lunedì 25 settembre 2017

Dubac

Il Dubac (da www.croinfo.net)

Piroscafo da carico da 2819 tsl e 1804 tsn, lungo 97,4 metri, largo 14,1 e pescante 6,46, con velocità di 8-9 nodi. Ex jugoslavo, appartenente alla società Dubrovacka Plovidba di Dubrovnik; iscritto nella Direzione Marittima di Spalato.
Con le sue 2819 tsl di stazza, il Dubac fu il bastimento (relativamente) più grande tra i pochi mercantili catturati dall’Italia in seguito all’invasione della Jugoslavia, in massima parte consistenti in navi di modesto tonnellaggio.

Breve e parziale cronologia.

15 luglio 1901
Varato come Dubac nel cantiere North Dock di J. Blumer & Co. Ltd., a Sunderland (numero di costruzione 161).
Agosto 1901
Completato per la Dubac S. S. Co. Ltd. di Ragusa/Dubrovnik (Dalmazia, oggi Croazia, all’epoca Impero Austro-Ungarico), di proprietà dell’armatore Matom Marinovich; bandiera austroungarica.
11 marzo 1902
Il Dubac entra in collisione con due chiatte e poi urta il molo a Middlesbrough, nel Regno Unito, danneggiando sia le chiatte che il molo.
1909
Acquistato dalla compagnia Navigazione a Vapore "Napried" di Ragusa (Dubrovnik), armatore R. Negrini.
1° maggio 1918
Trasferito alla flotta della neonata Dubrovačka Parobrodska Plovidba, sorta dalla fusione della "Napried" con un’altra compagnia di navigazione ragusea, la "Unione".
1919
Temporaneamente assegnato alla flotta delle Ferrovie dello Stato (Esercizio Navale FF. SS.), a seguito della vittoria italiana nella prima guerra mondiale e del collasso dell’Impero Austroungarico.
1920
Acquistato dalla Dubrovačka Parobrodska Plovidba di Ragusa (Dubrovnik), bandiera jugoslava.
1937
La compagnia armatrice cambia ragione sociale in Dubrovačka Plovidba A.D.
6 aprile 1940
Il Dubac, diretto a Venezia con un carico di grano e sospettato di essere coinvolto in traffico di contrabbando a favore della Germania (dalla Jugoslavia all’Italia via mare, e dall’Italia alla Germania via treno), viene fermato da unità britanniche in Mar Egeo, al largo della costa greca, e dirottato a Malta per controlli. Verrà successivamente rilasciato.
Dicembre 1940
Il Dubac, che si trova a Lisbona in attesa di nolo, viene noleggiato dal governo svizzero per conto del Comitato Internazionale della Croce Rossa. La nave si trova così a battere bandiera svizzera.
18 gennaio 1941
Il Dubac, con bandiera svizzera e contrassegni della Croce Rossa, inizia il primo di una serie di viaggi da Lisbona a Genova con aiuti umanitari, sotto l’egida della Croce Rossa.
29 marzo 1941
A seguito del colpo di Stato filobritannico in Jugoslavia, che prelude all’invasione italo-tedesca del Regno balcanico, il Dubac viene confiscato dalle autorità italiane a Genova, dove si trova (per altra fonte, arriva a Genova in giornata e viene subito confiscato).
Affidato alla Società Cooperativa di Navigazione Garibaldi, con sede a Genova; l’equipaggio jugoslavo viene sbarcato e sostituito da personale italiano.
28 maggio 1941
Il Dubac, in convoglio con le motonavi Città di Agrigento e Caldea, salpa da Taranto alle 4.55 con un carico di materiali vari e personale militare, sotto la scorta dell’incrociatore ausiliario Barletta e delle torpediniere Antares ed Aretusa. Il convoglio fa scalo ad Argostoli, dove si ferma la Città di Agrigento, e poi prosegue per Rodi, via Patrasso.
18 giugno 1941
Il Dubac lascia Rodi e rientra a Patrasso, da solo e senza scorta.
20 giugno 1941
Lascia Patrasso e torna a Taranto, ancora in navigazione isolata.
28 giugno 1941
Il Dubac ed il piroscafo Brundisium, privi di scorta, compiono un viaggio da Valona a Brindisi.
14 luglio 1941
Il Dubac, carico di materiali militari e derrate per la popolazione civile di Rodi, salpa da Brindisi insieme al piroscafo Monstella, carico di materiali vari, con la scorta dell’incrociatore ausiliario Egitto.
Le tre navi raggiungono Patrasso, da dove poi il Dubac prosegue per Rodi.
29 luglio 1941
Il Dubac ed il piroscafo Fertilia, scortati dalla torpediniera Lira, compiono un viaggio dal Pireo a Lero.
2 agosto 1941
Dubac e Fertilia lasciano Rodi e rientrano al Pireo, scortati dalla torpediniera Cassiopea.
12 settembre 1941
Compie un viaggio isolato da Porto Edda a Brindisi.
23 novembre 1941
Il Dubac ed il piroscafo Salvatore, scortati dall’incrociatore ausiliario Arborea, compiono un viaggio da Brindisi a Patrasso, da dove poi proseguono per Rodi.
7 dicembre 1941
Il Dubac ed il piroscafo Vesta, aventi a bordo 4900 tonnellate di materiali vari ed automezzi, salpano dal Pireo e raggiungono Rodi, scortati dalla torpediniera Libra e dal cacciatorpediniere Quintino Sella.
12 dicembre 1941
Dubac e Vesta lasciano Rodi, scortati dal cacciatorpediniere Francesco Crispi, e raggiungono Lero.
13 dicembre 1941
Dubac, Vesta ed un terzo piroscafo, l’Ezilda Croce, lasciano Lero sotto la scorta del Crispi e raggiungono il Pireo.
16 luglio 1942
Il Dubac compie un viaggio da Bari a Durazzo, solo e senza scorta.
25 luglio 1942
Rientra da Durazzo a Bari, sempre da solo e privo di scorta.
31 luglio 1942
Lascia Bari e raggiunge Valona, di nuovo in navigazione isolata.
20 agosto 1942
Riparte da Valona e torna a Bari, sempre da solo.
12 settembre 1942
Il Dubac ed il piroscafo Tagliamento salpano da Brindisi e raggiungono Patrasso, con la scorta della torpediniera Giacomo Medici.
20 settembre 1942
Il Dubac, avente a bordo 976 tonnellate di imbarcazioni e materiali vari della Regia Marina, salpa dal Pireo insieme al piroscafetto requisito Porto di Roma, con la scorta del cacciatorpediniere Sella, del minuscolo incrociatore ausiliario Pola e del dragamine ausiliario F 110 Giorgio Orsini. Il convoglio raggiunge Lero.
7 ottobre 1942
Lascia Lero e rientra al Pireo, scortato dal Sella.
2 dicembre 1942
Il Dubac salpa da Rodi, scortato dalla torpediniera Castore, e raggiunge Lero.
11 dicembre 1942
Il Dubac ed i piroscafi Arsia e Mameli, scortati dalla Castore e dalla cannoniera Mario Sonzini, lasciano Lero e rientrano al Pireo.
18 dicembre 1942
Dubac e Mameli, separatamente, salpano da Prevesa e raggiungono Brindisi.
2 febbraio 1943
Il Dubac salpa dal Pireo e raggiunge Lero, sotto la scorta del Sella.
6 febbraio 1943
Dubac ed Ezilda Croce lasciano Lero e raggiungono Rodi, scortati dal Sella e dalla nave scorta ausiliaria F 79 Morrhua.
14 febbraio 1943
Dubac e Sella lasciano Lero e raggiungono Sira.
24 febbraio 1943
Lascia Valona e raggiunge Brindisi.
27 marzo 1943
Compie un viaggio da Brindisi a Valona, da solo e senza scorta.
12 aprile 1943
Il Dubac, scortato dalla cannoniera Camogli e da un MAS, salpa dal Pireo e raggiunge Rodi, con scalo intermedio a Lero.
23 aprile 1943
Lascia Rodi e torna al Pireo, scortato da Sonzini e Camogli.
30 maggio 1943
Dubac e Caterina M., scortati dall’incrociatore ausiliario Lorenzo Marcello, salpano da Brindisi e raggiungono Corfù.
11 luglio 1943
Il Dubac salpa dal Pireo in convoglio con i piroscafi Ginetto, Hermada, Ezilda Croce e Goggiam, scortati dal cacciatorpediniere Crispi e dalle torpediniere Calatafimi e Solferino.
Il convoglio raggiunge Rodi.
17 luglio 1943
Dubac ed Ezilda Croce, scortati dall’Orsini, lasciano Rodi e raggiungono Lero.
25 luglio 1943
Il Dubac e la motonave Probitas salpano da Patrasso e raggiungono Bari, via Corfù, con la scorta delle torpediniere Francesco Stocco e Sagittario.
8 settembre 1943
Al momento dell’annuncio dell’armistizio di Cassibile, il Dubac si trova a Taranto.

