martedì 25 aprile 2017

Giove

La Giove a La Spezia nel primo dopoguerra (g.c. STORIA militare)

Nave cisterna per nafta della classe Nettuno (10.313 tonnellate di dislocamento, 5211 tonnellate di stazza lorda e 2857 tonnellate di stazza netta), lunga 121,6 metri, larga 15,5 e pescante 8,6, con velocità di 14,5 nodi. Armata con 6 cannoni da 57/43 mm (per altra fonte, due da 120/45 mm).
Appartenente alla Regia Marina, ma in gestione alla Società Anonima Cooperativa di Navigazione Garibaldi, con sede a Genova, ed iscritta con matricola 2172 al Compartimento Marittimo di Genova.

Breve e parziale cronologia.

7 maggio 1914
Impostata nei Cantieri Navali Riuniti di Palermo per la Regia Marina.
23 dicembre 1916
Varata nei Cantieri Navali Riuniti di Palermo.
1916
Viene radiata, con decreto legge, dal quadro del Regio Naviglio, e trasferita al servizio delle Ferrovie dello Stato.
Gennaio 1917
Entrata in servizio; appartiene alla Regia Marina, ma inizialmente (ed almeno fino al luglio 1918) presta servizio per le Ferrovie dello Stato. In origine la stazza lorda e netta sono rispettivamente 5088 (o 5037) tsl e 2614 tsn.
Durante la prima guerra mondiale, la Giove viene impiegata con altre navi (la gemella Nettuno; Bronte e Sterope, di costruzione prebellica; Prometeo, sequestrata; Margaretha, noleggiata; Girolamo Ulloa e Luciano Manara, ex austroungariche catturate), nell’approvvigionamento dei carburanti per la Regia Marina. Non essendo più possibile rifornirsi di nafta dalla Romania, come invece in tempo di pace, a seguito della chiusura dello stretto dei Dardanelli (l’Impero Ottomano è ora nazione nemica), la Giove e le altre petroliere fanno la spola tra l’Italia e le Americhe, imbarcando il carburante oltreoceano per poi portarlo in patria.
13 luglio 1918
La Giove viene silurata e danneggiata dal sommergibile tedesco UC 20 (tenente di vascello Heinrich Kukat) al largo di Capo Colonne. Il sommergibile la colpisce con un singolo siluro, durante un’azione eseguita in superficie; la petroliera rimane però a galla.
Le riparazioni verranno effettuate nell’Arsenale di Taranto; l’inutilizzazione della Giove, insieme alla perdita di Sterope e Prometeo, affondate nello stesso periodo da U-Boote tedeschi (la Prometeo il 18 marzo 1918 e la Sterope il 7 aprile, entrambe dall’U 155), causerà una temporanea crisi negli approvvigionamenti di carburante della Regia Marina, provocando una riduzione nelle scorte e rendendo necessaria la cessione di nafta da parte della Royal Navy.
1926
Affidata in gestione alla Cooperativa Garibaldi di Genova, società che gestisce buona parte del naviglio ausiliario della Marina. La maggior parte dell’equipaggio è composta da marittimi civili.
17 ottobre 1930
Temporanea sospensione dell’iscrizione della Giove nei quadri del Regio Naviglio, con regio decreto.
15 dicembre 1930
Reiscrizione della Giove nei quadri del Regio Naviglio, con regio decreto.
10 giugno 1940
All’entrata in guerra dell’Italia, la Giove si trova a Massaua, in Eritrea (Africa Orientale Italiana), sul Mar Rosso. Formalmente, essa fa parte del naviglio ausiliario autonomo, alle dirette dipendenze di Supermarina; nei fatti, seguirà la sorte delle navi del Comando Superiore Navale Africa Orientale.

