 1»), che aveva già avuto modo di effettuare innumerevoli interventi del genere: due nei due giorni precedenti, 150 naufraghi in tutto salvati dall’inizio della guerra.
L’equipaggio del Traviata, divenuti incontrollabili l’allagamento causato dalla falla e l’incendio a bordo, abbandonò la nave su una lancia, i cui occupanti furono presi a bordo dal Marte. La motobarca di Cromer, giunta sul posto alle 16, imbarcò poi una dozzina dei naufraghi. Il Marte tentò di arginare le fiamme sul Traviata mediante getti di acqua, ma ciò non bastò a fermare l’incendio. Mentre anche i restanti naufraghi venivano trasbordati dal Marte sulla motobarca di Cromer, i marittimi italiani furono spettatori di un altro episodio di guerra: un velivolo tedesco Heinkel (che in precedenza aveva sorvolato anche il Traviata, tanto da attirarsi cenni di saluto da parte del suo equipaggio, che lo aveva scambiato per un aereo di soccorso britannico), prima di essere messo in fuga da tre caccia della RAF, attaccò, mitragliò e bombardò (ma le quattro bombe sganciate non colpirono) il piropeschereccio Holyrood a circa un miglio di distanza, ferendone il comandante. La motobarca che aveva imbarcato l’equipaggio del Traviata, pertanto, diresse incontro al peschereccio danneggiato e lo prese a rimorchio; così, carica di superstiti italiani e rimorchiando l’Holyrood, la motobarca fece ritorno a Cromer. Dopo forse cinque ore di agonia, calata già l’oscurità, il Traviata scivolò sotto le onde: il suo equipaggio, da bordo della motobarca britannica, vide da lontano il punto rosso dell’incendio, che balenava all’orizzonte, sparire definitivamente nel buio. La posizione dell’affondamento venne indicata in otto miglia per 135° da (a sudest di) Cromer Knoll.

Dopo aver assistito alla scomparsa del Traviata da bordo dei mezzi soccorritrici,
Non vi furono vittime tra i 29 uomini dell’equipaggio del Traviata; l’unico ferito, con poco più che delle contusioni, fu il fuochista Pasquale Lena, oltre al pilota britannico, anch’egli ferito sono in modo leggero.

L’equipaggio del Traviata, giunto a terra a Cromer, venne dapprima assistito da un’associazione britannica per l’assistenza ai naufraghi e poi ospitato al «Circolo del Littorio» del Fascio di Londra. Da qui i marittimi del Traviata, meno Pasquale Lena, che rimase ricoverato a Londra per qualche settimana per le ferite riportate ad un piede, ripartirono alle 19 del 17 gennaio, attraversando di nuovo (con un rischioso viaggio notturno durato otto ore) le acque della Manica che avevano appena inghiottito la loro nave, poi salendo a Le Havre sul treno per Parigi, dove arrivarono alle 15 del 18 per poi ripartire in serata diretti a Modane. L’equipaggio del piroscafo arrivò finalmente a Torino, nella stazione di Porta Nuova, alle 14.20 del 19 gennaio, accolto (oltre che da sorella e nipotino del comandante Midolo) dal capitano Mario Questa, ispettore dell’INSA mandato appositamente da Genova, che aveva già provveduto a far apparecchiare per gli affamati marittimi i tavoli del ristorante della stazione. Verso le 17 l’equipaggio del Traviata lasciò Torino per rientrare a Genova, ultima tappa del suo viaggio, dove arrivò (nella stazione Principe) la sera del 20 gennaio, ricevuto dal direttore della INSA, dal capo della Delegazione della Gente di Mare, da rappresentanti della Federazione Marinara e dalle famiglie dei marittimi. L’avventura degli uomini del Traviata fu conclusa dall’interrogatorio di rito da parte della Capitaneria di Genova, espletata il 21 gennaio.

Le mine che avevano affondato il Traviata erano state posate dai cacciatorpediniere tedeschi Bruno Heinemann, Wolfgang Zenker ed Erich Koellner, della 4. Flottille (capitano di vascello Bey), nella notte tra il 10 e l’11 gennaio 1940.

Il relitto del Traviata giace oggi ad una profondità compresa tra i 16,9 ed i 20 metri.

L’equipaggio del Traviata appena giunto a Genova (Archivio La Stampa)



martedì 27 ottobre 2015

Ammiraglio Saint Bon

Il Saint Bon durante l’allestimento a Monfalcone (da “I sommergibili corsari della Regia Marina”, articolo di Mario Cecon sulla Rivista Italiana di Difesa n.5 del maggio 1997, via www.betasom.it