Tragedia nel Canale d’Otranto

Uno dei drammi meno conosciuti della seconda guerra mondiale è, probabilmente, quello delle truppe italiane in Albania dopo l’armistizio di Cassibile.
Le forze d’occupazione italiane in Albania, alla data dell’8 settembre 1943, consistevano nelle sei divisioni di fanteria della 9a Armata del generale Lorenzo Dalmazzo: la 11a "Brennero", la 38a "Puglie", la 49a "Parma", la 41a "Firenze", la 53a "Arezzo" e la 151a "Perugia". A Tirana risiedeva anche il quartier generale del Gruppo d’Armate Est, retto dal generale d’armata Ezio Rosi.
Mentre gli alti comandi italiani mostrarono grande incertezza e scarsa propensione a resistere con le armi, quelli tedeschi agirono con efficienza e brutalità, attaccando gli italiani con due divisioni di cacciatori, una divisione da montagna ed una divisione corazzata. Rosi ed il suo Stato Maggiore furono circondati e catturati già il mattino dell’11 settembre, mentre Dalmazzo, anziché ordinare di reagire, avviava trattative con i tedeschi: questi pretendevano la cessione dell’artiglieria e delle armi individuali e la requisizione delle navi. Entro il mattino dell’11 fu firmato l’accordo, col quale agli italiani era concesso di mantenere solo le armi portatili, consegnando tutto il resto; comunque i tedeschi non mantennero nemmeno questa promessa.
Delle sei divisioni della 9a Armata, soltanto la "Firenze" prese fin da subito le armi contro i tedeschi, venendo poi progressivamente assorbita dalle formazioni partigiane locali; la "Parma", la "Puglie", la "Brennero" e la "Arezzo" vennero tutte disarmate dai tedeschi ed i loro uomini avviati alla prigionia, anche se alcuni riuscirono a scappare e (soprattutto della "Arezzo") si unirono anch’essi ai partigiani.
Diversa fu la sorte della Divisione "Perugia" (129° e 130° Reggimento Fanteria), al comando del generale di divisione Ernesto Chiminello. Le sue truppe erano divise in due blocchi principali: il comando di Divisione ed il 129° Reggimento Fanteria erano stanziati ad Argirocastro (Gjirokastra), mentre il 130° Reggimento Fanteria era dislocato a Tepeleni (Tepelenë).
Il 130° Fanteria, posto sotto il controllo del colonnello Giuseppe Adami (vice comandante della Divisione) e del colonnello Eugenio Ragghianti (comandante del Reggimento), si ritrovò isolato e senza ordini e, dopo lunghe traversie, accordi traditi dalle controparti e scontri sia con i tedeschi che con gli albanesi, finì col cedere le armi il 14 settembre; i suoi uomini vennero avviati verso i campi di prigionia di Mavrova e Drashovica, nei pressi di Valona, dove già erano stati rinchiusi gli uomini della Divisione "Parma". La notte successiva, tuttavia, un imponente attacco dei partigiani albanesi contro questi campi permise a molti uomini del 130° Fanteria e della "Parma" di fuggire; senza cibo, armi o comando, si diressero verso Santi Quaranta, dove speravano di trovare imbarco per l’Italia. Si dormiva all’aperto, sull’erba; già macellati muli e cavalli, alcuni dovettero barattare anche capi di vestiario con la popolazione locale per avere un po’ di cibo, mentre altri vennero spogliati e derubati dai partigiani stessi. Altri ebbero più fortuna, grazie all’operato del sottotenente Renato Ughi della Guardia di Finanza (egli stesso, appartenente al Battaglione G.d.F. di Valona, era stato catturato dai tedeschi ed era poi fuggito), che istituì – in collaborazione con i partigiani albanesi – un posto di sosta col quale gli sbandati in arrivo venivano rifocillati, registrati ed inquadrati in gruppi di almeno 100 uomini, che venivano poi avviati verso Santi Quaranta.

Ad Argirocastro, invece, il generale Chiminello non era intenzionato ad arrendersi, né ai tedeschi né agli albanesi: quando una colonna della 1a Divisione Corazzata tedesca giunse ad Argirocastro, Chiminello avviò trattative col comandante tedesco ed ottenne che la sua Divisione rimanesse in armi, con la condizione che non lasciasse Argirocastro o che, se costretta a spostarsi, si dirigesse verso Valona. I reparti tedeschi lasciarono poi Argirocastro, diretti a Valona; il giorno seguente (14 settembre), però, si presentarono dinanzi ad Argirocastro formazioni di partigiani nazionalisti albanesi, che pretesero dagli italiani la consegna delle armi. Chiminello rifiutò e gli albanesi attaccarono: l’attacco fu respinto con gravi perdite tra gli albanesi, mentre tra le fila italiane vi fu un solo caduto.
Dopo questo attacco, saputo che il porto di Santi Quaranta era ancora in mano italiana, i comandanti dei reparti del 129° decisero di raggiungerlo, nella speranza di riuscire a imbarcare le truppe su qualche nave che potesse portarle in Italia; Chiminello era contrario, avendo dato ai tedeschi la sua parola d’onore che non si sarebbe mosso o comunque si sarebbe diretto solo verso Valona, ma venne praticamente esautorato. Il 16 settembre la "Perugia" lasciò Argirocastro, incendiando la cittadella militare per non farla cadere intatta in mano nemica, ed iniziò a ripiegare verso la costa attraverso le montagne dell’Albania.