Autoaffondamento, recupero, epilogo

Le sorti del naviglio italiano in Africa Orientale sono già state diffusamente descritte nelle pagine riguardanti altre navi perdute in Eritrea. Dopo gli iniziali successi del luglio-agosto 1940 (conquista della Somalia britannica, di Moyale e Buna in Kenya e di Cassala in Sudan) le truppe italiane in Africa Orientale, a corto di risorse e nell’impossibilità di ricevere rifornimenti, dovettero passare sulla difensiva; agli inizi del 1941 le truppe del Commonwealth passarono all’offensiva, mentre si scatenava anche l’insurrezione dei guerriglieri etiopi (“Arbegnoch”, cioè “patrioti”). Riconquistato in breve tempo il terreno perso in Kenya e Sudan, i britannici occuparono la Somalia italiana nel febbraio 1941 ed avanzarono nell’Etiopia meridionale; le sorti dell’Eritrea si decisero nella lunga battaglia di Cheren (2 febbraio-27 marzo 1941), che vide infine i britannici vincitori.
Superate l’ultima resistenza italiana a Cheren, all’inizio di aprile la 5a Divisione Indiana puntò su Massaua. Comandante della piazzaforte era il contrammiraglio Mario Bonetti, che aveva ai suoi ordini 10.000 uomini ed un centinaio di carri armati (nella quasi totalità, i mediocri M11/39 o gli ancor peggiori L3); era evidente che la resistenza della base navale, ormai del tutto isolata, sarebbe potuta durare soltanto qualche giorno, e che la sorte delle navi che vi fossero rimaste sarebbe stata la cattura o l’autoaffondamento.
Le navi dotate di autonomia sufficiente per affrontare una traversata oceanica erano state fatte partire tra febbraio e marzo (quattro sommergibili, la nave coloniale Eritrea, gli incrociatori ausiliari RAMB I e RAMB II ed otto mercantili), dirette in Francia od in Giappone; il 2 aprile i residui cinque cacciatorpediniere della III e V Squadriglia partirono per una missione senza ritorno contro Porto Sudan. Uno di essi, il Daniele Manin, aveva a bordo come mezzo di salvataggio supplementare la lancia di salvataggio IA 46326, appartenente alla Giove e ceduta al Manin prima della partenza: tanto, alla Giove non sarebbe più servita, mentre era prevedibile che l’equipaggio del Manin avrebbe terminato la sua navigazione sui mezzi di salvataggio. Su questa scialuppa, dopo l’affondamento del Manin ad opera di aerei britannici, si sarebbero infatti salvati 42 naufraghi del cacciatorpediniere (tra di essi anche Eugenio Tealdi, ex primo ufficiale civile della Giove, che allo scoppio della guerra era stato richiamato in Marina col grado di guardiamarina ed imbarcato sul Manin), raggiungendo la costa araba dopo sette estenuanti giorni di navigazione.
Tutte le altre navi, non in grado di raggiungere terre amiche o neutrali (perché sprovviste di autonomia sufficiente, oppure perché in cattive condizioni dopo mesi e mesi di sosta nel porto di Massaua) né di arrecare danno al nemico, si sarebbero dovute autoaffondare per non cadere intatte in mano nemica, e per bloccare al contempo il porto. Tra queste era anche la Giove.

Il generale britannico Lewis Heath, comandante della 5a Divisione Indiana, telefonò all’ammiraglio Bonetti per mandargli un ultimatum: doveva arrendersi ed astenersi dal bloccare il porto mediante l’autoaffondamento di navi; in caso contrario, i britannici non avrebbero fornito alcuna assistenza o protezione ai cittadini italiani in Eritrea ed Etiopia, una volta terminata la campagna.
Bonetti rifiutò, e mise in atto il suo piano per rendere il porto di Massaua inutilizzabile il più a lungo possibile: fece disporre le navi lungo le tre imboccature del porto, e qui le fece autoaffondare, creando altrettante barriere con i loro relitti. Ricevettero ordine di autoaffondarsi all’imboccatura del porto militare i mercantili italiani Moncalieri e XXIII Marzo, il piroscafetto Impero, il mercantile tedesco Oliva, due bacini galleggianti ed il relitto devastato della vecchia torpediniera Giovanni Acerbi; si dovettero autoaffondare all’imbocco del porto commerciale il mercantile italiano Adua, il posamine Ostia, un pontone gru, i mercantili tedeschi Gera e Crefeld; all’accesso del porto meridionale si autoaffondarono i piroscafi italiani Brenta, Vesuvio ed Alberto Treves, la cisterna militare Niobe, i piroscafi tedeschi Liebenfels e Frauenfels, il transatlantico italiano Colombo.
Gli italiani, che avevano trasformato da Massaua da piccolo porto dedito al commercio di schiavi in una delle maggiori basi navali del Mar Rosso, si sfogarono ora su di essa in una vera e propria frenesia distruttiva, cercando di rendere inservibile qualsiasi cosa che sarebbe potuta tornare utile ai britannici. Oltre alle navi destinate a bloccare gli accessi del porto, si autoaffondarono qua e là, per bloccare le banchine, anche la torpediniera Vincenzo Giordano Orsini (dopo aver sparato contro le colonne britanniche in avanzata fino all’esaurimento delle munizioni), le piccole cannoniere Giuseppe Biglieri e Porto Corsini, i vecchi MAS 204, 206, 210, 213 (che aveva appena silurato l’incrociatore leggero HMS Capetown) e 216, i rimorchiatori militari Formia, San Giorgio e San Paolo; e, appunto, la Giove. Su alcune delle navi, per complicarne il recupero, vennero collocate anche delle trappole esplosive, mentre altre vennero collocate a terra. Attrezzature ed installazioni portuali vennero sabotate, ed ingenti quantità di equipaggiamento militare e persino diversi carri armati vennero gettati nelle acque del porto per impedirne la cattura.
Un altro gruppo di navi mercantili ed ausiliarie, trasferitosi nel vicino arcipelago delle Dahlak, si autoaffondò tra quelle isole, in acque più profondo; solo le cisterne per acqua Sile, Sebeto e Bacchiglione vennero risparmiate dall’autodistruzione, perché potessero continuare a servire ai bisogni della popolazione civile anche dopo l’occupazione britannica.
Le prime navi italiane iniziarono ad autoaffondarsi il 3 aprile 1941; il 5 aprile la 7a Brigata Indiana si congiunse con la Briggs Force, proveniente da Port Sudan, fuori Massaua. I britannici inviarono a Bonetti una nuova intimazione di resa, che venne nuovamente respinta; l’8 aprile un primo attacco contro la piazzaforte da parte della 7a Brigata Indiana venne respinto, ma un contemporaneo attacco della 10a Brigata Indiana, supportato da carri armati del 4th Royal Tank Regiment, riuscì a sfondare le difese italiane sul lato occidentale del perimetro. Attacchi da parte di reparti della Francia Libera sopraffecero le posizioni italiane sul lato sudoccidentale, mentre gli aerei britannici – che avevano ormai il dominio incontrastato dei cieli – bombardavano le postazioni d’artiglieria italiane.
Nel pomeriggio dell’8 aprile, Massaua si arrese, ed i britannici entrarono nel porto, in uno scenario di devastazione caratterizzato da relitti di navi (e carri armati) disseminati ovunque.
È da rilevare che secondo alcune fonti (compreso “Navi mercantili perdute” dell’USMM, non sempre corretto) la Giove non si sarebbe autoaffondata a Massaua, bensì nelle isole Dahlak (precisamente, nel Golfo del Gubbet o presso l’isola di Nocra); ma a fugare ogni dubbio in proposito è un filmato propagandistico della British Pathé, girato da cineoperatori britannici poco dopo la presa di Massaua. Nel filmato la Giove appare chiaramente tra le navi autoaffondate in tale porto, ormeggiata lungo il molo principale in assetto di navigazione, apparentemente non molto danneggiata e ben alta sull’acqua, tanto non sembrare neanche affondata (presumibilmente perché adagiata su un fondale poco profondo). L’autoaffondamento sarebbe avvenuto, a seconda delle fonti, il 4 o l’8 aprile 1941.
 