Sommergibile oceanico capoclasse della classe Ammiragli (dislocamento di 1702 t in superficie e 2184 in immersione), detta infatti anche classe Saint Bon: i più grandi sommergibili italiani mai costruiti, dopo quelli da trasporto della classe “R”. Unità a scafo semplice (tipo “Bernardis”) con doppi fonti centrali resistenti controcarene esterne, dimostrarono eccellente tenuta al mare ed abitabilità (grazie alle notevoli dimensioni), e relativamente buona manovrabilità. Per il loro previsto impiego in prolungate missioni oceaniche, si incrementò il numero dei tubi lanciasiluri (ben 8 a prua e 6 a poppa) e dei siluri di riserva, diminuendone il calibro dagli usuali 533 mm ai 450 mm ritenuti sufficienti per l’affondamento di navi mercantili (ma con una testata potenziata: 200 kg in luogo dei 110 dei siluri classici da 450 mm); ciò permise di imbarcare ben 38 siluri (un primato rimasto imbattuto nel campo dei sommergibili convenzionali), che potevano essere spostati da prua a poppa e viceversa mediante un’apposita ferroguida sita sul cielo dei locali (che consentiva anche di ruotarli nella camera di lancio prodiera).
L’autonomia in superficie, per potersi spingere fin nell’Oceano Indiano, era di 19.500 miglia a 7 nodi (il quadruplo di quella delle corazzate classe Littorio alla medesima velocità); potevano passare cinque-sei mesi in mare senza doversi rifornire. Oltre ai due motori diesel di propulsione, ve n’era un terzo appositamente riservato alla ricarica delle batterie. Un ulteriore pregio era l’impiego, negli impianti di condizionamento dell’aria, dell’innocuo freon, a differenza del pericoloso cloruro di metile che aveva mietuto tante vittime tra i sommergibilisti italiani.
Furono i primi sommergibili italiani nella cui costruzione la chiodatura venne completamente abbandonata in favore della saldatura elettrica.
 
Fasi iniziali della costruzione (da “Sommergibili italiani” di Alessandro Turrini ed Ottorino Ottone Miozzi, USMM, Roma 1999)
Concepito per condurre la guerra al traffico mercantile isolato in mari lontanissimi, le sue grandi dimensioni, le circostanze della guerra al tempo dell’entrata in servizio e la scarsa lungimiranza dei comandi superiori (specie di quelli tedeschi di Roma, che insistettero particolarmente perché i sommergibili più grandi venissero impiegati in missioni di trasporto per l’Afrika Korps) condannarono il Saint Bon all’improvvisato ruolo di trasporto di rifornimenti per la Libia (soprattutto benzina in latte), nel quale avrebbe drammaticamente concluso la sua breve esistenza.
Svolse in guerra cinque missioni di trasporto ed altrettante di rifornimento, percorrendo in tutto 6927 miglia in superficie e 354 in immersione. Il carico complessivamente trasportato: 695,5 tonnellate di carburante e lubrificante e 16,7 tonnellate di munizioni, meno di quanto un piccolo mercantile avrebbe potuto trasportare in un solo viaggio.

Breve e parziale cronologia.

16 settembre 1939
Impostazione nei Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Monfalcone (numero di costruzione 1219).
6 giugno 1940
Varo nei Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Monfalcone.


 Sopra, durante la costruzione nel 1939-1940 (g.c. Marcello Risolo); sotto, appena varato (da www.grupsom.com)



1° marzo 1941
Entrata in servizio formale. In realtà ci vorranno altri tre mesi, a causa dei lavori di modifica (in particolare della torretta, sostituita con una ben più contenuta modellata su quelle dei sommergibili tedeschi) subiti nell’ultima fase della costruzione e della prolungata fase di collaudo e prove in mare (essendo il sommergibile il primo del suo tipo), prima che il battello divenga effettivamente operativo: ciò accadrà solo il 12 giugno 1941.

Il Saint Bon nel 1941, probabilmente nel periodo trascorso tra la riduzione della torretta originaria e la realizzazione di quella nuova (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net

Giugno-ottobre 1941
Periodo di iniziale intenso addestramento dell’equipaggio. Assegnato al II Gruppo Sommergibili di Napoli, dove però non avrà mai base stabile.
10 ottobre 1941
Il Saint Bon (al comando del capitano di corvetta Gustavo Miniero) salpa da Taranto alle 13.30 per trasportare a Bardia 131,2 tonnellate di benzina (contenuta in 7346 latte) e 9 tonnellate di gasolio pure in latte, cominciando così la sua prima missione di guerra.
12 ottobre 1941
Durante la notte viene attaccato da un aereo a circa 100 miglia da Bardia, mentre procede in superficie, con bombardamento e mitragliamento, ma apre il fuoco con le mitragliere, colpendolo e costringendolo a ritirarsi danneggiato.
13 ottobre 1941
Giunge a Bardia alle 18.25 e mette a terra il carico durante la notte. Lo scarico è effettuato da 40 soldati tedeschi, i quali tuttavia a mezzanotte, nell’imminenza del sorgere della luna, interrompono il lavoro perché ritengano che il porto stia probabilmente per essere oggetto di un attacco aereo; l’equipaggio del Saint Bon deve così completare in maniera improvvisata la discarica, buttando in acqua le lattine ancora presenti a bordo, per poi informare un ufficiale della Regia Marina in modo che ne sia disposto il recupero.
14 ottobre 1941
Il sommergibile riparte da Bardia per Taranto alle 00.18.
Più tardi viene attaccato con una bomba da un velivolo, 75 miglia a nordovest di Creta, ma non subisce alcun danno.
17 ottobre 1941
Conclude la missione arrivando a Taranto alle 16.08. Il comandante Miniero riferirà di aver ricavato la forte impressione che la poca benzina recapitata dal Saint Bon non sia stata molto gradita dai tedeschi, i quali hanno apertamente affermato che a loro non serve, dato che ne hanno già ricevute 3000 tonnellate pochi giorni prima; a riconferma dell’inutilità delle missioni di trasporto per i sommergibili.