Nelle tre settimane che seguirono all’armistizio, la Regia Marina si profuse di sforzi per recuperare e portare in Italia quanti più possibili militari e civili italiani, in ritirata dalla Dalmazia, dall’Albania, dalla Grecia e dalle isole dell’Adriatico e dello Ionio, incalzati dalle forze tedesche decise a schiacciare ogni resistenza. In tre settimane di viaggi compiuti con piroscafi, motonavi, torpediniere, corvette, unità minori ed ausiliarie, fu possibile trasportare tra i 22.000 ed i 25.000 uomini attraverso le due sponde dell’Adriatico e dello Ionio, sottraendoli alla cattura da parte tedesca. Ciò non avvenne senza un pegno: diverse navi furono affondate dagli aerei della Luftwaffe, con centinaia di vittime, forse un migliaio in tutto. Altre decine di migliaia di uomini, militari e civili, rimasero bloccati sull’altra sponda dell’Adriatico: dall’Albania, in tutto, non sarebbe stato possibile rimpatriare nemmeno 6000 uomini, tutti evacuati attraverso il porto di Santi Quaranta (odierna Saranda, all’epoca  chiamata anche Porto Edda, nome imposto nel 1939 in onore della figlia maggiore di Mussolini, Edda), su un totale di circa 140.000.
Il 20 settembre fu fatto presente ai comandi Alleati che era necessario trovare i mezzi per recuperare 30.000 soldati italiani bloccati a Spalato e Santi Quaranta.
Santi Quaranta era presidiata, al momento dell’armistizio, da 5000 uomini al comando di un colonnello, ma verso la metà di settembre questi uomini avevano lasciato il porto albanese per trasferirsi a Corfù, dove andarono a rinforzare la guarnigione dell’isola. Anche il poco personale della Marina ivi presente si era spostato a Corfù, compreso il comandante della Capitaneria di Porto, capitano di porto Gaspare Pugliese, che fu poi fatto tornare a Santi Quaranta per dirigere l’imbarco delle truppe.

Intanto, i partigiani nazionalisti albanesi avevano intralciato ancora il ripiegamento del 129° Reggimento della "Perugia", scatenandone la rappresaglia contro un villaggio, che fu dato alle fiamme, e chiedendo di nuovo la consegna delle armi: il generale Chiminello raggiunse infine un accordo in base al quale i reparti italiani avrebbero consegnato le armi agli albanesi, ma solo al momento d’imbarcarsi per l’Italia; nel frattempo, gli albanesi avrebbero dovuto garantire il rifornimento di viveri (la popolazione provvide a distribuire pane tra i soldati) ed un tragitto sicuro fino a Santi Quaranta.
Nel pomeriggio del 21 settembre 1943, due aerei italiani si abbassarono sulla colonna di soldati della "Perugia" in ritirata presso Delvino, e lanciarono un messaggio indirizzato al generale Chiminello: in esso si avvertiva che navi italiane sarebbero giunte entro breve a Santi Quaranta, per trarre in salvo gli uomini della Divisione. I soldati, rinvigoriti dalla speranza dell’imbarco e del ritorno in Italia, proseguirono con maggior vigore nella lunga marcia che si sperava dovesse portarli alla salvezza.
Già un primo convoglio, formato dalla motonave Probitas e dalle torpediniere Sirio e Clio, aveva raggiunto Santi Quaranta il 19 settembre, imbarcando 1750 uomini che furono portati in Italia il giorno seguente.
Il Dubac salpò da Brindisi il 21 settembre con il secondo convoglio, insieme alla nuovissima motonave Salvore e con la scorta della moderna corvetta Sibilla e della vecchia torpediniera Francesco Stocco. Quando il convoglio raggiunse Santi Quaranta, la sera del 22, vi trovò una situazione già grave: i viveri scarseggiavano tra le truppe in attesa di soccorso, tanto che alcuni ufficiali, all’arrivo delle navi, chiesero se avessero portato delle provviste; ma la risposta non poté che essere negativa, dato che non c’era stata alcuna richiesta in tal senso.
Ad attendere le navi c’erano non solo i soldati del 129° Fanteria "Perugia" lì arrivati col generale Chiminello, ma anche molti uomini del 130° Fanteria e della Divisione "Parma", imprigionati dai tedeschi ma fuggiti dal campo di Drashovica. Logori e affamati, erano quelli nelle condizioni peggiori.
Iniziò quindi l’imbarco, sotto la direzione del tenente colonnello Emilio Cirino, che diede ordine di imbarcare per primi i feriti e gli uomini rimasti senz’armi. Disperando di riuscire ad imbarcarsi, molti soldati che le armi le avevano preferirono gettarle lontano, per poter salire a bordo prima che non rimanesse più posto. Così, un po’ discosta dalla massa di uomini in attesa di imbarco, si andò formando un’enorme catasta di fucili, moschetti e pistole gettate via.
Dopo aver imbarcato quanti più militari possibile (circa 1500, probabilmente), in prevalenza ex prigionieri del 130° Fanteria e della "Parma" nonché un primo gruppo di feriti e traumatizzati ricoverati presso l’ospedale divisionale della "Perugia", Dubac e Salvore ripartirono per Brindisi.
Partì con loro anche il tenente colonnello Cirino, con il compito di riferire sulla disperata situazione della "Perugia" e di chiedere ordini precisi al Comando Supremo a Brindisi, nonché di procurarsi un nuovo cifrario (quello a disposizione della "Perugia" era stato bruciato all’atto dell’abbandono di Argirocastro) e di chiedere che a Santi Quaranta venisse inviata anche una nave ospedale. Aveva dato la sua parola di ufficiale che sarebbe tornato in Albania con quegli ordini.
Il convoglio giunse a Brindisi il 23: sbarcato il loro carico umano, le navi si prepararono a ripartire per un nuovo viaggio di soccorso.