La Giove autoaffondata all’ormeggio, ma ancora alta sull’acqua per via del basso fondale, in un filmato britannico girato dopo la presa di Massaua (British Pathé – Youtube).
Il relitto della Giove dopo la caduta di Massaua. L’unità in secondo piano è probabilmente la motonave Arabia (Imperial War Museum)

Gli equipaggi delle navi autoaffondate vennero inizialmente internati dai britannici in Eritrea, ma molti di essi incontrarono successivamente un tragico destino: il 16 novembre 1942 molti dei marittimi, insieme ad altri civili italiani internati in Africa Orientale ed ad alcuni prigionieri di guerra pure italiani, furono imbarcati sul piroscafo britannico Nova Scotia, che avrebbe dovuto trasportarli in Sudafrica, verso nuovi campi di prigionia. Il 28 novembre, il Nova Scotia venne silurato dal sommergibile tedesco U 177 ed affondò in soli dieci minuti a sudest di Lourenço Marques. Molti affondarono con la nave, molti altri scomparvero nell’oceano, annegati, periti di stenti, o divorati dagli squali; le salme di oltre 120 uomini furono portate dalle onde sulle spiagge del Sudafrica, e sepolte in fosse comuni. L’U 177, pur avendo scoperto di aver affondato una nave carica di italiani (alleati della Germania), dovette allontanarsi senza soccorrere nessuno (tranne due marittimi italiani) in ottemperanza alle disposizioni da poco impartite (di non prestare soccorso ai naufraghi) a seguito di un attacco aereo subito due mesi prima dall’U 156 mentre era intento al salvataggio dei superstiti del piroscafo Laconia, anch’esso carico di prigionieri italiani.
Solo il 30 novembre giunse sul posto l’avviso portoghese Alfonso De Albuquerque, che trasse in salvo 181 o 194 superstiti, tra cui 117 o 130 internati italiani, che sbarcò in Mozambico. Non ebbero la stessa fortuna altri 655 internati italiani, che scomparvero in mare insieme a 88 guardie sudafricane, 107 membri dell’equipaggio britannico e tredici passeggeri (cinque civili ed otto militari).
Tra le vittime del Nova Scotia vi furono anche due marinai della Giove. Oltre a loro, almeno altri due membri dell’equipaggio della Giove non fecero più ritorno dalla prigionia: il marinaio civile Umberto Mattei, di La Spezia, rimasto in Africa Orientale, vi morì il 18 luglio 1943; l’ufficiale di macchina Mattia Viola, di Usini (Sassari), anch’egli un marittimo civile, morì in prigionia in Algeria il 26 aprile 1944.