Il capitano di corvetta Gustavo Miniero, secondo ed ultimo comandante del Saint Bon (g.c. Giovanni Pinna)

16 novembre 1941
Salpa da Taranto alle 14.40 (al comando del capitano di corvetta Miniero) per la seconda missione, di nuovo consistente nel trasporto di rifornimenti a Bardia: 140 tonnellate lorde di benzina in fusti e tre tonnellate di munizioni. La situazione particolarmente critica nell’approvvigionamento dei rifornimenti (novembre 1941 sarà in assoluto il peggior mese della battaglia dei convogli) ha spinto i comandi superiori tedeschi a richiedere un maggior impiego dei sommergibili da trasporto.
19 novembre 1941
Giunge a Bardia alle 17.30, scarica le munizioni su delle semoventi tedesche e getta in mare i bidoni di benzina, che verranno poi recuperati. Durante la serata viene attaccato da aerei mentre è in rada, ma non subisce danni. Riparte già alle 22.45 per tornare a Taranto.
22 novembre 1941
Conclude la missione giungendo a Taranto alle 14.
27 novembre 1941
Salpa da Taranto alle 14 con rifornimenti (140 tonnellate di benzina in latte e 3 tonnellate di munizioni) da trasportare a Derna.
28 novembre 1941
Alle 17 il mare molto grosso causa varie avarie nei passaggi ad intercapedine, costringendo a difficili riparazioni, ma il battello prosegue.
29 novembre 1941
Arriva a Derna alle 18.30. Sbarcato il carico, riparte alle 23.30.
2 dicembre 1941
Rientra a Taranto alle 13.

Il Saint Bon in navigazione (da www.marina.difesa.it, via Marcello Risolo e www.betasom.it

8 dicembre 1941
Parte da Taranto alle 14, trasportando 188 tonnellate lorde (107 t nette; per altra fonte 138,2 tonnellate) di benzina in fusti ermetici, da recapitare a Bengasi (altra fonte: 140 tonnellate di benzina in latte e 4 di munizioni).
11 dicembre 1941
Arriva a Bengasi alle 8.45.
Dopo aver consegnato il carico, riparte alle 15.50 con a bordo 15 prigionieri e dirige per Suda anziché rientrare in Italia.
13 dicembre 1941
Giunge a Suda alle 8.45.
15 dicembre 1941
Riparte da Suda alle 17.30 diretto a Derna, dopo aver caricato altre 140 tonnellate di benzina in latte e 5 di  munizioni.
17 dicembre 1941
Giunge a Derna alle 18.15, ma il maltempo gli impedisce di scaricare, così viene dirottato su Bengasi.
18 dicembre 1941
Raggiunge Bengasi alle 11.15 e può finalmente sbarcare il carico. Lascia Bengasi per tornare a Taranto alle 18.30. Trasporta altri 15 prigionieri, scortati da due militari.
21 dicembre 1941
Giunge a Taranto alle 13.30 dopo aver completato la quarta missione di trasporto.
 
Il Saint Bon in navigazione davanti a Monfalcone (da “Gli squali dell’Adriatico. Monfalcone e i suoi sommergibili nella storia navale italiana” di Alessandro Turrini, Vittorelli Edizioni, 1999, via www.betasom.it)