Alle 5.20 del 24 settembre il Dubac, in convoglio con Probitas e Salvore ed ancora la scorta di Stocco e Sibilla, salpò quindi da Brindisi diretto a Santi Quaranta, per recuperare gli altri uomini ancora bloccati sulla costa albanese. Ora sui mercantili c’erano anche alcune tonnellate di viveri da distribuire ai soldati affamati, in adempienza alla richiesta ricevuta durante il precedente viaggio, e munizioni.
Durante la navigazione, alle ore 13, la Stocco ricevette ordine di lasciare la scorta del convoglio e dirigersi verso Corfù, dove stavano sbarcando truppe tedesche, per aiutare nella difesa dell’isola; non ci arrivò mai, affondata con quasi tutto l’equipaggio dai bombardieri della Luftwaffe.
Il Dubac e le altre navi proseguirono invece verso Santi Quaranta, dove arrivarono alle 22 del 24 settembre. Qui trovarono ad attenderle migliaia di uomini disperati: ai soldati della "Parma" e della "Perugia", la cui situazione diveniva sempre più grave col passare del tempo, si erano uniti altri soldati sbandati, giunti dall’Epiro interno ed anche dalla Croazia orientale e dalla Slavonia nel tentativo di trovare una nave in partenza per l’Italia. Lungo la strada molti, già disarmati dai tedeschi, erano stati derubati dai partigiani albanesi e jugoslavi, che si erano presi tutto ciò che potesse tornare utile, calzature comprese; gran parte dei soldati in attesa d’imbarco erano in uno stato pietoso: laceri, scalzi, disarmati, con le divise a brandelli.
L’imbarco delle truppe avvenne nella notte tra il 24 ed il 25, nell’oscuramento totale, di nuovo sotto la supervisione del tenente colonnello Cirino, tornato dall’Italia come promesso con gli ordini richiesti: imbarcare quanti più uomini possibile per evitare la cattura da parte delle truppe tedesche, e consegnare le armi agli albanesi all’imbarco dell’ultimo scaglione.
Le notizie che arrivavano erano una peggiore dell’altra: Cefalonia era caduta, ed i tedeschi avevano iniziato a massacrare gli uomini della Divisione "Acqui" che la presidiava; e da Santi Quaranta i soldati potevano vedere direttamente la vicina Corfù martellata dai bombardamenti tedeschi. La Probitas, la nave più grande del convoglio (e che avrebbe potuto imbarcare il maggior numero di uomini), era entrata in porto in lieve ritardo per problemi ai motori, che ora le impedivano di ripartire. Molti uomini dovettero così essere lasciati a terra; dietro ordine del tenente colonnello Cirino, il Dubac e la Salvore imbarcarono circa 2700 militari (ma, nella fretta di terminare l’imbarco e ripartire per l’Italia il prima possibile, non fu fatta una conta precisa del numero di uomini imbarcati, né tanto meno redatti elenchi nominativi), dando la precedenza a feriti e ammalati. Di nuovo, dovevano imbarcarsi per primi i soldati senz’armi.
L’imbarco delle truppe, iniziato alle 21.30, richiese in tutto quattro ore.
Sempre per ordine del tenente colonnello Cirino, sul Dubac furono fatti salire per primi i soldati sbandati, rimasti senza armi, equipaggiamento ed in molti casi anche uniforme: s’imbarcarono quindi sul piroscafo quasi tutti i militari della Divisione  "Parma" (49° e 50° Reggimento Fanteria) fuggiti in queste condizioni dal campo di Drashovica, oltre a molto personale della Divisione "Perugia". Di fatto, sia sul Dubac che sulla Salvore salirono soltanto soldati disarmati.
Quando giunse il momento di partire, il ponte del vecchio piroscafo traboccava di uomini, sistemati ovunque vi fosse posto: secondo una fonte, non confermabile, sul Dubac trovarono posto 1200 soldati. Erano sistemati ovunque in coperta, in parte seduti, i più in piedi, per mancanza di spazio. Quasi nessuno aveva il salvagente; i pochi disponibili erano di tipo antiquato.
Terminato l’imbarco, il convoglio ripartì per l’Italia verso le due o le tre di notte del 25, lasciando a Santi Quaranta altre migliaia di soldati e ufficiali in disperata attesa. Nessuno sarebbe venuto a salvarli: Dubac, Salvore e Sibilla erano le ultime navi italiane a lasciare l’Albania. La Probitas, impossibilitata a muovere, fu affondata quello stesso giorno da ripetuti attacchi aerei tedeschi.

Verso le 7.30 si unì al convoglio, per rinforzare la scorta in sostituzione della Stocco, la torpediniera Sirio; questa si posizionò sulla sinistra del Dubac, che procedeva in testa al piccolo convoglio, seguito dalla Salvore, che era protetta dalla Sibilla sul lato di dritta. Le navi procedevano lentamente, dovendosi adeguare alla scarsa velocità del vecchio e lento Dubac.
La Luftwaffe, però, avvistò il convoglio intorno alle sei del mattino, in mezzo al Canale d’Otranto. Dapprima apparve un ricognitore, da solo: l’unica mitragliera contraerea di cui disponeva il Dubac aprì il fuoco, inducendolo ad andarsene. Ma ormai aveva visto e segnalato il convoglio.
I tedeschi non intendevano permettere nemmeno alle tre navi rimaste di tornare indenni in Italia: verso le 7.45 del 25, infatti, il convoglietto venne assalito improvvisamente da dodici bombardieri in picchiata Junkers Ju 87 “Stuka”, decisi ad impedire sia il rientro in Italia delle truppe italiane che l’eventuale (e mai avvenuto) invio di rinforzi italiani in Albania. Gli Stukas attaccarono in più ondate, di tre velivoli ciascuno, scendendo in picchiata e mitragliando per poi sganciare le bombe.
Le navi italiane si diradarono immediatamente, manovrando rapidamente per rendere più difficile il compito ai bombardieri, e reagirono con le loro armi contraeree, colpendo due dei velivoli tedeschi.
Il Dubac non aveva molto con cui difendersi: il suo unico armamento consisteva in una singola mitragliera contraerea, che fu subito centrata e distrutta da una bomba; e vecchio e lento com’era – la sua velocità massima era stata di otto nodi, in tempi migliori – non poteva manovrare efficacemente per evitare di essere colpito (nelle parole del comandante della Sibilla: "Bersaglio troppo facile da colpire, carretta del mare lenta e poco manovrabile. Si vede che non avevano altro da mandare").
Senz’armi, i soldati ammassati sul piroscafo erano del tutto inermi; alcuni si buttarono a terra, altri si tuffarono in mare, altri ancora scoppiarono a piangere.
Gli Stukas mitragliarono il Dubac a volo radente, falciando gli uomini ammassati alla rinfusa sui ponti scoperti, e piombarono su di esso in picchiata, colpendolo con due o tre bombe, provocando una vera e propria carneficina tra i soldati: secondo una fonte, i morti furono più di 200.
Molti uomini, in preda al panico, si gettarono in mare, allontanandosi a nuoto; gran parte di questi, se non tutti, annegarono o scomparvero in mare. A bordo del piroscafo scoppiò il caos, e nella calca altri uomini rimasero schiacciati, uccisi o feriti.
Il maresciallo dei Carabinieri Antonio Casuale, della "Parma" (era uno dei molti soldati disarmati dai tedeschi, rinchiusi a Drashovica e poi fuggiti), si ritrovò sporco di sangue, sepolto sotto i corpi di cinque o sei uomini, tutti i morti. Furono proprio i loro cadaveri a proteggerlo: Casuale uscì pressoché illeso dall’attacco, soltanto sfiorato da una pallottola che gli “strisciò” sulla schiena senza causare ferite.
Il sottotenente medico Minozzi, che assisté alla scena dalla Salvore, così descrisse la scena: “Il Dubac, sovraccarico di militari stipati in coperta, tosto immobilizzato, crivellato di mitraglia e inesorabilmente bombardato dal terrificante carosello aereo, più non governa e sbanda sulla fiancata di destra. Centinaia di soldati trovano la morte, sono orrendamente feriti, dispersi in mare periscono per annegamento. Con paurosa inclinazione il relitto, col suo carico dolorante, raggiunge Capo d’Otranto e si incaglia sulle scogliere. Lo visiterò qualche giorno più tardi, rendendomi conto con maggiore esattezza dell’immane sinistro”.