Trovandosi adagiata in acque particolarmente basse, la Giove fu una delle prime navi a divenire oggetto delle attenzioni dei recuperati britannici incaricati di rimettere a galla le navi e sgombrare il porto per renderlo nuovamente utilizzabile. Di tale lavoro fu inizialmente incaricato Joseph Russel Stenhouse, ufficiale della Royal Navy che aveva all’attivo la partecipazione, nel 1915-1916, alla spedizione antartica di Ernest Shackleton (durante la quale aveva comandato il panfilo di supporto Aurora, rimasto intrappolato tra i ghiacci per dieci mesi) e poi alla prima guerra mondiale, durante la quale era stato più volte decorato. Congedato nel 1931, era tornato in servizio attivo allo scoppio della seconda guerra mondiale; avendo già esperienza di recuperi navali, effettuati durante gli anni Venti, Stenhouse fu chiamato a Massaua subito dopo la presa del porto, e lasciò l’Inghilterra all’inizio di aprile.
Giunto a Massaua, Stenhouse si mise subito all’opera sulla Giove, che venne rimessa in condizioni di galleggiamento, a seconda delle fonti, il 20 giugno 1941 od all’inizio di settembre dello stesso anno. La Giove fu la prima nave recuperata da Stenhouse a Massaua, ed anche l’ultima: il 12 settembre 1941, infatti, Stenhouse trovò la morte in Mar Rosso nell’affondamento del rimorchiatore Tai Koo, saltato su una mina.
Quanto alla Giove, venne riparata e trasferita, nel 1942, al Ministry of War Transport britannico, che le diede il nuovo nome di Empire Trophy, la registrò a Londra e la diede in gestione alla British Tanker Company Ltd.

Sotto il nuovo nome, la nave riprese a navigare con bandiera britannica, prendendo parte a numerosi convogli: il BP 68 (Bombay-Bandar Abbas, febbraio 1943), il PA 27 (Bandar Abbas-Aden, 3-10 marzo 1943), l’AP 24 (Aden-Bandar Abbas, 13-19 marzo 1943), il PB 34 (Bandar Abbas-Bombay, 4-10 aprile 1943), il BP 76 (Bombay-Bandar Abbas, aprile 1943), il PA 37 (Bandar Abbas-Aden, 4-11 maggio 1943), l’AP 31 (Aden-Bandar Abbas, 18-25 maggio 1943), il PB 44 (Bandar Abbas-Bombay, 12-18 giugno 1943), il BM 54A (Bombay-Colombo, 20-25 giugno 1943), l’MB 39 (Colombo-Bomvay, 28 giugno-2 luglio 1943), il BP 86 (Bombay-Bandar Abbas, 5-10 luglio 1943), il PB 49 (Bandar Abbas-Bombay, 22-28 luglio 1943), il BM 58 (Bombay-Colombo, 30 luglio-4 agosto 1943), l’MB 43 (Colombo-Bombay, 5-10 agosto 1943), il BP 91 (Bombay-Bandar Abbas, 14-19 agosto 1943), il PB 55 (Bandar Abbas-Bombay, 8-14 settembre 1943), il BP 95 (Bombay-Bandar Abbas, 16-23 settembre 1943), il PB 58 (Bandar Abbas-Bombay, 2-8 ottobre 1943), il BP 101 (Bombay-Bandar Abbas, 1-6 novembre 1943), il PB 64 (Bandar Abbas-Bombay, 19-26 novembre 1943), il BM 76 (Bombay Colombo, 27 novembre-2 dicembre 1943), il JC 28 (Colombo Calcutta, 3-12 dicembre 1943), il CJ 15 (Calcutta Colombo, 4-12 febbraio 1944), l’MB 65 (Colombo-Bombay, 13-18 febbraio 1944), il PA 72 (Bandar Abbas-Aden, 10-16 marzo 1944), l’AP 66 (Aden-Bandar Abbas, 29 marzo-5 aprile 1944), il PB 76 (Bandar Abbas-Bombay, 20-25 aprile 1944).
Il 2 settembre 1944 l’Empire Trophy giunse a Bombay dal Golfo Persico con problemi alle caldaie, e venne messa in disarmo. Non tornò più in mare: dopo due anni e mezzo di disarmo, nel marzo 1947 la nave venne portata ad incagliare e spogliata di ogni materiale che potesse tornare utile, poi venne demolita a Bombay. La Marina italiana l’aveva radiata ufficialmente dai propri quadri solo il 18 ottobre 1946.
 
Un’altra immagine del relitto della Giove a Massaua, dal medesimo filmato (British Pathé – Youtube).


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