L’affondamento

Alle otto del mattino (8.45 per altra versione) del 4 gennaio 1942 il Saint Bon, sempre al comando del capitano di corvetta Gustavo Miniero, lasciò Taranto alla volta di Tripoli, per la sua quinta missione di trasporto: stavolta il carico consisteva in 140 tonnellate di benzina tedesca B/4 in latte, dodici tonnellate di motorina sfusa e 3,4 tonnellate di munizioni. In questa missione il sommergibile imbarcava due comandanti in seconda: il tenente di vascello Alvise Mario era infatti imbarcato per avvicendare in tale ruolo il parigrado Alberto Tressoldi, smontante.
Maricosom aveva inizialmente disposto che il battello avrebbe dovuto viaggiare da Taranto a Tripoli lungo le rotte che passavano ad est di Malta, ma poco prima della partenza, su richiesta del Comando Supremo, Supermarina e Maricosom ordinarono con messaggio cifrato (per telescrivente armonica) al IV Gruppo Sommergibili di Taranto di disporre invece che il Saint Bon, dopo la partenza da Taranto, seguisse le rotte costiere sino a Palermo, e qui sbarcasse tutta la benzina tedesca tranne 1000 lattine, per imbarcare invece munizioni ed armi leggere del Regio Esercito; dopo di che sarebbe dovuto ripartire per Tripoli, attraversando lo Stretto di Messina e seguendo le rotte a levante di Malta.
Durante la fase iniziale della navigazione, nel Golfo di Taranto, venne anche effettuata un’immersione a titolo sperimentale, per verificare l’effetto del carico imbarcato sull’assetto del sommergibile.
Alle 2.45 del 5 gennaio il Saint Bon venne avvistato, come previsto, dal posto di vedetta di Messina, mentre procedeva in superficie.
La strada del battello italiano s’incrociò però con quella del più famoso sommergibile della flotta britannica: l’Upholder, del capitano di corvetta Malcolm David Wanklyn.
Qualche ora dopo, infatti, l’unità britannica avvistò il Saint Bon che procedeva in superficie al largo di Punta Milazzo.
Alle 5.30 il tenente di vascello Alberto Tresoldi, di guardia sul ponte di comando, avvistò un’ombra a prora dritta e fece informare il comandante Miniero; quest’ultimo salì subito in plancia e riconobbe l’ombra per la sagoma di un sommergibile – l’Upholder –, quindi fece suonare il clacson dell’allarme interno ed ordinò di armare il cannone e di prepararsi al lancio di due siluri dai tubi prodieri. Il puntatore del cannone iniziò a dare degli stop del sommergibile nemico, ogni volta che si trovava precisamente in punteria, ma il comandante Miniero non ordinò di aprire il fuoco, né di lanciare i siluri; le regole in vigore (poi cambiate solo dalla metà del 1942) prescrivevano infatti che, se un sommergibile avesse avvistato un’altra unità subacquea sulle rotte costiere, non doveva attaccare, ma soltanto volgere la poppa al sommergibile avvistato.
Più o meno contemporaneamente al Saint Bon, alle 5.30, l’Upholder aveva a sua volta avvistato l’unità italiana, in posizione 38°21’ N e 15°22’ E: avendo scambiato il Saint Bon, in rapido avvicinamento da sud, per un peschereccio armato antisommergibile, Wanklyn ordinò d’immergersi immediatamente.
Due o tre minuti dopo l’allarme, il puntatore del cannone del Saint Bon vide l’Upholder immergersi e lo comunicò subito al ponte di comando; a posteriori si ritenne che sarebbe stato il caso di immergersi e dare la poppa al sommergibile nemico, per allontanarvisi rapidamente, ma Miniero ordinò invece “avanti tutta forza” e di zigzagare. Il sommergibile britannico, che stava rientrando a Malta a conclusione del suo pattugliamento, aveva a bordo soltanto due siluri: ne lanciò uno mentre s’immergeva, ma questo manco il bersaglio.
Una volta sott’acqua, alle 5.34, l’Upholder identificò correttamente il bersaglio come un sommergibile armato con due cannoni, che procedeva a 15 (poi 12) nodi zigzagando tra 260° e 360°. Wanklyn compì allora una serie di manovre circolari per portarsi in posizione favorevole a lancio, poi si portò a quota periscopica e alle 5.39 lanciò l’ultimo siluro che gli era rimasto, mirando alla torretta: esso andò a segno alle 5.42, mentre il Saint Bon era sulla seconda spezzata di zigzagamento. Il sommergibile italiano, colpito a prora sinistra, appena a proravia del cannone (per altra fonte, al centro a dritta), esplose ed affondò in meno di un minuto nel punto 38°22’ N e 15°22’ E (o 38°02’ N e 15°22’ E), a nord di Milazzo (otto miglia al largo di Punta Milazzo) ed al largo di Capo Lilibeo.
Dei 61 uomini che componevano l’equipaggio del Saint Bon, soltanto il sottotenente di vascello Luigi Como, il secondo capo silurista Ernesto Fiore ed il sergente segnalatore Valentino Ceccon (tutti in torretta al momento del siluramento) si salvarono; furono recuperati dall’Upholder, riemerso alle 5.46, e dunque fatti prigionieri.

Il maresciallo silurista Ernesto Fiore, nato a Reggio Calabria nel 1911, qui in una foto risalente ai primi anni Trenta. Scrive il nipote Renato Vigilanti, che si ringrazia per la foto: “Diceva sempre: mi sono salvato per una sigaretta! Il caso volle che un suo collega, un altro sopravvissuto, quella famigerata notte, lo invitò, avendo finito il turno di servizio, a fumare una sigaretta in torretta, all’aria aperta. Quella sigaretta gli salvò la vita, in quanto al momento del siluramento l’esplosione lo catapultò in acqua. Raccontava anche che la superficie del mare era completamente in fiamme a tal punto che non gli era permesso nuotare in superficie, (evidentemente gran parte del carburante trasportato finì in acqua prendendo fuoco) . Lui bravissimo e esperto nuotatore, era costretto a nuotare sott’acqua e risalire dove non c’erano fiamme per respirare un attimo e subito immergersi nuovamente. Stremato e senza più forze, raggiunto un punto dove non c’erano più fiamme, per riposarsi un po’, fece il ‘morto’. Il caso volle che il sommergibile inglese lo avvistò ma tirato su a bordo non dando alcun segno di vita, l’equipaggio inglese pensandolo morto, era pronto a ributtarlo in mare. In un momento di disperazione capendo quello che gli stava per succedere si mise a tossire per far capire che era vivo, e cosi fu rianimato. Persona sempre gioviale, sorridente, scherzosa, e di compagnia si faceva voler bene facilmente. Me lo ricordo con molto affetto, anche per la sua indole generosa e un atteggiamento di 'gran cuore' . Grande giocatore di dama, credo abbia imparato durante il periodo di prigionia, mi insegnò a giocare quando avevo appena sette anni (sono del 1958), e mi insegnò tanto bene che per anni fu difficile trovare rivali vincenti”.