L’attacco terminò dopo circa venti minuti. Il Dubac imbarcò acqua da varie falle e prese a sbandare sulla sinistra, minacciando di capovolgersi, ma nonostante i gravi danni continuò a navigare, forzando le caldaie al massimo della pressione per cercare di raggiungere la costa italiana. Secondo quanto annotato da alcuni sopravvissuti e testimoni, tra cui Renato Ughi, Alessandro Minozzi (sottotenente medico del 49° Ospedale da Campo, che assisté alla tragedia dalla Salvore) e Pierino Terzoli, la nave si fermò e sbandò su un fianco, restando immobilizzata, poi rimise in moto un motore a velocità molto ridotta, restando sempre sbandata.
Ristabilito a bordo un po’ di ordine, i soldati rimasti illesi ricevettero ordine di spostarsi sul lato di dritta, per cercare di controbilanciare lo sbandamento, mentre si cercava di prestare soccorso ai feriti. Molti non poterono essere soccorsi, mancando del tutto i mezzi necessari a bordo del Dubac.
Il caporale Pierino Terzoli, gravemente ferito ad un braccio, in due punti, da colpi di mitragliatrice durante l’ultima ondata, salì sul ponte di comando per chiedere aiuto, dato che stava perdendo molto sangue; il comandante del Dubac lo vide e strappò allora una bandierina di segnalazione, che usò per fasciargli strettamente il braccio appena sotto la spalla. Appena disceso, però, Terzoli svenne; si riprese successivamente in una cabina, dove un ufficiale che lo conosceva si stava adoperando al meglio per prestargli le cure del caso.
Il sottotenente Ughi della Guardia di Finanza, rimasto quasi indenne (aveva ricevuto solo ferite superficiali da schegge al volto ed alla schiena), svuotò gli zaini dei morti della biancheria e la utilizzò per bendare alla meglio i feriti. Lo aiutarono altri due militari della Guardia di Finanza, il sottobrigadiere Attilio Dodi ed il finanziere Luigi Addante; i tre utilizzarono come disinfettante alcune bottiglie di acqua di colonia. Prestati i primi soccorsi ai feriti, Ughi, Dodi e Addante, insieme ad altri, fecero un po’ di spazio sul ponte, raccogliendo i corpi dei morti sparsi dappertutto ed ammucchiandoli al centro della nave.
Ughi trovò sul ponte anche il brigadiere della Guardia di Finanza Giovanni Zanin, uno dei suoi sottoposti, in condizioni gravissime; perdeva molto sangue da numerose ferite. Ughi si chinò su di lui per soccorrerlo, e subito Zanin cercò di rizzarsi su un fianco, gli buttò al collo il braccio destro (che era rimasto indenne) e gli disse, sorridendo, “Questa volta è andata male. Non importa. Lo spirito è sempre alto. E l’Italia è vicina”. Ughi gli disse di restare calmo e gli fasciò alla meglio le ferite più gravi, per evitare che morisse dissanguato; poi, giudicate le sue condizioni abbastanza rassicuranti, lo lasciò, affidandolo ad Addante, e si volse a soccorrere altri feriti.
Quando il grado di sbandamento del Dubac divenne pericoloso, il comandante della Sirio (capitano di corvetta Antonio Cuzzaniti), che aveva raggiunto la nave colpita per prestarle assistenza, ordinò al piroscafo di portarsi all’incaglio sulla costa pugliese, un miglio a nord del faro di Otranto. Ciò avvenne, a seconda delle fonti, alle undici od a mezzogiorno.
I molti feriti del Dubac, a partire dai più gravi, furono trasbordati sulla Sirio, appositamente affiancatasi al piroscafo, che provvide a trasportarli rapidamente a Brindisi. Il marinaio stereotelemetrista Antonio Angelo Caria, imbarcato sulla Sibilla, ricordò in seguito che la tolda della Sirio e la murata sinistra del Dubac erano entrambe cosparse di sangue.
Il resto dell’equipaggio e delle truppe imbarcate sul Dubac, che era ancora sbandato, furono invece presi a bordo da sei motopescherecci e motovelieri accorsi da Otranto. Un ufficiale cercò di disciplinare l’abbandono della nave, raccogliendo gli uomini rimasti illesi affinché aiutassero a trasbordare i feriti sulle imbarcazioni soccorritrici; solo quando tutti i feriti furono trasferiti sulle altre unità ebbe inizio il recupero degli uomini rimasti illesi. I pescherecci sbarcarono i superstiti sulla costa otrantina; molti, dopo tutto quello che avevano passato, baciarono la terra, si misero a piangere per la felicità. Molti cercavano i propri amici e commilitoni, cercando di scoprire se fossero vivi o morti, illesi o feriti.
Parte dei naufraghi furono rifocillati in un istituto di suore di Otranto, altri furono accolti e ristorati da famiglie del luogo; successivamente furono trasportati a Lecce, dove furono rivestiti. 
Il caporale Terzaroli, portato a terra da un motoveliero alle 11.30, venne caricato su un’ambulanza ad Otranto solo sei ore più tardi; da qui fu trasportato nell’Ospedale Militare "Caserma Trizio" di Lecce, dove giunse intorno alle otto di quella sera. Vi sarebbe rimasto ricoverato fino al 12 ottobre.


Due drammatiche immagini scattate da bordo della Sibilla: sopra, il Dubac, visibilmente sbandato, arranca verso la costa seguito dalla Sirio; sotto, il Dubac si porta all’incaglio, sempre assistito dalla Sirio (Coll. Antonio Angelo Caria, via it.wikipedia.org)


La Salvore, grazie all’efficace reazione delle sue armi contraeree, riuscì a raggiungere Brindisi senza danni. Ben più drammatico fu l’arrivo a Brindisi della Sirio, carica di feriti del Dubac: mentre gli infermieri, subito accorsi al molo, sbarcavano i feriti, i marinai cercavano di lavare via il sangue dalla tolda, tingendo di rosso il mare tutt’attorno. Un alpino, ancora in testa il cappello con la penna, ma senza più mani né gambe, morì mentre stava per essere portato a terra. Fu suonato il silenzio, la bandiera calata a mezz’asta. Vittorio Emanuele III, il volto stravolto dopo aver assistito alla terribile scena, si ritrasse dalla finestra del palazzo che aveva eletto a residenza dopo la sua fuga a Brindisi.