I superstiti del Saint Bon sbarcano a Malta dall’Upholder, sotto lo sguardo del comandante Wanklyn (g.c. Giovanni Pinna)

Seguirono il sommergibile in fondo al mare (profondo in quel punto più di 300 metri) il comandante Miniero, altri sette ufficiali, 49 tra sottufficiali, sottocapi e marinai, ed un operaio militarizzato.
L’esplosione fu avvertita anche a riva; successive ricerche portarono al rinvenimento di rottami, e per qualche tempo – finché non si seppe dei tre prigionieri recuperati – il sommergibile fu ritenuto affondato con tutto l’equipaggio. La giovane figlia di uno degli ufficiali, il capitano del Genio Navale Alberto Ricci, scrisse anche al Papa nella speranza di avere notizie del padre disperso.
La sorte del capo elettricista di terza classe Nicola Loffredo suona come una tragica beffa: destinato all’imbarco sul Saint Bon, non era a bordo durante l’ultima missione ed ebbe così salva la vita. Avrebbe trovato la morte pochi mesi più tardi nell’affondamento dell’Ammiraglio Millo, gemello del Saint Bon.

Caduti sul Saint Bon:

Paolo Barisani, sottocapo segnalatore, 22 anni, da Cotignola
Giovanni Cesarino Barla, marinaio segnalatore, 24 anni, da Savona
Luigi Barozzi, secondo capo motorista, 34 anni, da Rovereto
Olivio Battel, marinaio motorista, 22 anni, da Malisana
Salvatore Bentivegna, marinaio, 20 anni, da Sciacca
Francesco Bergantino, sottocapo nocchiere, 25 anni, da Minturno
Luigi Bertola (o Bertoia), marinaio fuochista, 22 anni, da Zoppola
Eliseo Bianchini, sottocapo silurista, 21 anni, da Massa
Francesco Cafiso, marinaio motorista, 23 anni, da Grammichele
Pietro Campus, sergente cannoniere, 26 anni, da Sedini
Matteo Cangemi, sergente (*)
Trieste Carli, marinaio cannoniere, 22 anni, da Ferrara
Giuseppe Castaldo, sottocapo elettricista, 24 anni, da Afragola
Antonino Catanzaro, sottotenente del Genio Navale Direzione Macchine di complemento, 22 anni, da Milazzo
Bruno Cibischino, sottocapo radiotelegrafista, 19 anni, da Torino
Giuseppe D’Alessio, sottocapo furiere, 24 anni, da La Maddalena
Pietro Dalla Riva, sottocapo silurista, 22 anni, da Vicenza
Giuseppe Della Valle, sottocapo elettricista, 21 anni, da Santa Maria Capua Vetere
Attilio Di Meglio, capo meccanico di seconda classe, 34 anni, da Modica
Giacinto Farina, capo elettricista di seconda classe, 32 anni, da Asti
Mario Fascetti, tenente del Genio Navale, 24 anni, da Pisa
Alessandro Gladuli, guardiamarina, 21 anni, da Cherso
Luigi Gorini, sottocapo nocchiere, 24 anni, da Livorno
Gennaro Guida, capo silurista di prima classe, 35 anni, da Napoli
Salvatore Lanfranchi, marinaio, 21 anni, da Messina
Alfio Lenzi, marinaio, 21 anni, da Portoferraio
Alvise Mario, tenente di vascello, 30 anni, da Lendinara (MBVM)
Giovani Mattera, marinaio, 21 anni, da Serrara Fontana
Giovanni Melita, marinaio elettricista, 25 anni, da Messina
Luigi Merola, secondo capo, 30 anni, da Curti
Gustavo Miniero, capitano di corvetta (comandante), 35 anni, da Gragnano (MBVM)
Alberto Miniussi (o Minussi), marinaio, 21 anni, da Trieste
Vincenzo Nicolais, sottocapo motorista, 23 anni, da Calitri
Antonio Padoan, marinaio, 21 anni, da Chioggia
Eraldo Pasqualetto, operaio militarizzato (capo montatore di garanzia), 30 anni, da Torino
Romualdo Pennazio, secondo capo silurista, 27 anni, da Torino
Giuseppe Pestarino, sottocapo elettricista, 21 anni, da Castelletto d'Orba
Luigi Piccolo, marinaio elettricista, 25 anni, da Roma
Giuseppe Pinter, sottocapo motorista, 21 anni, da Ala
Sergio Piovesana, secondo capo elettricista, 31 anni, da Conegliano
Dino Prisco, sottocapo motorista, 21 anni, da L'Aquila
Ezio Ravera, capo motorista di seconda classe, 38 anni, da Fivizzano (MBVM)
Michele Remondino, marinaio musicante, 22 anni, da Druento
Alberto Ricci, capitano del Genio Navale (direttore di macchina), 34 anni, da Palermo (MBVM)
Pietro Ruffa, sottocapo portuale, 22 anni, da Cologna Veneta
Giuseppe Scaburri, marinaio motorista, 21 anni, da Casnigo
Vincenzo Siccardi, marinaio silurista, 19 anni, da Sanremo
Vito Silletti, marinaio motorista, 21 anni, da Longarone
Andrea Sorrenti, marinaio, 22 anni, da Messina
Fabio Stocca, sottotenente di vascello, 22 anni, da Gorizia
Carmelo Tabacco, sottocapo motorista, 21 anni, nato in Etiopia
Sante Tiozzo, marinaio, 21 anni, da Chioggia
Alberto Tresoldi, tenente di vascello (comandante in seconda), 26 anni, da Roma
Riccardo Valentino, sottocapo radiotelegrafista, 21 anni, da Pola
Angelo Vicari, sottocapo silurista, 22 anni, da Cremona
Rino Vignati, marinaio motorista, 21 anni, da Legnano
Alfredo Visioli, marinaio elettricista, 23 anni, da Castel Goffredo
Leopoldo Vitello, secondo capo radiotelegrafista, 28 anni, da Palermo

(*) Il nome di Matteo Cangemi figura nell'elenco dei caduti del Saint Bon pubblicato sul sito www.sommergibili.com, ma non è presente nell'Albo dei caduti e dispersi della Marina Militare nella seconda guerra mondiale.


L’affondamento del Saint Bon nel giornale di bordo dell’Upholder:

“0530 hours - In position 38°21'N, 15°22'E. sighted a vessel what was thought to be an A/S trawler approaching rapidly from the Southward. Dived immediately.
0534 hours - Identified the target as a two gun submarine which was zigging constantly between 260° and 360°. The targets speed was estimated to be 15 knots. Started attack.
0538 hours - The speed of the target was now thought to be 12 knots.
0539 hours - In position 38°22'N, 15°22'E fired the last torpedo aimed at the targets conning tower. The torpedo hit the target just before the forward gun. She sank very quickly.
0546 hours - Surfaced in the attack position and picked up three survivors.
0601 hours - Dived and set course to pass to the South of Vulcano Island.”

Un’altra immagine del battello durante l’allestimento a Monfalcone (da “Gli squali dell’Adriatico. Monfalcone e i suoi sommergibili nella storia navale italiana” di Alessandro Turrini, Vittorelli Edizioni, 1999, via www.betasom.it)

lunedì 26 ottobre 2015

V 230 Antonio Landi

L’Antonio Landi (g.c. Mauro Millefiorini). Esso non va confuso con un motoveliero dallo stesso nome che andò anch’esso perduto nella seconda guerra mondiale, ma che aveva tre alberi e maggiori dimensioni.

L’Antonio Landi era un motoveliero da carico, un brigantino goletta da 128,51 tsl e 101 tsn, lungo 29,1 metri, largo 7,28 e pescante 2,9.
Costruito nel 1906 dal cantiere F. Gori di Viareggio come veliero ‘puro’ (successivamente trasformato in motoveliero con l’installazione di un motore a due cilindri da 52 HP nominali, prodotto dalla S.A.T.I.M.A. di Trieste), in origine si era chiamato Marina, nome successivamente cambiato in Denia e poi Teresa, ma già prima del 1930 aveva assunto il suo nome definitivo.
Appartenente all’armatore Antonio Fragiacomo & Soci di Pirano d’Istria (che nel 1933 l’aveva acquistato da Andrea Ruzzier & C. di Trieste, il quale lo aveva a sua volta comprato l’anno precedente da Luigi Zarotti & C., anche lui triestino), era iscritto con matricola 53 al Compartimento Marittimo di Trieste.
Alle 12 del 21 marzo 1941 l’Antonio Landi venne requisito a San Giovanni di Medua (Albania) dalla Regia Marina, che lo iscrisse con sigla V 230 nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato, facendone una vedetta foranea. Già il 5 giugno 1941, però, la nave venne derequisita e radiata dal ruolo del naviglio ausiliario dello Stato, dalle ore 8.
Il 3 aprile 1942 il motoveliero era in navigazione da Venezia a Durazzo, quando urtò una mina – probabilmente italiana – al largo di Punta Platamoni (vicino a Cattaro) ed affondò nel punto 42°18’ N e 18°42’ E.
Vi fu una vittima tra l’equipaggio: il marittimo Andrea Apollonio, piranese.



venerdì 23 ottobre 2015

Paolina

Il Paolina fotografato durante la seconda guerra mondiale (da Rolando Notarangelo, Gian Paolo Pagano, “Navi mercantili perdute”, USMM, Roma 1997)

Piroscafo da carico da 4894 tsl, 3063 tsn e 8050 tpl, lungo 128,8 metri, largo 16,8 e pescante 7,7; velocità 12 nodi (ma ridotta a 8,5 entro il 1940). Appartenente alla Società Anonima Impresa di Navigazione Commerciale (con sede a Roma), iscritto con matricola 171 al Compartimento Marittimo di Roma.

Breve e parziale cronologia.