Non fu meno triste la sorte del resto della Divisione "Perugia", rimasto bloccato in Albania: caduta Corfù il 26 settembre, ogni altro invio di navi a Santi Quaranta divenne impossibile; quello stesso giorno alcune unità navali tedesche attaccarono il porto albanese, venendo respinte ma provocando l’esplosione e l’incendio del deposito munizioni e dei magazzini dei viveri. Un Macchi 205 lanciò un nuovo messaggio per il generale Chiminello: l’ordine era di trasferirsi a Porto Palermo, dove sarebbe stato possibile inviare delle navi per recuperare il personale della "Perugia".
Poco dopo aver iniziato la marcia, però, i 4000 soldati che restavano a Chiminello furono fermati dai partigiani albanesi, che pretesero ancora una volta la consegna delle armi; Chiminello finì col cedere, dopo lunghe trattative.
Ormai disarmati, gli uomini della "Perugia" proseguirono fino a Borsh, località nei pressi di Porto Palermo, e qui attesero invano. Il 29 settembre era frattanto sbarcato a Santi Quaranta il I Battaglione del 99. Gebirsjägerregiment della 1. Gebirgs Division, che diede inizio al rastrellamento degli italiani. La storia operativa di questa unità della Wehrmacht grondava sangue già da lungo tempo: la 1. Gebirgs Division aveva massacrato centinaia di civili in Jugoslavia, Albania e Grecia, ed appena pochi giorni prima della resa della "Perugia" aveva partecipato al massacro della "Acqui" a Cefalonia.
Nei giorni seguenti, il grosso dei militari italiani venne catturato dai tedeschi, mentre altri si dispersero sulle montagne circostanti.
La rappresaglia tedesca fu terribile: tra il 4 e l’8 ottobre, il generale Chiminello e 129 ufficiali della "Perugia" (e della "Parma", della quale un battaglione si era aggregato agli uomini di Chiminello), compreso il tenente colonnello Cirino che non era ripartito per l’Italia, vennero fucilati tra la baia di Limione e la località di Kuç, nell’entroterra albanese. Sottufficiali e soldati vennero avviati alla prigionia in Germania.
Non ebbero sorte migliore quanti riuscirono a sottrarsi alla cattura: in pochi (circa 170, che andarono con altri a formare il Battaglione "Antonio Gramsci") poterono unirsi ai partigiani albanesi, che qui, a differenza che altrove, mostrarono scarsa propensione ad accettare tra i loro ranghi gli ex nemici italiani: i nazionalisti, anzi, uccisero o derubarono molti italiani per vendicarsi delle perdite subite ad Argirocastro.
Abbandonati a sé stessi in un ambiente ostile, tra truppe tedesche da una parte e partigiani albanesi equamente maldisposti dall’altra, i soldati della "Parma" e della "Perugia" si dispersero sui monti dell’Albania: alcuni trovarono ospitalità presso famiglie del luogo, in cambio del loro lavoro come braccianti a condizioni che rasentavano la schiavitù, mentre altri morirono di fame, di freddo e di stenti nei mesi successivi (secondo documenti britannici, basati sui rapporti degli agenti del S.O.E. in Albania, nell’inverno 1943-1944 la mortalità tra i circa 45.000 soldati italiani dispersi in tutta l’Albania fu di un centinaio di decessi al giorno).

Non essendo stata stesa una lista con i nomi degli uomini imbarcati, non esistono dati certi su quante furono le vittime del Dubac: molti degli uomini che morirono su quella nave, con ogni probabilità, risultano ancora oggi dispersi. Ad oggi risultano noti i nomi di almeno 76 militari deceduti sul piroscafo, ai quali sono da aggiungersi almeno 7 civili, di cui 5 membri dell’equipaggio. Altre fonti parlano di oltre 100 morti e 200 feriti, o di 160 morti e 360 feriti, o di oltre 200 morti (il caporale Terzoli, nei suoi appunti di quei giorni, riporta che “ci furono 500 morti circa ed altrettanti feriti”, ed anche il sottotenente Minozzi parla di centinaia di soldati morti o scomparsi, ma si tratta forse di esagerazioni).
Le salme recuperate a bordo del Dubac furono trasportate al cimitero di Otranto su carretti militari trainati da muli; molte delle vittime riposano oggi nel Sacrario di Otranto.


Parziale elenco delle vittime del Dubac:

Vito Donato Addabbo, maresciallo dei carabinieri (5a Brigata CC RR), 31 anni, da Avetrana
Bartolo Francesco Amato, appuntato Btg. Regia Guardia di Finanza, 38 anni, da Lampedusa
Giulio (o Tullio) Amorosi, fante, 23 anni, da Montefortino
Donato Andria, soldato 129° Rgt. Fanteria
Domenico Assaloni, soldato 49° Rgt. Fanteria
Domenico Azzolini, soldato, 20 anni, da Molfetta
Adriano Barbiani, capitano c.te 9a Cp. 49° Rgt. Fanteria, 33 anni, da Bagnolo Mella
Francesco Baroni, soldato 50° Rgt. Fanteria, 27 anni
Mario Bertini, autiere
Ercole (o Ettore) Bossi, soldato, 35 anni, da Malnate
Antonio Braj, fante, 27 anni, da Trento
Filippo Brancaleone, soldato, 26 anni, da Terrasini Favarotta
Matteo Brandini, nostromo, da Genova (membro dell’equipaggio)
Eugenio Campanella, soldato, 22 anni, da Cassano allo Jonio
Emanuele Campanello, soldato, 32 anni, da Forenza
Daniele Camperato, soldato 129° Rgt. Fanteria
Giuseppe Cannizzaro, soldato, 27 anni, da Grammichele
Salvatore Caparello, marinaio, 29 anni, da Sambiase
Giuseppe Caporello, soldato
Giuseppe Catalone, soldato 49° Rgt. Fanteria
Ottavio Cerruti, soldato 50° Rgt. Fanteria
Francesco Chionna (o Chion), sergente
Agide Cocchi, soldato 49° Rgt. Fanteria, 27 anni, da Colorino
Giuseppe Codeluppi, fante, 29 anni, da Campegine
Luigi Coppari, carabiniere
Donato Corvaglia (o Caroviglia), soldato, 28 anni, da Spongano
Francesco Antonio Costa, soldato 130° Rgt. Fanteria, 29 anni, da Zollino
Giuseppe D’Amore, carbonaio, da Monopoli (membro dell’equipaggio)
Adolfo Della Maina, sergente maggiore
Salvatore De Rosa, geniere, 23 anni, da Cantiano
Sabatino Di Federico, soldato 49a Divisione "Parma", 32 anni, da Teramo, disperso
Olimpio Di Liecco, soldato
Giuseppe Di Lillo, carabiniere ausiliario Legione CC RR di Valona, 22 anni, da Gildone
Di Giacomo …, fante
Paolo Di Marco, fante, 29 anni, da Sessa Aurunca
Giuseppe Fabbri, soldato, 35 anni, da Camogli
Farinelli …, soldato
Attilio Fasani (o Fasari), soldato, 26 anni, da Valera Fratta
Ernesto Flaviani (o Flavini), soldato, 23 anni, da Cellino Attanasio
Giuseppe Frabbi, cameriere, da Genova (membro dell’equipaggio)
Francesco Ghionna, da Otranto
Valentino Ginanneschi, brigadiere 112a Sez. Mista Carabinieri (Div. "Perugia"), 32 anni, da Castel del Piano
Grillo …, civile, disperso
Fiorito Grisanti, geniere, 29 anni, da Vetto
Aristide Grossi, soldato, 21 anni, da Fabriano
Leonardi …, soldato
Fulvio Iannotti, soldato, 23 anni, da Ari
Girolamo Licci, da Ruffano
Adolfo Linardi, soldato 130° Rgt. Fanteria, 20 anni, da Castiglione Cosentino
Adolfo (o Angelo) Lorini, soldato, 21 anni, da Chiari
Giovanni Magliulo, soldato
Battista Mancini, soldato, 36 anni, da Scoppito
Giuseppe Manzo, soldato
Armando Martinelli, soldato 50° Rgt. Fanteria
Giuseppe Mastrandrea, fante, 32 anni, da Casascalenda
Carmelo (o Giuseppe) Mento, sergente, 25 anni, da San Pier Niceto
Antonio Mischio, soldato, 26 anni, da Veggiano
Annibale Morandini, 22 anni, soldato, 49a Sezione Fotoelettricisti (Divisione "Parma"), disperso
Nazareno Mosconi, soldato
Giovanni Nicol, soldato, 35 anni, da Rivoli
Vittorio Pagliaretta (o Pigliarella), soldato, 29 anni, da Pedaso
Giulio Palazzo, soldato
Antonio Palma, da Palmariggi
Giovanni Palmieri, capo fuochista, da Bari (membro dell’equipaggio)
Giovan Battista Paparoni, maresciallo maggiore richiamato dei carabinieri, 56 anni, da Viterbo
Giacomo Pascale, soldato, 20 anni, da Castellana Grotte
Giuseppe Passati, soldato
Giuseppe Persegnani (o Persecani), soldato
Antonio Pilsano (o Pulsano), soldato, 22 anni, da Giuggianello
Elia Plantera, da Collepasso
Antonio Polinelli, soldato, 26 anni, da Alseno
Mario Roda, autiere, 19 anni, da San Tommaso Agordino
Michelino Rollo, da San Donato
Antonio Rosanelli, soldato 49° Rgt. Fanteria, 29 anni, da Pietracatella
Adelmo (o Aldino) Salmi, fante
Rosario Saluto, soldato 151° Btg. Genio
Antonio Scarano, soldato 130° Rgt. Fanteria, 31 anni, da Trivento
Giuseppe Schirinzi, soldato
Marco Scola (o Scolo), soldato, 26 anni, da Carenno
Antonio Serra, soldato, 21 anni, da Ostellato
Giuseppe Speranza, fante
Giuseppe Svecci, soldato
Franco Tani, soldato, 21 anni, da Empoli
Provino Tassone, soldato
Sebastiano Testa, fante, 28 anni, da Cercemaggiore
Francesco Tucci, tenente, 34 anni, da Torre Annunziata
Mario Ugolini, caporale, 27 anni, da San Giovanni Lupatoto
Vincenzo Varrastro, soldato, 30 anni, da Avigliano
Leonardo Villani, da Sternatia


Quanto al Dubac, pochi giorni dopo l’incaglio il vecchio piroscafo – aveva 42 anni – affondò in acque poco profonde là dov’era stato fatto incagliare.
Il suo relitto giacque dimenticato per un paio d’anni, ma dopo la fine del conflitto le autorità della Jugoslavia domandarono della sorte del Dubac, e se fosse possibile un suo recupero. Inizialmente furono fornite delle informazioni sbagliate, secondo le quali la nave era stata sabotata dal suo equipaggio a Taranto nel settembre 1943, ma nel giro di poco tempo le autorità jugoslave poterono essere informate che il Dubac, impegnato nell’evacuazione di truppe italiane dall’Albania, era stato bombardato da aerei tedeschi e portato all’incaglio presso Otranto, dov’era affondato pochi giorni dopo per i danni subiti.
Il relitto venne individuato ed esaminato da alcuni esperti, i quali sostennero che i danni non fossero esageratamente gravi, e che il recupero e riparazione della nave sarebbe stato conveniente.
Riportato a galla, il vecchio piroscafo venne rimorchiato a Fiume – ormai annessa alla Jugoslavia e divenuta Rijeka – nell’agosto del 1946, per essere sottoposto alle necessarie riparazioni nei cantieri del Quarnaro. Erano però molte le navi che necessitavano di riparazioni, nella Jugoslavia dell’immediato dopoguerra: il vecchio Dubac finì con l’essere messo da parte, perché la capacità di riparazione degli oberati cantieri doveva prima essere destinata a navi più grandi e più moderne.
Dopo tre mesi di attesa a Fiume, il Dubac venne rimorchiato nella baia di Soline, nell’isola di Veglia/Krk, e poi nella baia di Klimno, sempre nella medesima isola. Qui fu posto in disarmo a metà novembre 1946; nonostante non fosse che un relitto in attesa di qualcuno che decidesse del suo destino, le autorità jugoslave si presero frattanto la briga di cambiargli il nome, per la prima volta dopo 45 anni, ribattezzandolo Šolta.
Rappezzato alla meglio dopo il recupero ad Otranto, tuttavia, il piroscafo non aveva ricevuto altre riparazioni più estese, e così il 9 dicembre 1946 finì con l’affondare di nuovo nei bassi fondali della baia di Soline.
Ciò non impedì il governo della repubblica di Jugoslavia, il 20 gennaio 1947, di assegnare il Šolta – che pure in quel momento giaceva sui fondali dell’isola di Veglia – alla neocostituita Jugoslavenska Linijska Plovidba (Jugolinija) di Fiume.
Questo cambio di proprietà non ebbe però l’effetto di risvegliare l’interesse di chicchessia nei confronti della vecchia nave, che continuò a languire semiaffondata a Soline per ben otto anni.
Nell’autunno del 1954, infine, venne presa una decisione: non valeva la pena di riparare una nave tanto vecchia e malconcia. Il Šolta sarebbe stato demolito per recuperarne il metallo.
La ditta Brodospas di Spalato, specializzata nei recuperi, fu incaricata dell’ultimo capitolo della vita di questa nave: riportato a galla con l’ausilio di cilindri di sollevamento, l’ex Dubac fu rimorchiato a metà ottobre 1954 nel cantiere di demolizione di Svetome Kaji, e demolito entro il 1955.