1910
Impostato nei cantieri Blohm & Voss di Amburgo (numero di cantiere 204).
1911
Completato come Esslingen, per la Deutsche Australische Dampfschiffs Gesellschaft di Amburgo. Stazza lorda e netta originaria 4762 tsl e 2890 tsn (o 4902 tsl e 3067 tsn).
Agosto 1914
Pochi giorni prima dello scoppio della prima guerra mondiale, l’Esslingen (al comando del capitano Sparmann) carica a Saigon un carico di 126.028 sacchi di riso e 600 ventagli in legno, da trasportare ad Amburgo per conto della Compagnie Franco-Indochinoise.
4 agosto 1914
Lascia Saigon nell’imminenza dello scoppio della guerra, onde evitare la cattura, con l’ordine dell’armatore di raggiungere Manila ed attendere lì ulteriori disposizioni.
7 agosto 1914
Arriva a Manila, nelle Filippine controllate dai neutrali Stati Uniti, dove viene internato.
La Compagnie Franco-Indochinoise avvierà un procedimento legale contro la Deutsche Australische Dampfschiffs Gesellschaft per aver bloccato nave e carico a Manila; il 16 ottobre 1914 la locale Corte statunitense incaricherà due liquidatori di prendere possesso del carico dell’Esslingen e venderlo, per consegnare il ricavato alla Compagnie Franco-Indochinoise. Così sarà fatto (il carico verrà venduto per 61.154,58 pesos filippini); ciò non basterà però a fermare il contenzioso, visto che la Compagnie Franco-Indochinoise sosterrà che la sosta a Manila abbia provocato il deterioramento del carico, così riducendone il valore.
Aprile 1917
Con l’ingresso in guerra degli Stati Uniti, l’Esslingen viene confiscato dalle autorità statunitensi a Manila, affidato all’United States Shipping Board di Washington e ribattezzato Nyanza.
13 gennaio 1918
Il Nyanza viene attaccato col cannone da un sommergibile nel punto 47°45’ N e 04°50’ O, ma viene soccorso dal panfilo armato francese Palourde II.
1923
Acquistato dalla Commercial Guide Steamship Company Inc. di Wilmington e ribattezzato Commercial Guide.
1925
Trasferito alla Nyanza Steamship Company Inc. di Wilmington.
1931
Acquistato dalla Honolulu Steamship Company Inc. di Wilmington.
1933
Acquistato dalla Moore & McCormack – Mooremack Gulf Line – American Scantic Lines di New York.
1936
Acquistato dall’Impresa di Navigazione Commerciale Società Anonima (INCSA), con sede a Roma, e ribattezzato Paolina.
23 settembre 1941
Requisito a Livorno dalla Regia Marina, senza essere iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato.
16 ottobre 1941
Alle 11 (o 13.30) il Paolina, dopo aver caricato 3126 tonnellate di materiali vari, 565 tonnellate di munizioni, 48 tra automezzi e rimorchi (per 156 tonnellate complessive) ed anche una bettolina, salpa da Napoli insieme ai piroscafi Beppe e Caterina ed alle motonavi Probitas e Marin Sanudo, scortate dai cacciatorpediniere Folgore (capitano di fregata Giuriati, caposcorta), Fulmine, Alfredo Oriani, Vincenzo Gioberti ed Antoniotto Usodimare, oltre che dalla torpediniera Cigno: le navi compongono il convoglio «Beppe», diretto a Tripoli.
Alle 16.50 il Probitas viene colto da un’avaria e deve rientrare a Napoli scortato dal Fulmine, mentre la minuscola motonave Amba Alagi si unisce al convoglio a Trapani, dove viene invece lasciata la Cigno.
17 ottobre 1941
Il 17 ottobre “ULTRA”, la celebre organizzazione britannica dedicata alla decrittazione dei messaggi in codice dell’Asse, intercetta e decifra un messaggio relativo al convoglio «Beppe» (da esso chiamato «Caterina»), apprendendone così la composizione (6 mercantili e 4 cacciatorpediniere), data e luogo di partenza (Napoli, ore 11 del 16) ed arrivo (Tripoli, ore 18 del 19), rotta seguita (a ponente di Malta) e velocità (9 nodi); da Malta vengono pertanto fatti decollare dei ricognitori, che rintracciano le navi italiane a mezzogiorno.
Nella notte tra il 17 ed il 18 il convoglio, che procede a velocità molto bassa e si trova a sud di Pantelleria, viene informato via radio da Supermarina di essere stato avvistato da un ricognitore britannico. Un’ora dopo si verificano i primi attacchi da parte di almeno tre aerosiluranti: questi attaccano dopo aver lanciato dei razzi illuminanti, ma l’attacco può essere eluso grazie a manovre difensive ed alla pronta stesura di cortine nebbiogene, attorno ai mercantili, da parte della scorta (grazie anche alla rotta seguita, 188°, ed al leggero vento di poppa).
18 ottobre 1941
Mentre il convoglio è a sud di Lampedusa (nel punto 35°25'N e 11°39'E), ed a 140 miglia da Tripoli (per altra fonte, 45 miglia ad ovest di Lampedusa e 85 miglia ad ovest-nord-ovest di Tripoli), il sommergibile britannico Ursula (tenente di vascello Arthur Richard Hezlet, che ha avvistato il convoglio alle 8.06 nel punto 35°27'N e 11°45'E, con rilevamento 306°) lancia quattro siluri da 5500-6400 metri contro le navi italiane: alle 9.10 il Beppe avvista due siluri; riesce ad evitarne uno, ma l’altro lo colpisce a prua, lasciandolo immobilizzato, fortemente appruato, sbandato ed abbandonato da parte dell’equipaggio. Un’unità della scorta contrattacca con nove bombe di profondità tra le 9.25 e le 10, senza riuscire a danneggiare l’attaccante. Il caposcorta distacca per l’assistenza l’Oriani ed il Gioberti, ma poco dopo richiama l’Oriani, a seguito della notizia che altri due cacciatorpediniere, il Nicoloso Da Recco ed il Sebenico, sono salpati da Tripoli allo stesso scopo. Il Beppe riuscirà a raggiungere Tripoli dopo tre giorni di difficilissima navigazione.
Il resto del convoglio prosegue, e alle 21.50, ad una sessantina di miglia da Tripoli, vengono avvistati quattro aerei che si avvicinano per attaccare; la scorta inizia ad emettere cortine fumogene, ed alle 22.30 il caposcorta ordina al convoglio di accostare di 45° a dritta (portandosi su rotta 135°) in modo da allontanarsi dalla zona illuminata dai bengala: proprio in quel momento, però, il Caterina viene raggiunto da un siluro in sala macchine.
Alle 23.01 termina l’attacco aereo ed alle 23.30 viene compiuta una nuova accostata di 45° a dritta (assumendo rotta 180°) per evitare di essere individuati.
Il Caterina affonderà capovolgendosi, dopo una lunga agonia ed un vano tentativo di rimorchio da parte dell’Oriani, alle 17.30 del giorno seguente.
19 ottobre 1941
Alle 11.30 Paolina, Marin Sanudo, Amba Aradam, Folgore ed Usodimare entrano a Tripoli.
24 novembre 1941
Lascia Tripoli alle 20 per rientrare in Italia, scortato dal cacciatorpediniere Saetta.
28 novembre 1941
Paolina e Saetta arrivano a Napoli alle 4.30.
23 febbraio 1942
Derequisito dalla Regia Marina.
21 luglio 1942
Il Paolina, carico di 7674 tonnellate di carbone, salpa da Palermo (dov’è giunto proveniente da Napoli) alle 14.30 alla volta di Tripoli, seguendo la rotta di ponente, scortato dapprima dalla vecchia torpediniera Giuseppe Dezza (fino a Trapani) e poi dalla più moderna Centauro.
22 luglio 1942
Le due navi sostano un giorno a Pantelleria, poi proseguono.
23 luglio 1942
A Ras Mahur la Centauro lascia la scorta del Paolina; nel tratto finale, dalle secche di Kerkennah a Tripoli, il piroscafo sarà scortato dall’avviso scorta Orione. Alle 15.20 Paolina e Orione giungono a Tripoli.
 
La nave con il precedente nome di Commercial Guide, fotografata a Tampa l’11 febbraio 1926 (Tampa-Hillsborough County Public Library System, via Mauro Millefiorini e www.naviearmatori.net

L’affondamento

Alle nove del mattino del 12 agosto 1942 il Paolina lasciò Tripoli con la scorta del cacciasommergibili Eso, diretto Sfax. Alle quattro del mattino del 13 l’Eso lasciò la scorta del piroscafo; giunto a Sfax, quest’ultimo vi caricò 7800 tonnellate di fosfati. Sarebbe dovuto poi ripartire subito per Palermo, ma la sua sosta a Sfax fu più lunga di quanto inizialmente previsto. Intanto, a Bletchley Park, qualcuno si era messo all’opera.
Il 16 agosto “ULTRA” iniziò la sua opera di “pedinamento” del Paolina, decrittando un messaggio che annunciava la sua partenza da Sfax per le ore cinque del 18 agosto, con arrivo previsto a Palermo per le 23.59 del 19. Il giorno seguente, tuttavia, “ULTRA” dovette correggersi, annunciando che la partenza del Paolina era stata rinviata; il 19 agosto comunicò che il Paolina e la motonave Giulia, ambedue fermi a Sfax, sarebbero tornati in Italia “tra breve tempo” con un carico di fosfati, ma il 20 e poi ancora il 23 dovette ribadire che la loro partenza era sospesa. Il 25 agosto, infine, i decrittatori britannici poterono annunciare che il Paolina sarebbe salpato da Sfax il mattino del giorno seguente, diretto a Palermo; ciò avvenne, ed il 26 stesso (e poi ancora il 27) “ULTRA” confermò l’avvenuta partenza, quella mattinata, del Paolina.
Il piroscafo, col suo carico di fosfati, aveva lasciato il porto tunisino alle quattro del mattino del 26, ed alle nove del mattino del 27 agosto la torpediniera Sagittario raggiunse il Paolina ne assunse la scorta.
L’operato di “ULTRA” nei confronti del Paolina potrebbe essere liquidato, a posteriori, come “tanta fatica per nulla”: prima ancora che un qualsiasi aereo, nave o sommergibile britannico potesse essere inviato ad intercettarlo, infatti, il piroscafo andò perduto in maniera del tutto casuale su mine italiane.
Poco dopo aver raggiunto il Paolina, infatti, la Sagittario se ne dovette separare nuovamente, per andare a fornire assistenza al piroscafo Armando, incagliatosi presso Kelibia (poco lontano).
Alle 11.22 del 27 agosto il Paolina, navigando isolato nella foschia, ed avendo deviato dalla rotta prestabilita, finì sull’estremità sudoccidentale dello sbarramento orientale della Tunisia, urtando una mina a 6 miglia per 131° da Capo Bon.
La nave rimase immobilizzata ed appruata; oltre alla Sagittario, giunsero in assistenza i MAS 549 e 560, ma risultò presto evidente che per il Paolina non c’era più nulla da fare, e si procedette anzi ad accelerarne l’affondamento.
Le tre unità soccorritrici poterono soltanto recuperare tutti gli uomini presenti a bordo – 52 in tutto, nessuna vittima –, dopo di che il piroscafo affondò alle 17.30.
 
Un’altra immagine della nave come Commercial Guide (da www.moore-mccormack.com