Così ricordò le missioni di rimpatrio truppe dall’Albania ed il bombardamento del Dubac il marinaio stereotelemetrista Antonio Angelo Caria, imbarcato sulla Sibilla:

“Alla grande confusione e sbandamento generale in cui si é trovata l'Italia, dopo l'8 settembre 1943-in seguito all'armistizio, si é aggiunto il dramma delle nostre Armate dislocate nei balcani e che andavano rimpatriate. I Comandanti di quelle Armate non hanno trovato di meglio ove far convergere i loro soldati nel punto più sbagliato, a Santi Quaranta-in Albania, a uno sputo da Corfù ove i tedeschi avevano un aeroporto agibile ed efficiente. A Santi Quaranta, il Genio Trasmissioni aveva messo su un ponte radio attraverso il quale, insistentemente, quei Comandanti premevano presso il Comando Supremo (che Supremo non era più), affinchè si attivasse per disporre il rimpatrio dei loro soldati. Per tale insistenza, sono stati approntati il piroscafo Dubac e la motonave Salvore, scortati dalla Torpediniera Sirio e dalla Corvetta Sibilla. Arrivati a Santi Quaranta, alcuni Comandanti ci hanno chiesto se avevamo portato dei viveri. La risposta del Comandante del Sirio é stata che non avevamo portato dei viveri perchè non richiesti. Comunque, a presiedere l'imbarco, ordinatamente era stato destinato un Colonnello che faceva imbarcare per primi i disarmati. Molti soldati, vedendo come si procedeva e perchè non erano fessi, buttavano le armi un po lontano, cosi potevano imbarcarsi pure loro. Per tale motivo, lontano, si é formata una catasta enorme di moschetti e pistole, buttate e abbandonate.
Siamo ripartiti con i due mercantili, stipati all'inverosimile, raggiungendo Brindisi il giorno dopo. Nel giro di pochi giorni, é stata approntata la nuova missione per Santi Quaranta, con le stesse navi, Dubac e Salvore (cariche di 5-6 tonnellate di viveri richiesti), e la stessa scorta della Torpediniera Sirio e noi Corvetta Sibilla. Navigazione tranquilla all'andata, ma all'arrivo abbiamo trovato una situazione desolante. Desolante per quei soldati calati dalla Croazia orientale (un soldato mi disse che proveniva dalla Slavonia, mai sentita nominare tale regione), un altro mi disse che veniva da Giannina e molti da varie località dell'Epiro. Erano in uno stato pietoso, poiché i partigiani titini li avevano depredati di tutto, scarpe comprese. E' cominciato l'imbarco col solito rituale, solo che tutti quei soldati non erano armati e la maggior parte erano scalzi e con le divise a brandelli. Terminate le operazioni d'imbarco, siamo salpati prendendo la via del ritorno.
Nel bel mezzo del Canale di Otranto siamo stati attaccati da un gran numero di Stukas (decollati dalla vicinissima Corfù). L'attacco é stato repentino, a volo radente sul livello del mare, per cui non abbiamo avuto il tempo di brandeggiare le mitragliere perchè le cabrate e le successive "picchiate" ci hanno costretto a salvarci con estreme virate Il Sirio, noi Sibilla e il Salvore, manovrabilissimi, abbiamo evitato tutte le bombe che ci sono state lanciate. Il Dubac, purtroppo, é stato centrato da 2-3 bombe causando una carneficina fra i soldati stipati all'inverosimile. Per questo, il Dubac ha cominciato a sbandare sul lato sinistro per il cui sbandamento si é cercato di controbilanciarlo facendo affluire tutti i soldati incolumi, all'interno (lato agibile) e all'esterno, del lato destro. Al Comandante del Dubac é stato ordinato di andare avanti con le macchine a tutta forza, fino a raggiungere la costa salentina ove potersi arenare o incagliare, per evitare l'affondamento, cosa che é avvenuta. Alla Torpediniera Sirio é toccato l'ingrato compito di accostarsi al Dubac per prendere i feriti più gravi per portarli immediatamente a Brindisi (quando vi é arrivato, aveva tutta la tolda intrisa di sangue, ma anche il Dubac aveva il lato sinistro sporco di sangue). I feriti meno gravi sono stati soccorsi dai mezzi sopraggiunti da Otranto e trasportati a Lecce. I morti, quasi duecento, sono stati recuperati succesivamente. Noi Sibilla, invece, abbiamo ricevuto l'ordine di scortare la motonave Salvore fino a Brindisi. Sono ancora convinto che se i nostri soldati fossero stati fatti affluire verso il porto di Valona, che é quasi di fronte a Brindisi, molto probabilmente avremmo potuto rimpatriare molti-molti altri soldati [evidentemente Caria non sapeva che Valona era già stata occupata dai tedeschi il 10 settembre, nda]. Non é stata progettata ed eseguita altra missione per Santi Quaranta, visto il grande pericolo che occorreva affrontare. Pazienza per quelli che si trovavano molto più a sud (Peloponneso, Morea) e quelli in Tessaglia e a nord della Grecia, compresi i Carabinieri martiri di Cefalonia e quelli del Dodecaneso, Lero compreso-ove c'era un mio cugino. Il destino per quei soldati, marinai, carabinieri che non si sono potuti rimpatriare é stato di finire nei campi di concentramento (o lager) in Germania.”


L’arrivo a Brindisi dei feriti trasportati dalla Sirio, nel ricordo del cannoniere Luigi Camuso della corvetta Fenice:

“La torpediniera Sirio attracca in tarda mattinata al pontile di legno a poca distanza dalla nostra nave,  a ridosso del castello Svevo e all’altezza della finestra dove spesso si affacciava il Re. C’è un accorrere di infermieri, barelle, tra urla di dolore e di rabbia.
La torpediniera ha la tolda coperta di sangue e  mentre gli infermieri sbarcano i feriti, vi sono marinai che con ramazze e grandi spatole cercano di lavarlo via,…il mare tutto intorno si colora di rosso. ..ad un tratto la tromba suona il silenzio e la bandiera viene abbassata a mezz’asta:  un alpino, con il cappello e la penna  calato in testa , le mani e le gambe mozzate da una bomba degli Stukas, spira mentre sta per scendere dalla nave.
Alziamo tutti gli occhi verso la finestra del Castello: un re turbato, con il viso stravolto, distoglie lo sguardo da quello strazio e rientra all’interno, forse piangendo.
Per noi della Fenice rientrati da poco a Brindisi da un’altra sfortunata operazione,  nel canale di Santa Maura, con ancora negli occhi l’immagine di corpi di italiani galleggianti inerti tra resti di scafi affondati dai tedeschi e  spiagge piene di soldati che ci imploravano di raccoglierli, questa scena ci lasciò attoniti, senza forze, consapevoli di vivere uno strazio che coinvolgeva l’Italia intera e che non avremmo mai voluto che si potesse ripetere.”